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La Crusca Provenzale di Antonio Bastero, 1723. Franc Catalan Provenzal.

La Crusca Provenzale di Antonio Bastero, 1723. Franc Catalan Provenzal.

La Crusca Provenzale di Antonio Bastero

Volume Primo

La Crusca Provenzale di Antonio Bastero

https://books.google.de/books/about/La_Crusca_provenzale_ovvero_Le_voci_fras.html?id=Nrf6-eWExjUC&redir_esc=y

(Editor: Ramón Guimerá Lorente. Notas al pie al final.)

Che l’ antico Provenzale, per lo più sia scurissimo, &c. lo dico per prova, avendoci fatti studi non ordinari nella Libreria de MSS. di S. Lorenzo del Serenissimo Gran Duca mio Signore, nella quale se ne conservano due Raccolte, e una di queste antichissima in carta pecora; e ho veduto, che non ostante questa difficultà d’ intendere, e in alcuni Autori di loro impossibilità, sarebbe cosa utilissima per le origini, e proprietà della Lingua Toscana, il dargli fuora tali quali egli sono, con farvi attorno quelle osservazioni, che si potessero. ANTON MAR. SALVIN. Nelle sue Considerazioni Critiche intorno al Trattato Della Perfetta Poesia Italiana ristampato in Venezia nel presente Anno 1724. insieme colle suddette Considerazioni, Lib. 2. Cap. 9.

LA 

CRUSCA PROVENZALE

OVVERO, 

LE VOCI, FRASI, FORME, E MANIERE DI DIRE, 

che la gentilissima, e celebre lingua toscana ha 

preso dalla Provenzale; arricchite, e illustrate, 

e difese con motivi, con autorità, 

e con esempi. 

AGGIUNTEVI 

alcune memorie, o notizie istoriche intorno agli antichi Poeti 

Provenzali Padri della Poesia Volgare, particolarmente 

circa alcuni di quelli, tra gli altri molti, che furono 

di Nazione Catalana, cavate da’ MSS. Vaticani

Laurenziani, e altronde. 

OPERA

DI DON ANTONIO BASTERO

Nobile Barcellonese, Dottor in Filosofia, e nell’ una, e l’ altra Legge, 

Canonico, e Sagrestano Maggiore della Cattedrale di Girona,

ed esaminatore Sinodale della medesima Diocesi, detto

fra gli Arcadi IPERIDE BACCHICO. 

VOLUME PRIMO.

IN ROMA, MDCCXXIV.

Nella Stamperia di Antonio de’ Rossi, nella Strada del Seminario Romano,

vicino alla Rotonda.

CON LIZENZA DE SUPERIORE. 

Noi infrascritti spezialmente Deputati, avendo a tenore delle Leggi d’ Arcadia riveduta un’ Opera del Sig. Don Antonio Bastero, detto tra gli Arcadi Iperide Bacchico, intitolata La Crusca Provenzale &c. giudichiamo, che l’ Autore nell’ impressione di essa possa valersi del Nome Pastorale, e dell’ Insegna del nostro Comune.

Semiro Acidonio P. A. Deputato. 

Mireo Rofeatico P. A. Deputato. 

Eugildo Scilleo P. A. Deputato. 

Attesa la suddetta Relazione, in vigor delle facoltà comunicate alla nostra Adunanza dal Reverendiss. P. Maestro del Sac. Palazzo Apostolico, si concede licenza al suddetto Iperide Bacchico di valersi nell’ Impressione della mentovata sua Opera del Nome, e dell’ Insegna suddetti. Dato in Collegio d’ Arcadia &c. Al 1. dopo il xx. di Posideone Cadente, l’ Anno III. dell’ Olimpiade DCXXV. ab A. I. Olimp. IX. Anno II.

Alfesibeo Cario Custode Generale d’ Arcadia.

Loco + del Sigillo Cust.

Nisalgo Diagoneo Sottocustode.


IMPRIMATUR,

Si videbitur Reverendissimo Patri Magistro Sacri Palatii Apostolici.

N. Baccarius Episc. Bojanen. Vicesgerens.

Librum, cui Titulus: La Crusca Provenzale &c. Auctore D. D. Antonio Bastero Patritio Barcinonense, integrè, & accuratè perlegi, nihilque in eo inveni, quod vel Sanctae Fidei Catholicae puritati, vel bonis moribus adversetur: quinimò illum utpote rarâ, ac singulari eruditione refertum, & Litterariae Reipublicae non modicè utilem, ac proficuum, publicâ luce dignissimum censeo hac die 28. Decembris 1723. 

Philippus Hortentius de Fabris Eminentissimi D. Cardinalis Salerni à Secretis.

IMPRIMATUR.

Fr. Gregorius Selleri Ordinis Praedicatorum Sac. Palatii Apostolici Magister.


PREFAZIONE.

Lo stesso animo, e la medesima mente, che nel compilare il Vocabolario Toscano ebbe l’ Accademia della Crusca, la quale fino dal principio della sua erezione, altro non ha avuto per fine, che l’ universal beneficio, e la gloria, e l’ eternità del suo gentilissimo Idioma, secondochè ella manifestamente dichiara nel Proemio di quella incomparabile Opera, e fece palese a tutto ‘ l Mondo, il dottissimo Bastiano de’ Rossi (1: Nella sua Lettera Dedicatoria del primo Vocabolario della Crusca stampato in Venezia 1612.) cognominato l’ Inferigno; quella appunto in riguardo alla mia Lingua Provenzale, ho avuta io nella presente Compilazione delle voci, frasi, e forme di dire, che la Toscana ha tolto dalla stessa Provenzale: Imperocchè essendom’ indirizzato nell’ anno 1710. verso l’ alma Città, ù siede il Successor del maggior Piero, per difendere ‘ l dritto d’ una certa fondazione nominata la limosina del pane della Chiesa di Girona; stabilita sotto la protezione, e dipendenza del Sagrestano Maggiore di quella Cattedrale; e avendo quivi a poco a poco gustata la dolcezza della Italiana favella, ed intese le sue belle locuzioni, ne rimasi talmente invaghito, che proccurai di ricercare, e diligentemente osservare tutte le sue proprietà, e fattezze, e d’ introdurmi per entro i fuoi più ricchi gabinetti, col pensiero di farne alcun registro, non solo per mio genio, ed ammaestramento, ma per per darne particolarmente un faggio a’ miei Compatriotti, col mezzo d’ una Gramatica, e d’ un Dizionario per uso de’ medesimi: E tanto più me se ne accese il desiderio, quanto che rifletteva, che noi Catalani non abbiamo alcuna Gramatica, o Dizionario di questa Lingua, spiegata nel nostro Volgare; ma in questa materia, vaglia il vero, confesso, che siamo stati troppo trascurati, imperciocchè (quel che è peggio) nè pure abbiamo alcuna sorte di libri, o Autori, che per via di regole gramaticali, o altramenti ci ‘ nsegnino a ben parlare la nostra propia, e naturale, se non se ‘ l Donatus Provincialis, o chiunque sotto tal nome, e titolo, alludendo a quel Donato, ch’ alla prim’ arte degnò poner mano scrisse la breve, ed antica Gramatica Provenzale, o Catalana, ch’ è tutt’ uno, che manoscritta si conserva nella Libreria Medicea Laurenziana, e in Santa Maria del Fiore di Firenze, della quale fanno menzione, e si vagliono della sua autorità i primi Letterati d’ Italia (2). 

II. Non così certamente addiviene egli appresso quasi tutte l’ altre Nazioni del Mondo. Qual Nazione si troverà, che non proccuri di conservare, ed abbellire la sua natía favella, siccome ognuno per diritto di Patria è obbligato, con prescriverne le regole, e i precetti, e registrarne per alfabeto tutte le voci, e maniere di dire? E che non proccuri altresì, che non le manchi delle Gramatiche opportune, e proprie per apprendere le forastiere più nobili, ed erudite? Forse non se ne troverà alcuna eccettuatane la Catalogna. E per non allontanarmi dalla medesima Lingua Italiana, o per meglio dire Toscana, fra le Nazioni, e i popoli più riguardevoli dell’ Europa, ci dovrebbono servire di stimolo i Castigliani, e tutti quegli Spagnuoli, che sin dalle fascie cominciano ad apparare la Castigliana, succhiandola, come suol dirsi, col latte materno, i quali, per questo fine di apprendere l’ idioma Toscano anno un Lorenzo Franciosini Fiorentino; siccome anche i Francesi, i quali pel fine medesimo anno Cesare Odini, e il Veneroni; tralasciando di far menzione degli Autori, che ne anno scritte latinamente le regole, come sono il Lapini, stampato in Firenze appresso i Giunti, nel 1574., Gio. Battista Coiro impresso in Colonia, nel 1642., il soprammentovato Franciosini, nel suo compendio facis linguae Italicae, pubblicato in Roma; ed altri.

III. In seguito poi delle sopraccennate diligenze, incominciai a far le mie osservazioni dall’ abbicì delle sopraddette Gramatiche, e di altre della medesima Lingua, spiegate nella Franzese, intorno alla quale aveva io già fatto particolare studio, alcuni anni prima. Ed essendomi avveduto dopo averle lette, e ben considerate, che elleno altro non erano, ch’ embrioni, per così dire, senza capo, e senza coda, ed in molte cose mancanti, fatte per lo più da persone solite a girare per le Corti, e Cittadi grandi, col titolo di Maestri di Lingue, per procacciarsi così il vitto, benchè per altro, di non poco utile sieno, posciachè colle loro gramaticali lezioni ci aprono la strada da pervenirne poi mediante lo studio alla più perfetta cognizione: Alzai però la vela della mia navicella per prendere di nuovo lingua, e pratica ne’ banchi, e nelle scanzie de’ Librai a Pasquino, ove incontrai alcuni de’ più esperti nocchieri per la ‘ ntrapresa navigazione, come il Buommattei, il Pergamini, il Cinonio, il Salviati, ed altri; e per isfuggire gli scogli degli errori, mi prevalsi incontinente de’ loro avvertimenti, e trattati, e del Ragionamento, e Catalogo delle opere più eccellenti, che intorno alle principali arti, e facoltà sono state scritte in Toscano, l’ uno, e l’ altro composto dal dottissimo Monsignor Giusto Fontanini. Ed in fatti colla guida de’ suddetti Autori, e veri Maestri, cominciai a disegnare la premeditata Gramatica per uso della mia Nazione, e degl’ intendenti della Lingua Catalana, e tutto ‘ l tempo che avanzava alle mie importanti occupazioni attenenti alla lite allora vertente nella Sagra Romana Ruota sopra l’ accennata elemosina di Girona, l’ impiegava nel lavoro dell’ opera medesima; nella quale poi, dopo averne abbozzati alquanti capitoli, volendo anche discorrere, e trattare dell’ origine della stessa Italiana favella; e perciò desiderando scoprire, e accumulare altre notizie, oltre a quelle da’ suddetti Autori dimostrate, rivolsi l’ occhio al mentovato Catalogo, e presa nota degli Scrittori, che anno trattato della materia, andai alla Libreria Casanattense; e per mezzo delle Prose del Cardinal Bembo, e coll’ Ercolano di Benedetto Varchi, che furono i primi libri, che lessi in quella Libreria, vidi, ed intesi, come la Lingua Toscana era in gran parte composta della Provenzale (3), e quasi di due Madri figliuola, cioè della Latina, e di essa Provenzale 

(4); e che gli antichi Provenzali Poeti, altrimenti con più acconcio nome Trovatori appellati, dal trovare il tropo, o la maniera del canto, furono i Padri delle Rime volgari, ei Maestri, che insegnarono il poetare agl’ Italiani (5): Il che anche più chiaramente compresi nel progresso de’ miei studi, da altri non men autorevoli Scrittori sì Spagnuoli (6), che Provenzali (7), e Franzesi (8); oltre alla famosa schiera degl’ Italiani, che dall’ eruditissimo Crescimbeni furono annoverati, ed illustrati nella sua Istoria, ed Origine della Volgar Poesia (9), per maggiormente autenticare la verissima opinione del Cardinal Bembo, e di tanti altri valentuomini circa la medesima Origine, e per rintuzzar la soverchia libertà di quelli, che portati più dalla volontà di contraddire, che dalla ragione, si lusingano di mantenere opinione contraria, come altamente prorompe parlando di simili contraddittori, esso Crescimbeni ne’ suoi gravissimi, e celebri Comentari della detta sua Istoria (10: Nella Introduzione del Volum. 2. part. I.).

IV. E riflettendo, che la Lingua Provenzale, è la stessa appunto, che la mia materna Catalana, come attestano parecchi Autori (11); e può conoscere ognuno, confrontando le parole, le maniere, i modi di dire, e lo stile delle nostre antiche Costituzioni di Catalogna, esistenti nella Biblioteca Barberina, cogli antichi Statuti di Provenza, che si trovano nella Libreria Casanattense; e come anche più agevolmente riconoscerà il Lettore dalla lettera, che per questo effetto ho estratta dalla Storia, e Cronica di Provenza di Cesare di Nostradama (12: Part. 6. fogl. 606. e 626.), scritta da Renato d’ Angiò Re di Napoli il decimosesto, e Conte di Provenza il ventunesimo nell’ anno 1468. en son bon, & franc Catalan Provenzal, come dice l’ istesso Nostradama (13: Nel luogo citat. car. 626.), a Giovanni d’ Angiò intitolato Duca di Calavria suo figlio primogenito, e Generale dell’ Armata Franzese, e Provenzale, che allora si trovava ne’ confini di Catalogna; (benchè nel detto anno, anzi ventisei anni prima, fosse già il suddetto Conte scaduto dalla Reggia di Napoli, avendo prevaluto il partito, e il valore delle armi de i Catalani, e degli Aragonesi contro degli Angioini, ed essendo in essa rimasto trionfante, e coronato sino dal 1442. il Re Alfonso il II (N. E: V), d’ Aragona, e il I. di Napoli (14 – Scipione Mazzella nel suo Catalogo de’ Re di Napoli, Angioini, Aragonesi, Castigliani, ed Austriaci. -, cognominato il Magnanimo) la qual lettera ho qui trascritta con la medesima ortografia, che nella predetta Istoria si legge del seguente tenore; Illustrissimo, e carissimo Duch, primogenit, Governador, e Loctenent general nostre: Nos com saben (sabeu) en los dies passats avens consideratiò als bons servicis, e merits del noble, e amat conseiller nostre Mossen Barthomeu Gary, l’ y donam perpetualment en feu honorat segon costum de Cathalunia, per à el, e à sos fils emperò mascles de legitim matrimoni procreadòs lo Viscomtat de Bas, que ez prop las montanyas de Ampurdà, e certs castels, e altres coses que tenia en las parts de Ozona Joan de Cabrera, à nos inobedient, e rebelle, segon aquestes, e altres coses largament poreu veure en unas lettras patens à vous, e à altres dressades lou dia present dades. 

E perque ez nostra ferma volontat, e intentiò, que lod. Moss. Borthomeu dè, aya, e consequesca la possessiò libera del dit Viscomtat, Castelz, e altres coses per nos à el donades, axi prest com vinguen à nostra obediensa, vos encarregam que axi ho façau executar per effecte, e per res non aya falla, com axi proceesca de nostra pensa: E sia illustrissimo, e carissimo Primogenit, e Loctenent general nostre la Santa Trinitat vostra garda. Dadas en lo nostre Castel de Bauge à xxix. del mes d’ Abril de l’ ani Mcccclxviij. 

E trasportandola poi in Franzese il medesimo Cesare di Nostradama vi fa la seguente riflessione: Çette lettre de ce bon pere a son cher fils, qui ne têmoigne moins l’ amitié grande qu’ il luy portoit, que l’ antiquité, & l’ excellence de nôtre Vulgaire voire la conformité qu’ il a avec le langage qu’ on usoit du temps de Charles le Chauve, pour preuve que les Provençaux ont êté les premiers qui ont donné langue au reste des Gaules &c. sonne en François ces mêmes paroles &c.


V. Il che anche attesta il mio Salvin, che ha tante lingue in bocca, Lettore di Lettere Greche nello Studio di Fiorenza, ed intendentissimo di tutte le lingue nobili, e principali, sì vive, che morte; imperocchè, essendo stato interrogato dal Crescimbeni, intorno ‘ l valore, o significato della nobilissima, ed antichissima particella Provenzale En, che si trova accanto i nomi propi, come lo Rey en Jacme, lo Rey en Pere; o della N in sua vece, e per accorciamento, attaccata co i nomi, che da vocale incominciano, come lo Rey Nanfos, Narnald, Naymeric, Nug, e simili, per confermazione della sua risposta, la quale fu, che non vale altro, che Don, e che tanto era in Provenzale il dire Narnald, Naimeric, Nug, quanto Don Arnaldo, Don Amerigo, e Don Ugo: siccome a i nomi propri femminili si aggiungeva la particella Na, come Namaria, Donna Maria, e simili, come si noterà appieno alla voce Nabisso; si prevalse de’ nostri libri Catalani, e spezialmente d’ un prezioso manoscritto, che si conserva appo ‘ l medesimo accennato Abate Anton Maria Salvini, intitolato: Istories, e conquestes del Reyalme d’ Aragò, e Principat de Cathalunya compilades per lo honorable Mossen Pere Thomich Cavaller, les quals tramet al Reverent Archabisbe de Zaragoça (15: Presso il Crescimben. Comentar. Istor. Volgar. Poes. Volum. 2. par. I. car. 28. e 61.). 


VI. E riflettendo inoltre, che la Contea di Catalogna, ha dato più tosto questa nostra lingua alla Provenza, che da essa Provenza ricevutala, siccome l’ ha donata a i Regni di Valenza, Majorca, Minorca, Sardigna (16), Murzia (17), ed altri (18): Si perchè i nostri Conti di Barzellona furono per lungo tempo sovrani del Contado di Provenza (19), sotto ‘ l comando de’ quali cominciarono in essa Contea a fiorire i Poeti (20), e nel medesimo tempo, quei popoli, colla pratica, e soggiorno della Corte Catalana pulirono il lor dialetto, e di nobili, e cortigiani abbigliamenti a uso di Barcellona, il resero molto vago, e dovizioso (21); ed all’ incontro finita in quella Contea la descendenza de l’ alta stirpe d’ Aragone antica, ovvero de’ Serenissimi Conti Catalani, per morte del quinto, ed ultimo Ramondo Beringhieri, e succeduti ad essi gli Angioini, cominciò a declinare in quelle parti la poesia (22); anzi la stessa lingua, estinto che fu in Provenza il Real sangue di Catalogna, e sottratto per così dire, il latte, che la nutriva, venne a poco a poco mancando, e dileguandosi da quelle Contrade, come affermano Filippo, e Jacopo Giunti (23). E come anche per l’ autorità del sopra nominato Cesare di Nostradama, il quale parlando nella sua citata Istoria di Provenza (24: Part. 5. fogl. 540.), della carica di Veguer (cioè Bargello) della Città di Marsiglia, la qual carica, come egli dice, se souloit donner par grand honneur à des plus êlevez Gentilommes & mieux qualifiez du païs, che così pure si praticava in Barcellona mia Patria, e nell’ altre Città del Principato negli andati secoli; dopo aver addotta la formula del giuramento, che in Lingua Provenzale, o vero Catalana prestava esso Veguer nel suo nuovo ingresso in detto posto, in presenza de i Consoli della Città costringendolo ad osservare gli antichi loro statuti, e privilegi, la qual formula trascrive à fin qu’ on voye (dice egli) avec quelles protestations, & ceremonies ils estoient anciennement receus en cête charge, soggiunge immediatamente queste parole: 

Ce sont les sermens, & les protestations &c. & le ramage (il linguaggio, o dialetto) demi Cathelan (è tutto Catalano bello, e buono; ma scorretto, ed infranzesito) & paradvanture celuy-là même dont nos premiers Gaulois ont puisé leurs langues, locutions, & vocables. E per quest’ altra di Antonio Ruffi nella sua Storia della Città di Marsiglia (25: Lib. 10. cap. 4. fogl. 445. ediz. 1642., e tom. 2. lib. 13. cap. 4. fogl. 331. ediz. 1696.), ove riferisce, che au commencement du douzieme siécle les Marseillois commencerent d’ abâtardir leur idiome (a pulire, più tosto, non a imbastardire) par le commerce qu’ ils eurent avec les peuples maritimes, si bien, qu’ il se fit un grand mélange des mots Catalans. Quindi è, che determinai di andare raccogliendo, giusta ogni mia possa, tutte le voci Provenzali che potessi rintracciare usate dagl’ Italiani, e di farne un alfabeto per inferirlo nella Gramatica.


VII. Per la qual cosa poi, tenendo ben a mente quello, ch’ aveva letto nelle mentovate Prose del Bembo, cioè, che de’ Rimatori Provenzali se ne leggono per chi vuole molti, da’ quali si vede, che anno apparate, e tolte molte cose gli antichi Toscani, e appresso: Fu adunque la Provenzale favella estimata, e operata grandemente, siccome tuttavia veder si può, che più di cento suoi Poeti si leggono, ed hogli già letti io, adoperai ogni diligenza per leggere, e scoprire dalle tenebre dell’ obblivione i componimenti di questi antichi Maestri, e Padri della Volgar Poesia; e il primo passo, che perciò diedi, fu alla Libreria Angelica, ove avendo domandato al dottissimo P. Fr. Basilio Resseghieri, Custode di essa, se per ventura vi fossero alcune Rime in Provenzale, mi rispose, che in uno de’ Volumi de i Comentari del Crescimbeni intorno alla Istoria della Poesia Volgare, ce n’ erano alcune; e conseguentemente dopo aver egli guardato l’ Indice de’ libri, mi porse in mano il prezioso Volume delle Vite de’ più celebri Poeti Provenzali, altrimente intitolato: Comentari del Canonico (ora Arciprete) Gio. Mario Crescimbeni Custode d’ Arcadia intorno alla sua Istoria della Volgar Poesia. Volume secondo, contenente l’ ampliazione del secondo libro dell’ Istoria, mediante le Vite, i giudizi, e i faggi de’ Poeti Provenzali, che furono PADRI DELLA DETTA POESIA VOLGARE, e pubblicato d’ ordine della Generale Adunanza d’ Arcadia in Roma 1710. e dappoi nel 1722. ristampato con varie correzioni, e molte ampliazioni fattevi dal medesimo Autore; ed immediatamente dopo, che ‘ l suddetto P. Resseghieri ebbe fatto ‘ l solito segno da serrare la libreria, feci diligenza per provvedermi del detto libro, del quale mi favorì lo stesso Autore mio riveritissimo Padrone Gio. Mario Crescimbeni Arciprete dignissimo della Basilica di S. Maria in Cosmedin, Accademico Intronato, e della Crusca, e di tutti i Collegi letterari Italiani, e di molti di là da’ monti degnamente laureato (26) Custode, ed uno de’ primi Padri d’ Arcadia, per la cui fondazione, propagamento, e difesa, siccome della più insigne Compagnia di Letterati, che da più secoli siasi raccolta, e per l’ immortalità, che ha data a tanti illustri nomi d’ Arti liberali, di Scienze, e di Scienziati, merita, che al suo infaticabile ingegno sia alzato in ogni Città aperta al commercio dell’ Italiane lettere un monumento. Cavata, ch’ ebbi da questa ricca miniera del mentovato, e non mai abbastanza lodato Crescimbeni, tutta la sostanza; e presa nota de’ Codici manoscritti delle Rime Provenzali in detto Volume allegati; e degli Autori parimente in esso citati; ed indi poi fatto lo spoglio delle Considerazioni del Tassoni sopra le Rime del Petrarca, del Vocabolario, o della Tavola dell’ Ubaldini al Barberino, e delle Annotazioni del Redi al suo Bacco in Toscana, vidi, che la raccolta delle Voci Provenzali cresceva, e di giorno in giorno notabilmente aumentavasi, e perciò altro luogo, e sito da quello, dove io aveva determinato collocarla, richiedeva. Laonde mi risolsi a farne un libro distinto, e di per se, con addurre sotto ciascheduna delle voci Provenzali, uno, o più esempli, sì de’ suddetti Maestri, e Padri della Poesia Volgare, che de’ Prosatori antichi, e tutte l’ autorità, che a mio uopo potessi ritrovare, con ribattere quelle, che mi fossero contrarie; onde sin d’ allora, che feci la nuova scoperta del suddetto tesoro, abbandonai la principiata Gramatica, di cui è rimasto un embrione, non senza speranza però, che possa un giorno uscire alla luce.


VIII. Così dunque, sull’ accennato progetto, e coll’ istesso motivo che ebbe l’ Accademia della Crusca nel porre nel suo Vocabolario al rincontro di alcuni vocaboli le voci greche, il qual motivo, altro non fu, che per agevolare con queste la dichiarazione di quelli, come avvertono gli Accademici (27); incominciai di bel nuovo ad operare con somma applicazione, e con acceso desiderio di giungerne a fine, colla speranza, che ciò farebbe caro alla mia Patria, e che me ne saperebbero grado non solo tutti quegli, che s’ interessano nella gloria della lingua Provenzale, ma eziandio gl’ Italiani, posciachè questi col mezzo degli esempli de’ Poeti, e scrittori Provenzali, posti accanto de’ Toscani, verrebbero più agevolmente in conoscimento della loro sonora, e per tutto ‘ l mondo rinomata favella; siccome in un certo modo considerarono gli stessi Accademici nell’ ultima compilazione del loro Vocabolario, dove tra le molte voci, che non furono registrate nelle antecedenti edizioni, vi aggiunsero questa: Plusori, col Provenzale accanto, che è Pluzors (28); e siccome altresì pubblicamente ammonisce alla suddetta Accademia, il dottissimo Abate Anton Maria Salvini nella sua Lezione fatta Per l’ apertura della generale Adunanza dell’ anno 1704., in parlando della nuova Crusca, che è per istamparsi, in questa guisa (29): Come tutte le lingue figliuole sono dell’ umano intelletto, e che queste secondano certi comuni movimenti dell’ animo, il confronto della nostra colle erudite lingue, e colle volgari vicine, di quanto avvantaggio non riuscirebbe egli per internarsi nella cognizione delle cose medesime, delle quali le parole sono immagini vive, ed impronte? E in quella Sopra la nuova edizione del Vocabolario (30): 

Il confronto di nostra Lingua coll’ erudite lingue, e co i volgari d’ Europa infinitamente cresce il diletto, e ‘ l frutto insieme. Soggiungendo (31): Non obbliai (dice egli) i Poeti Provenzali, che dallo inventare le parole, e la musica, Trovatori con acconcio nome chiamavano, i quali, come de’ Poeti Greci dice appresso Cicerone Antonio, sembrano con altro linguaggio aver parlato; così è egli strano, e a intendersi oggi duro, e malagevole. E per quelli in alcuna guisa intendere, il vecchio Gaulese, o Francesco idioma, curiosamente investigai, tutto per accattar lume, onde la nostra cara favella ne’ suoi principii, e progressi si rimirasse, ed illustrasse.


IX. E tanto più il sopraddetto motivo, che ebbero quegli Accademici di accoppiare le voci volgari, con le greche, m’ indusse a far l’ istesso del Toscano col Provenzale, quanto che la Lingua Toscana non si può ben intendere, senza l’ intelligenza della Provenzale, come lasciò scritto il sopra citato Benedetto Varchi in parlando del Cardinal Bembo (32): 

E perciò la bella, ed egregia Città di Firenze, donde presero le lor leggiadre maniere gli Scrittori di primo grido, de’ quali tutti ella fu Madre, o nudrice (33), intenta sempre a far lume agli studiosi della Toscana favella, insegnando il suo stesso Fiorentino parlare all’ Italia, che così, cioè Lingua Fiorentina, innanzi alle celebri controversie di nome su questo affare, dicevasi, conserva sino da’ tempi antichi nelle sue pubbliche, e private librerie, fra gli altri preziosi manoscritti, non solo la Gramatica Provenzale altra volta mentovata, ma eziandio il Glossario, l’ Onomastico, e ‘ l Rimario della medesima Lingua, de’ quali mss. si sono prevaluti l’ Ubaldini per dichiarazione delle voci del suo Vocabolario alle Rime di Francesco Barberini (34), il Redi per intelligenza, e comento del suo famoso Ditirambo titolato Bacco in Toscana (35), e il Salvini nelle sue Sposizioni sopra ‘ l Petrarca (36).


X. In questo stato, che quasi posso dire, che non avea fatto altro, che ‘ l solo disegno della macchina, fui costretto ad interromperne, e tralasciarne il lavoro, perciocchè s’ aveva da risolvere in Ruota la sopraccennata mia causa della elemosina del pane di Girona; ma all’ incontro poi, ottenuta in essa Causa, Sentenza, e Decreto favorevole, secondo ‘l tenore delle Sacre Ruotali Decisioni nella medesima pubblicate, e così difinita, e con somma mia quiete, e contentezza gloriosamente del tutto terminata; nel mentre che stava attendendo un’ altro decreto, cioè, quello della, molt’ anni, (a: Qui diu desiderata, spiega, e comenta il Vocabolario in questo passo di Dant. Purg. 10. alla voce Lacrimato) lacrimata pace, ebbi più agio di ripigliare, tutto lieto, e vittorioso l’ incominciato lavoro, e di spogliare le più famose librerie di Roma, ed altre d’ Italia, con tanto mio genio, e soddisfazione, che la dolcezza, che sentiva nel cavare dalle inesauste miniere di nostra Lingua le più fine, e le più riposte ricchezze per arricchirne, ed illustrarne quella de’ Toscani sua cara sorella, e quasi figliuola, e rendere per così fatto modo la medesima nostra diletta la Provenzale, gloriosissima, ed immortale, mi fece gittar dietro le spalle ogni altra cosa, che potesse cagionarmi disgusto, ed amarezza. Laonde dopo molti anni di studio, e d’ una inestimabile fatica, ecco finalmente, che ho ridotta l’ Opera a quel segno, che per me si è potuto il migliore, col mio Libro, che oggi con questo primo Volume (giacchè non ho tutto ‘l comodo per dar fuori a un tratto gli altri Volumi che seguono) incomincio ad esporre alla pubblica censura delle Accademie, e Letterarie Radunanze d’ Italia, e spezialmente di quella della Crusca, la quale, in questa materia di Lingua, ne ha sopra tutte l’ altre la sovranità, e suprema giurisdizione; e lo presento ai discreti, ed amorevoli Lettori in particolare, che supplico a voler degnarsi d’ accoglierlo sotto la loro protezione, e difesa; il che tanto più mi riprometto, quanto che trattandosi qui dell’ eccellenze, e qualità della Lingua Provenzale, e della Italiana, o di quella di Oc, e di quella di Sì, che così sono ottimamente appellate dall’ incomparabile Dante (37), onde prese la Gaule Narbonese il nome di Lenga d’ oc (38), che i Franzesi appellano malamente coll’ articolo maschile, le Languedoc; sotto le quali viene compresa la maggiore, e più bella parte d’ Europa, per conseguenza essendovi quasi tutti generalmente interessati, (potendo io dire, e in verità affermare, che non vi ho cosa particolare di mio, che ugualmente non sia loro) tocca a tutti e per obbligo, e per giustizia il difenderlo, come cosa propria, e naturale, e ritenerne perpetua, e generosa protezione, sì per quello che appartiene al Provenzale, come al Toscano, in quella maniera appunto, che sollecita, ed amorosa madre, ricca di doppia prole, con vie maggior cura, e tenero affetto l’ alimenta, e nodrisce.


XI. Quasi tutte le voci, e forme di dire, che per entro ‘l Libro ho annoverate, e registrate le ho cavate dal Vocabolario degli Accademici della Crusca, il quale in tutto ‘l corso del mio lavoro, ho avuto sempre davanti agli occhi, e non me lo son tolto mai di mano; riportando la sua medesima spiegazione, e dichiarazione de’ significati, e così anche ‘l Latino, come si legge in esso Vocabolario; e il medesimo ho fatto pure intorno al Greco, allorchè ho conosciuto, che la voce Provenzale sia dalla Greca originata, o che n’ abbia dependenza. Vi ho inseriti, o posti ancora molti degli esempli Toscani, acciocchè il Lettore possa più comodamente confrontargli con quelli dei Provenzali; e si veda, che da questi anno anche spesse fiate tolti i Rimatori, e Prosatori Toscani molti concetti, e molte invenzioni, come osservarono in parte il Bembo (39), l’ Equicola (40), il Bouche (41), il Paschieri (42), il Pittoni (43) i Nostradami (44), ed in particolare Gasparo Scuolano colle seguenti parole (45): “No se puede dexar entre renglones, que se pagaron tanto los Italianos de esta poetica invenzion y estilo de los Lemosines, que no solo les cogieron el arte, y metro, però aun las mesmas rimas traduzian en su lengua Italiana. Cien años antes que floreciesse el Petrarca, es à saber, el año mil doscientos y cinquenta, viviò en nuestra Ciudad un Cavallero famoso Poeta llamado Mossen Jordi, criado en la Corte del Rey Don Jayme el Conquistador; el qual con mucha gala usò de Sonetos, Sextiles, Terceroles, y Octavas rimas en Lengua Valenciana Lemosina. Y viniendo despues al Mundo el Petrarca, en el año de mil trescientos, y ventisiete, que se enamorò de madama Laura, llamandole su estrella al mayor lauro que Poeta vulgar ha podido conseguir, se valiò de las Obras deste insigne Valenciano, vendiendolas al Mundo por suyas en lengua Italiana. Pudiera dar por testigos à muchas de ellas, però contentareme con sola esta.

El Petrarca dice:

Pace non trovo, e non ho da far guerra;

E volo sopra ‘l Cielo, e giaccio in terra;

E nulla stringo, e tutto ‘l Mondo abbraccio;

Ed ho in odio me stesso, ed amo altrui:

S’ amor non è, che dunque è quel, ch’ io sento?

Mossen Jordi dixo:

E non he pau, e no tinc quim’ querreig;

Vol sobre l’ Cel, e nom’ movi de terra, 

E no estrench res, e tot lo Mon abràs;

Oy he de mi, e vull a altri gran be:

Si no es Amor, donchs açò que serà?

que traduzidos en Castellano quieren dezir: 

No tengo paz, y nadie me haze guerra;

Voy por los Cielos, sin dexar el suelo; 

Nada recojo, y todo el Mundo abraço;

A mi mesmo aborrezco, y amo a otri:

Y si esto no es Amor, que es lo que siento? 

El modo como pudieron llegar las Obras de Mossen Jordi Cavallero Valenciano a las manos del Petrarca, lo escrive nuestro Antonio Beuter en la Epistola proemial de su Coronica; donde dize, que hallandose en Gascuña con Don Jayme Colona Obispo de Lumbierri, en tiempo del Papa Juan XXIII. como llegasse à las rayzes de los Pyrineos (segun se comprehende de los Comentarios de Alexandro Vellutello en la Vida que escriviò del Petrarca) pudieron venir a sus codiciosos ojos, como tentados de aquel manjar, las rimas del dicho Cavallero, que ya entonces corrian por Cataluña, y Gascuña con grande renombre de su Autor; y entonces le desentrañò el estilo, las agudezas, ternuras, y conceptos, passandolo todo a su proposito, y Lengua.


XII. E qui di passaggio mi sia permesso il soggiugnere, e avvertire, che i primi tre versi de i cinque sopra trascritti del Petrarca sono del primo quadernario del Sonetto 103. part. I., che appunto incomincia Pace non trovo, ec. del qual Sonetto confessa Alessandro Tassoni nelle sue Considerazioni sopra le Rime di esso Petrarca, non ostante ‘l suo genio sempremai critico, ed alla censura inclinato, che non senza ragione vien lodato, ed ammirato da’ begli ‘ngegni; e il quarto, cioè Ed ho in odio me stesso ec. è del primo ternario del medesimo Sonetto; e il quinto S’ Amor non è ec. è principio del Sonetto 101. della suddetta parte prima, intorno al quale attesta parimente l’ istesso Tassoni, che senza alcun dubbio è ottimo. E di quì, allo ‘ncontro, può avvertire il Lettore, come ingiustamente, ed a gran torto dice esso Tassoni nella Prefazione delle predette sue Considerazioni, che ha proccurato liberar, 

sopra tutto l’ Autore da varie opposizioni, e calunnie di Scrittori diversi, tra le quali questa è la prima: Ch’ egli rubasse molte invenzioni, e concetti ad altri Poeti Toscani, e Provenzali, ch’ erano stati prima di lui; e che avendo lette la maggior parte dell’ Opere de’ Poeti Provenzali, nè solamente furto alcuno di rilievo non ho trovato: ma nè anche (son per dire) cosa degna, che un’ ingegno, come quello del Petrarca se n’ invaghisse; così son elle per lo più scarse al peso, e di quà dal segno della mediocrità. Giacchè egli voleva liberar il Petrarca, come dice di simili opposizioni, potea prevalersi per la difesa, ed apologia, senza biasimare l’ Opere di quei nostri Maestri, e Padri della Poesia volgare, dell’ autorità del Bembo, il quale intorno a questo nostro proposito così lasciò scritto (46): Ne solamente molte voci, come si vede, o pure alquanti modi del dire presero dalla Provenza i Toscani; anzi essi ancora molte figure del parlare, molte sentenze, molti argomenti di Canzoni, molti versi medesimi le furarono; e più ne furaron quelli, che’ maggiori stati sono, e miglior Poeti reputati. Il che agevolmente vederà, chiunque le Provenzali rime piglierà fatica di leggere. Ed indi l’ eruditissimo Abate Anton Maria Salvini, allorachè dimostrando, che per arrivare alla perfezione, ed all’ eccellenza nell’ arti, e nelle scienze, niuna strada vi ha più facile, nè più spedita, che l’ imitazione degli ottimi autori, che è quella, che vi conduce dirittamente, disse in lode dello stesso Petrarca (47): Non pure la Latina Lingua affatto perduta, ricondusse a novella vigorosa vita, ma nel Toscano Idioma molto osservò, e molto prese dagli antichi rimatori Provenzali.


XIII. In somma ritornando al Testo del suddetto Vocabolario, egli è stato il primo fondamento, e la principale base del mio Libro; e perciò solamente, l’ ho intitolato col nome della Crusca Provenzale; protestandomi però, che non pretendo con simil titolo, arrogarmi nella mia Lingua, il singolar privilegio, che intorno all’ Idioma Toscano gode l’ Accademia della Crusca, più d’ un secolo fa, cioè di abburattare, e cernere dalla crusca la farina degli Autori, che a questo fine di mano in mano se le presentano innanzi, posciachè, se ciò mi fosse lecito, (benchè col solo nome della Crusca, così assolutamente detto, s’ intenda in materia di Lingua, l’ istesso Vocabolario; e quasi si può dire, che questo suo metaforico significato, abbia usurpato il primo luogo al proprio) allora poi, il più bel fiore della Toscana Favella, in vece della Crusca Provenzale l’ avrei intitolato; per essere tutti i vocaboli, e parlari, che dal medesimo Vocabolario degli Accademici della Crusca ho cavati, e che gli Scrittori Toscani del buon secolo con finissima scelta presero dall’ Idioma Provenzale, il più bel fiore cogliendone, come fece, tra gli altri, qual’ ape ingegnosa (48), il Barberino; de’ più leggiadri, e de’ più sonori, e de’ più belli, ch’ abbia la Lingua Toscana, come ci avvertisce il Salviati (49); co i quali, gli stessi Toscani Scrittori, la favella loro, ancora in alcuna parte manchevole, di nuovi abbellimenti, e di nuove preziose ricchezze adornarono, come afferma Tommaso Bonavventuri (50); avendo così ingegnosamente la loro Poesia altresì renduta vaga molto, e ricca, e splendiente, come pubblica lo spesso (stesso) mentovato Anton Maria Salvini nelle sue eloquentissime Toscane Prose (51). 


XIV. Base, e fondamento in secondo luogo, di questo Libro, non meno che chiara fontana della nostra Provenzale Favella, sono stati quegli Autori, che scrissero con ogni purezza, e proprietà di Lingua, come sono comunemente quegli, che scrissero nell’ età d’ oro, che così chiamerò io il tempo in cui ella fioriva, siccome anno fatto alcuni Scrittori Latini, appellando così il tempo della lingua Latina, quando era in fiore (52); e i Toscani, respettivamente, il buon secolo del Volgar loro, quel tempo dal 1300. al 1400., nel quale veramente e si parlò, e si scrisse in Firenze con intera schiettezza, è senza quella varietà, e barbarie, che indusse poi il rimescolamento cogli altri dialetti, e lo studio posto nella Lingua Latina, che indusse per cotal guisa trascuranza della materna, come attestano gli Accademici della Crusca nella Prefazione del predetto Vocabolario.


XV. Questa età d’ oro, o questo tempo della purità, e bellezza del nostro Provenzal Idioma, si debbe contare, incominciando dal principio del Secolo XI., o in quel torno, fino all’ anno 1479., o poco dopo, nel qual’ anno s’ unì la Corona d’ Aragona con quella di Castiglia, per mezzo del parentado del Re d’ Aragona Don Ferdinando II., colla Regina di Castiglia Donna Isabella; imperciocchè in tutto detto spazio, e corso di tempo, e si parlò, e si scrisse in Catalogna (e in Valenza ancora fino dal tempo della sua conquista fatta dal Re Don Giacomo minato Lo Conquistador) senza quella varietà, per non dir barbarie, che introdusse poi a poco a poco il rimescolamento con altre lingue, ed in ispeziale lo studio posto nella Castigliana, che indusse per così fatto modo trascuranza della materna, benchè nel Tuddetto anno dell’ unione, ed alleanza delle due Corone, ancora fosse essa Castigliana rozza molto, e povera, e incolta, come vederemo appresso; onde alcuni, perduto l’ amore alla natural favella, di nuove, e straniere forme di parlare, ed al genio di essa non punto convenevoli la infettarono, ed altri, non istimando se non quel che è forestiero, a scrivere si posero in Castigliano, mettendo in non cale la propria, il che fu chiaramente accennato dal sopraccitato Gasparo Scuolano Annalista del Regno di Valenza con queste parole (53): “Con su hermosura natural se hallava tan adelantada, &c. que si como sus hijos con la agudeza de sus picos la fueron puliendo, y realçando hasta los años de mil quinientos y cinquenta, durára en el passo que llevava, llegára à los quilates mayores que puede la que mas tiene, com (como) lo ha hecho la Castellana de cien años a esta parte, teniendo en los de atràs tan grosseros principios. Però como el Imperio de la Corona de Aragon se passò à la de Castilla, incorporandose las Coronas, parece, que tambien se han querido incorporar las lenguas; tanto, que entrandose la Castellana por los mojones de Valencia, se ha enseñoreado de suerte del gusto de todos, que la natural Valenciana ha ydo afloxando de su vigor, y dexado de passar adelante en la nobleza, à que nuestros passados con tanta gloria suya la havian subido.”


XVI. E poichè ho toccata questa materia attenente all’ Istoria della nostra lingua, voglio far avvertiti i Lettori, particolarmente gl’ Italiani, che sebbene nell’ accennato tempo, cominciò essa ne’ suddetti Stati di Catalogna, e di Valenza, a declinare, e scemar di pregio; ma non coll’ istesso passo che nella Provenza, allora che in essa Contea s’ estinse la regia stirpe Catalana de’ Beringhieri, e in lor vece succederono, o per dir meglio vi si intrussero i Conti Angioini. In Provenza però nel tempo che’ l Cardinal Bembo scrisse le sue Prose, e che’ l Contado era unito col Regno de’ Franzesi, il che addivenne nel 1481. per morte del Conte Carlo d’ Angiò, che ne lasciò erede il Re Luigi XI., già quei popoli in gran parte corrottamente parlavano, come dice lo steso Bembo (54); e poi andò talmente in quelle contrade peggiorando, e di secolo in secolo perdendo il buon linguaggio nativo, che oggidì quasi sicuramente affermare fi può, che sia morto, non che corrotto in bocca de i medesimi popoli, ed altri dell’ Occitania, ed Aquitania: Ma in bocca de i popoli del Principato di Catalogna, e de’ Regni di Valenza, Majorica, Minorica, ed Iviza, sempre si è conservato vivo, e poco meno, che nel suo intero essere, fuorchè in alcuni vocaboli de’ più antichi, a cui ne sono stati sostituiti altri di nuovi, siccome sogliono far sempre tutte le lingue viventi; onde vedemo nelle Città d’ Italia, se ben volemo guardare, da cinquanta anni in quà molti vocaboli essere spenti, e nati, e variati, come disse Dante (55);

—– e ciò conviene (56): 

Che l’ uso de’ mortali è, come fronda 

In ramo, che sen va, ed altra viene. 

Onde Orazio parlando de’ vocaboli antichi, e moderni (57):

Multa renascentur, quae jam cecidere, cadentque 

Quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus, 

Que penes arbitriú est, & vis, & norma loquendi: 

e al medesimo proposito Terenzio Varrone (58): 

Consuetudinem loquendi esse in motu, itaque solere fieri ex meliore deteriorem: Vetustas enim, non pauca depravat, multa tollit.


XVII. Anzi nel Principato di Catalogna sul principio dell’ ultimo trascorso secolo, il nostro rinomatissimo Poeta il Dottor Vincenzio Garzia, e con esso lui Lo Regalo (delizia) de las Musas Don Joan de Boxadòs, e Lo esglay (spavento) d’ Apolo Cordellas, oltre agli altri molti, che in quel tempo fiorirono, come Don Francisco de Ayguaviva, Don Felip de Guimerà, e cento più, de’ quali fa egli menzione (59: Vincenzio Garzia nelle sue Rime a c. 121., e 122.), gli fecero mirabilmente rialzar il volo; onde lo stesso Garzia tra i suoi Sonetti (60: Il Garzia suddetto a car. 3.): 

Gaste (adoperi) qui de las flors de Poesia 

Toyas (mazzi di fiori) vol consagrar als ulls, (occhi) que adora,

Del ric aljofar (piccola perla; ma quì per metaf., Rugiada) que plora l’ Aurora,  

Quant li convinga dir, ques’ fa de dia. 

Si de Abril parla, pinte l’ alegria

Ab que desplega sas catifas (tappeti) Flora, 

O a Filomena, mentre cantant plora, 

De ram en ram, la llengua, que tenia.

A qui s’ diu Isabel, digali Isbella;

Sol, y Estelas als ulls; als llavis (a’ labbri) grana;

Llocs comuns de las Musas de Castella:

Que jo, peraquè sapia Tecla, o Joana, 

Qu’ estic perdut, per tot quant veig en ella, 

Prou tinc (mi basta) de la llanesa (schiettezza, purità) Catalana.

e nelle Cobbole (61: Luogo citato fogl. 122.):

No diu lo Senyor (b) Heredia

Que (c) gongorejo, y sò sol

Lo qui nostra axuta llengua 

La destrempo ab ayguarròs? 

Non dice il Signor Eredia,

Che gongorreggio? e ch’ io solo sono

Colui, che nostra asciutta lingua

Stempero con acqua rosa? 


(b) Heredia: Don Giuseppe Heredia famoso Poeta Castigliano coetaneo del Garzia.


(c) Gongorejo cioè, che scrivo alla maniera di Don Luigi di Gongora, che è il Principe de’ Poeti Castigliani, si per l’ invenzione, come per la purità, e finezza di linguaggio.


E oggi giorno col mezzo della moderna Accademia dels Desconfiats (de’ Diffidati) eretta in Barcellona nel 1700., sotto la protezione di NOSTRA DONNA DI MONSERRATO, per far argine, e difesa alle inondazioni di stravolte locuzioni, che sovrastavano, opponendosi a così precipitoso torrente di nuovi barbari, e stranieri vocaboli, ei suoi legittimi, che dolcissimi, e belli sono, con franco cuore valorosamente riparando, farebbe forse la Lingua Provenzale salita altra volta a quel grado d’ onore, e di gloria, in cui ella salì nell’ età d’ oro, o del gay saber (cioè del gajo savere, o della gaja scienza, che così chiamavano i nostri antichi l’ arte del rimare (62) se non fossero sopraggiunti i travagli, e flagelli delle guerre, che misero il Principato sottosopra, ed in particolare la sua Capitale mia Patria, come è ben noto, ed espresse il letteratissimo Annibale Marchese ne’ due ultimi versi della seguente ottava (63):

E solo immota Barcellona resta 

Incontr’ al campo de l’ irato Ispano: 

Sì sprezza in nostro mar lieve tempesta

Gran nave usa al furor de l’ Oceano: 

Ma scende il Gallo numeroso, e infesta 

Sue mura sì, ch’ ogni contrasto è vano.

Onde al fin, pria che vinta, assorta cade 

Da tempestoso mar di fiamme, e spade. 

XVIII. Circa la qualità degli Scrittori Provenzali, e de i loro componimenti per entro il Libro allegati, avverto, che se ne dà contezza nelle Tavole de’ medesimi, che faranno poste appresso, ove si dà ragguaglio ancora, di vari Codici antichi MSS. Provenzali, massimamente di quelli, che della medesima Lingua ho incontrati nella Biblioteca Vaticana, avendo avuto il bel comodo di spogliarli, per singolar favore compartitomi dal dottissimo Monsignor Michelangelo Majella primo Custode di essa; i quali Codici Vaticani sono i più ricchi arnesi, per così dire, che abbia la guardaroba della nostra Lingua; oltre a quelli preziosi avanzi, che se ne conservano nella Real Libreria Medicea Laurenziana, che, quando mi ritruovava (ritrovava) in Firenze, ebbi parimente il comodo di smidollare, mercè alla gentilezza del suo Bibliotecario l’ eruditissimo Dottor Anton Maria Biscioni. Avverto in oltre, che siccome nel Vocabolario della Crusca non si è osservato di metter sempre nel primo luogo l’ esemplo dello Scrittore, o più autorevole, o più nobile, ma sovente si è collocato per primo, il più acconcio alla dichiarazion della voce, come avvertono gli Accademici nella citata loro Prefazione; così anch’ io ho praticato, seguitando l’ orme impresse da quei valentuomini, senza badare a simile osservazione di nobiltà, e precedenza. Questo bene è stato da me esattamente osservato, di allegar prima i Poeti antichi, che gli Scrittori, o i Poeti moderni; ed in particolare ho posta ogni diligenza in proccurare, che sotto ciascheduna delle voci vi fosse almeno un’ esempio di Scrittore Provenzale più antico de i Toscani citati nel Vocabolario. Egli è però ben vero, che in alcune poche voci mi sono dispensato di usare simile diligenza, o sia, perchè il Vocabolario non vi rinvenga alcun esemplo; o perchè sono già d’ altra parte difese, e per Provenzali autenticate da alcuno degli Scrittori, e letterati di primo grido, e della Lingua Provenzale pratichissimi, come dal gran Bembo, il quale colle sue regole in fiorito stile dettate, alzò primo l’ insegna al bel Toscano parlare; e successivamente da quei gloriosi seguaci, che dietro alla bandiera da esso lui inalborata con bella mostra di mano in mano schierati si vedono, cioè il Varchi, il Tassoni, l’ Ubaldini, il Redi, il Salvini, e il Crescimbeni: o sia pure, perchè sono già per tali confermate dall’ uso, essendomi perciò prevaluto talora di alcuni nobili Scrittori de’ tempi bassi, come del Garzia, e del Fontanella, che così respettivamente anno fatto ancora i mentovati Accademici.


XIX. Sul principio della mia fatica aveva fatto pensiero di trasportare in Toscano tutti gli esempi, o passi degli antichi Poeti Provenzali, che per entro’ l Libro s’ allegano; ma considerando poi, che ciò farebbe soverchia macchina, ho tradotti solamente i più difficili, come, tra gli altri passi, e componimenti, la Sestina, che fece Arnaldo Daniello, il quale fu l’ inventore di questa spezie di Poesia, che ho trascritta sotto la medesima voce Sestina; e così le Cobbole in forma di Dialogo tra Giovanni d’ Albuzon, e Niccoletto di Turino, che ho trasportate alla voce Cobbola; e la Tenzone fra Salvarico di Malleone, Anselmo Faidit, e Ugo della Bacalaria, che parimente ho riportata alla voce Tenzone ec. 

Ma non mi sono obbligato di tradurli in versi, se non dove è tornato bene, acciocchè meglio si conosca la qualità de’ sentimenti passati dalla Provenza, e Catalogna nella Toscana. Quando poi per entro i passi, ed esempli allegati, che non sono stati tradotti, vi ho trovato alcune parole difficili, ed oscure, non ho mancato di spiegarle, con farvi la chiosa Toscana.


XX. Quelle voci, che dalla ingiuria de’ tempi sono state spente, e sbandite della nostra Contea, e che non si trovano, che ne i libri antichi, le ho talora contrasegnate con notarle dopo gli esempli Provenzali, per voci disusate, o vero antiche, e vi ho contrapposte, e rinvergate le moderne. Ma non per tanto pretendo confermare il loro sbandimento; anzi vorrei commendarne l’ uso agli studiosi, ed amatori della nostra Lingua, usandole però con giudizio, e con parsimonia; ben avvertito dal Maestro della Toscana, e Greca eloquenza, e di tutte le principali lingue, allorachè in uno de’ suoi pubblici, e gravissimi Ragionamenti Accademici disse (64): In primo luogo antica dovrebbe essere la favella; nè ciò vi paja crudo, o strano, o Signori, che ben so, che quell’ antico sapientissimamente disse; usa costumi antichi, ma parole del secolo; e Salustio principale Autore della Storia Romana, per le parole, e frasi sue, fu tacciato come affettatore d’ antichità. E Giulio Cesare una disusata parola, e dismessa, disse essere da schifare come scoglio. Voglio dire antica, cioè pura, semplice, monda, netta; quale nel loro tempo usavano i buoni antichi, de’ quali eran proprie virtù, la forza dell’ espressione, la nuda, e schietta proprietà, la breviloquenza; gli arcaismi ancora, o vogliam (vogliamo) dire, l’ antiche voci, e maniere troppo usate, facendo il parlare enimmatico, ma con parca, e sospesa mano, e a tempo, e luogo impiegate, dando maestà al discorso, ed efficacia, in cui all’ antico ben collocato, suole andar dietro un non so che di pellegrino, e di grazioso. E ottimamente i maggiori nostri Accademici ci proposero per idea del parlare gli antichi; poichè essi parlavano col linguaggio del cuore, e i moderni Componimenti possono essere bene più sublimi in parte, e più adorni, ma non già per ventura in universale più toccanti: e altrove (65): tutte le parole si poson dire in suo luogo, e tempo, e col senno; e dagli Accademici della Crusca (66) altresì, che tutte le parole a’ loro luoghi ottimamente si adoperano, e tornan bene, come sovente egli avviene d’ alcuna pittura, che fuori del suo lume non rilieva, e tale ora si mostra sproporzionata, che poi collocata al suo luogo, dà altrui negli occhi, e nella aggiustata veduta non che si mostri, e ben proporzionata, e ben condotta, ma spicca a maraviglia, e campeggia.


XXI. Diversamente usò Pietro di Corbiacco, uno de’ Padri, e Maestri della Poesia volgare, allora che delle più alte materie, e scienze prese altamente a trattare in quel suo veramente aureo Poema titolato il Tesoro, detto Provenzalmente Lo Tresor de Maestre Peire (o Pere) de Corbiac, esistente nella Biblioteca Vaticana (67), che quando a diporto della sua Donna vaghe canzonette compose. Altre voci adoperò Ramondo della Torre da Marsiglia, descrivendo l’ eccellenze della bella, sopra tutte le belle Città Dels Florentins, qu’ om appella Florenza (68), che quando si mise a discorrere delle guerre, che correvano tra i Principi del suo tempo. Con altre frasi, molti de’ nostri Maestri, e Padri della volgar Poesia si misero divinamente a cantare le lodi della BEATISSIMA VERGINE, e fra essi Pietro Guglielmo, e Lanfranco Cicala, che quando i vizi di quella età ne’ loro famosissimi Serventesi presero a rimproverare. Nella Storia di Tirant lo Blanc, che si conserva nella Libreria della Sapienza di Roma, composta dal Cavalier Pietro Giovanni Martorell, uno de’ più chiari lumi della nostra Lingua, con altre forme risponde esso Tirante al Cavalier delle Ville-Erme, suo rivale (69); e con diverso stile scrive alla sua bella ugualmente, e costante Principessa Carmesina (70). Lo stesso Martorelli, non in persona d’ altri, ma per se proprio, con altri modi scrive dalla nobilissima Città di Valenza sua Patria, alla Maestà del Re di Portogallo Don Fernando, dedicandole la suddetta Storia; e con altra maniera parla co’ Lettori nel Proemio della medesima. Laonde, il buon giudicio dello Scrittore, come soggiungono i mentovati Accademici, può solamente scieglier le voci, adattar le locuzioni, accomodar le maniere, all’ occasioni, alle materie, a’ tempi, alle persone; nè vi ha regola si presissa, che possa servir d’ istruzione alle Scritture.


XXII. L’ ortografia degli antichi era pessima, e confusissima, imperocchè, oltre che non adoperavano nè l’ apostrofo, nè la virgola, nè l’ accento, e le lettere maggiori, o majuscole solamente le usavano ne’ capi versi, attaccavano per lo più gli articoli co i nomi, e di due, e tre, e più vocaboli alle volte non ne facevano altro, che uno, unendogli in una sola figura, ed all’ incontro, in due, e tre figure qualche volta un sol vocabolo dividevano; il che reca non poca confusione a chiunque non abbia cognizione dello sregolato scrivere di quei tempi, o che non sia pratico in materia di Lingua; ed è stato cagione di molti sbagli, come appieno dimostrano le Annotazioni, e gli Avvertimenti di tutti coloro, che nel secolo XVI. furono Deputati in Firenze dal Serenissimo Granduca alla correzione del Boccaccio, per ridurlo alla sua vera, ed intera lezione. Onde per agevolare al Lettore l’ intelligenza degli esempi, e de’ passi antichi Provenzali, ho proccurato di ridurli alla più chiara, e distinta ortografia; circa la quale mi sono per lo più conformato con quella, che ritennero gli Accademici Barcellonesi nella impressione delle Rime del nostro Garzia: Ma non per ciò si credano gli amatori della sempremai veneranda antichità, ch’ io abbia voluto in parte alcuna derogare alla fedeltà, e legalità de’ Codici, e testi antichi, perchè altro non vi ho fatto, che aggiungervi le virgole, gli accenti, gli apostrofi, e distaccare gli articoli da i nomi, e cose simili, come si può vedere col rincontro degli stessi originali, mentre che di tutti cito puntualmente i numeri, le carte, le colonne, o altre somiglianti individuazioni, e in ciò mi sono affaticato viepiù, che non anno fatto altri molti in simili allegazioni: Anzi talora ne ho riportati alcuni nell’ istesso modo, che sono scritti ne i testi, senza aggiugnervi (aggiungervi) una virgola, e senza alterarvi la minima cosa, acciocchè possa vedere il curioso Lettore l’ ortografia di quei tempi, come ho fatto nel Componimento di Giuffredo Rudello, che nel presente primo 

Volume ho trascritto, e tradotto in Toscano, sul principio de i Preliminari toccanti la natura, e qualità delle Lettere dell’ Abbiccì Toscano, e Provenzale; siccome anche nella mentovata Sestina di Arnaldo, e nelle sopraddette Gobbole (Cobbole) di Giovanni d’ Albuzon, ed in altri. 


XXIII. Per entro le Storie, e Croniche di Francia stampate in Franzese si truovano molti atti, e frammenti di Scritti Provenzali antichi, i quali sono per lo più storpi, e monstruosi anzi che nò, poichè sembra, che in due lingue dettati, e formati sieno, cioè in Provenzale, e in Franzese, e non già in Provenzale schietto, per essere, come in vero sono la maggior parte malamente infranzesiti, come lo sono altresì quei versi Provenzali di Dante nel Canto XXVI. del Purgatorio, ove introduce il suddetto Daniello a parlare in suo linguaggio Provenzale, come osservarono il Varchi (71), e il Castelvetro (72), e ultimamente l’ eruditissimo Abate Anton Maria Salvini riferito dal Crescimbeni nella seguente Annotazione (73). 

“Ed in questo proposito notisi, che nel Dante della Crusca, come ci ha avvertito il dottissimo Anton Maria Salvini, è posto Jeu suis, per Eu soi, e nella Stampa de’ Giunti di Firenze dell’ anno 1506. questo Provenzale è infranzesito a proposito, con dire cortois in vece di cortès: joyeulx in luogo di jausen; ore in cambio di ara: pleure per plor, e simili. E lo avvertì poi egli stesso nelle sue Prose Toscane (74) così: “Di questi Trovatori, o Poeti (Provenzali) il più famoso fu Arnaldo Daniello fatto parlare in sua lingua da Dante nel Purgatorio: 

Eu soi Arnaut qi plor e vai cantan.

Arnaldo io son, che piango, e vo cantando, che alcuni malamente riformano nel Franzese, dicendo in vece di Eu soi, Je suis. «E di quì è, che’ l Landino, nel suo Comento sopra esso Dante, parlando de’ medesimi versi, nell’ accennato modo infranzesiti (come anno quasi tutti i testi stampati) senza aver egli consultato i buoni, e più sicuri manoscritti, disse: Scrisse questi versi il Poeta (Dante) parte in Lingua Franzese, e parte in Catalana, perchè Arnaldo era dotto nell’ una, e nell’ altra Lingua. Laonde, quando nell’ adoperare i passi, o esempi di simili scritture, vi ho trovate delle parole infranzesite, gli ho ridotti al loro vero dialetto Provenzale, senza renderne conto, nè ragione al Lettore, per altro ben avvertito da quel che intorno a questo proposito lasciò scritto Raimondo Vidal, più secoli sono, nel suo Libro del poetar volgare (75), que tuyt aquel, qe dizon amis per amics, e moi per me &c. tut fallon, qe paraulas son franzesas, e no las deu hom mesclar ab lemosinas cioè: che tutti quelli, che dicono amis per amics, e moi per me &c. tutti fallano, per essere parole della Lingua Franzese, le quali non si debbono mescolare col Provenzale, o Limosino, ch’ è il medesimo. Quando però mi è convenuto rassettare qualche parola de’ Codici MSS. storpia da’ trascrittori, e copiatori di quell’ età, i quali badavano assai più alla bellezza, ed apparenza de’ caratteri, che all’ arte di rettamente scrivere; e che la differenza sia sì notabile, che ne faccia variare il senso, o il significato, o che malagevolmente s’ intenda che cosa voglia dire, in cotal caso ne rendo la ragione, come nel passo del Monaco di Montaudone, che allego alla voce Sonetto, il qual passo, o esempio, per leggersi scorretto ne’ testi, fece prendere sbaglio all’ Ubaldini nella parola Lombarda Mo della sua Tavola al Barberino.


XXIV. Alcuni degli Autori, o Vocabolistari, e comunemente tutti quelli, che non anno avuta molta cognizione della nostra Lingua, si sono creduti, che fosse la medesima, che la Franzese, ed anno scambievolmente presa l’ una per l’ altra, senza farvi differenza; come abbiamo da’ Deputati del 73. i quali parlando nel Proemio delle loro Annotazioni, d’ un certo libretto scritto nel buon secolo della Lingua Toscana, contenente alcuni miracoli della SANTISSIMA VERGINE, dicono così: Per la maggior parte ha sapore essere cavato dal Provenzale, o dal Francesco, che dir si debbia: Che quantunque fra queste lingue fino allora avesse alcuna differenzia (molta, e non alcuna, anzi sono elleno del tutto differenti, come avverte il Salvini 

(76), e Fazio Uberti lo mostri manifestamente, nondimeno secondo l’ uso comune di que’ tempi, abbiamo indifferentemente preso, ed usato questo nome, ed a questa occasione non è stato male avvertirne il Lettore. Onde non rechi maraviglia, se in cotali Vocabolistari, e Glosatori, vi si troveranno alcune voci allegate per Provenzali, che non sono registrate, nè annoverate nel mio Libro, perchè a bella posta le ho rigettate, ed escluse per non essere nostrali.


XXV. E se bene, all’ incontro, ve ne sieno registrate di quelle, che alcuni di tali Autori anno annoverate per Francesche, le quali col Franzese veramente gran somiglianza, ed affinità si vede, che anno, verbigrazia coraggio, naverare ec., e che per conseguenza parrà a più d’ uno, che da quell’ Idioma vago, e leggiadro sieno state tolte piuttosto, che dal Provenzale; Debbo quì generalmente avvertire, che non è cotale somiglianza sì perfetta, e sì uniforme, com’ è quella, che anno col Provenzale, come si dimostrerà a’ loro luoghi: Ed in oltre, che i Franzesi non possono allegare degli esempli, così antichi, come sono quelli de’ nostri Provenzali, giacchè era, come dice il Bembo (77), per tutto il Ponente la favella Provenzale ne’ tempi, ne’ quali ella fiorì, in prezzo, e in istima molta, e tra tutti gli altri idiomi di quelle parti di gran lunga primiera: conciossiacosachè ciascuno o Francese, o Fiamingo, o Guascone, o Borgognone, o altramente di quelle Nazioni, che egli si fosse, il quale bene scrivere, e spezialmente verseggiar volesse; quantunque egli Provenzale non fosse, lo faceva Provenzalmente.


XXVI. Anzi tutte le nostre voci, che anno uniformità, e amistanza col Franzese, le anno certamente i Franzesi tolte dal Provenzale, come afferma Cesare di Nostradama colle sue autorità, che ad altro effetto si sono dedotte, e trascritte di sopra ne’ numeri IV. e VI. E ciò si conferma col riflettere, che nella Corte de i Re di Francia, e generalmente in tutto quel Regno, e si usasse, e si parlasse questa nostra dolce, e gentil favella molti anni prima, che la Franzese, come attestano parecchi Autori di varie Nazioni, particolarmente il Presidente Claudio Fauchet Franzese (78), e dopo di lui il celebre Carlo Du-Fresne della medesima Nazione (abbiano pazienza i Franzesi, se non seguo la moda, per citare, e trascrivere così spesso le loro autorità) ne’ numeri 34. 35. e 36. della Prefazione del suo Glossario agli Scrittori della mezzana, e bassa latinità, col seguente discorso. “At quam Romanam nostri, Limosinam appellavere non modò Itali, sed & Hispani praesertim, apud quos diu in usu fuerit. Ex quo enim exacti ab Hispania Mauri, redactum est potissimum vulgare Idioma ad tres Linguas, Vasconicam, seu Biscainam, quae in Biscaia, Navarra, Guipuscoa, & Alva (Álava, Araba) obtinuit: Castellanam alteram, quae rarioris fuit usus, utpotè barbaris aspersa vocabulis, à quibus tum demùm est purgata, cum ad unicum Principem tota Hispaniarum potestas rediit. Hac autem Lingua usi praesertim Castellani, Toletani, Leonenses, Asturienses, Extremadurenses, & Granatenses. Sed & viguit in Gallicia, Andalucia, Lusitania, ac Aragonia, exteris subinde vocabulis, Arabicis, Francicis, aliisque intermixta. Tertia denique fuit Limosina, cujus usus fuit in Catalania, in Comitatibus Ruscinonensi, &  Ceritanensi, in Aquitania, & Occitania, atque adeò, ut Scriptores Hispani volunt IN IPSA REGUM NOSTRORUM AULA. A Catalania in Valentiae, Maioricae, & Minoricae Regna postea transiit, quod ea ad Barcinonenses Principes perinde spectarint &c. EA QUIPPE LINGUA NITIDA ADEO, FLORIDA, CULTA, AC POLITA HABITA EST, UT NULLA FERE’ EXTITERIT REGIO, IN QUAM NON IMMISSA FUERIT, cum maximè in Principum aulis magno in pretio haberentur Poetae Provinciales, eorumque poemata, ut genio quasi dotata singulari, ubique ferè legerentur. Escolanus, & Boschus de hac Lingua scribentes, ajunt, quod fuit. Tant graciosa, sentenciosa, y dolça, que noy ha llengua que ab mes breus (d) paraulas diga mes alts, y millors conceptes tenint en tot una viva semblança ab sa Mare Llatina. Ella fonc la que donà principi als Versos, y Rimas que s’ usan en Roma (leggi en Romanz, cioè in Romanze, in Volgare) cantant ab ellas ab so 

de consonancias las dissonancias de las passions ab aguts, y dolços pensamens &c.” Subdunt deinde hujus Idiomatis vocabulis crebriùs poëmata sua aspersisse Petrarcham, quod observarunt etiam ejus Interpretes. Raymundus Montanerius qui vixit circa annum 1300. Historiam suam hac Lingua exaravit: & Carbonellus in Chronico, ejusdem Idiomatis Tabulas, variaque acta descripsit. Certè Linguam hanc, Provincialem scilicet, IN REGUM NOSTRORUM PALATIIS PRIMITUS USITATAM, evincunt que (e con rabito) ex ea delibavit Nithardus lib. 3. à quo Romana appellatur, quae haud omnino diversa ab ea, qua utuntur Provinciales nostri: quod facile erit assequi utramque comparanti. Undè rectè, opinor, dixit Vadianus l. de Monast. Germ. Salicam Legem Romanos, hoc est, Provinciales vocare, qui Romana, id est, Provinciali lingua utebantur: Cum Provincialium nomine omnes de Alvernia, & Vasconia, & Gothos Provinciales appellatos autor sit Raymundus de Agiles in Histor. Hierosol. Ut verò res plana fiat, placet Sacramentum Ludovici Regis, cujus meminimus, Romana Lingua descriptum à Nithardo hic proponere. – Cumque Karolus, (inquit) haec eadem verba Romana Lingua perorasset, Lodhuvicus, quoniam major natu erat, prior haec deinde se servaturum testatus est: Pro Deo amor, & pro Christian poblo, & nostro comun salvament dist di en avant, in quant Deus savir, & podir me dunat, si salvare jo cist meon fradre Karlo, & in adjudha, & in cadhuna cosa, si cum om per dreit son fradre salvar dist in ò quid il mi altre si fazed, & ab Ludher nul plaid nunquam prindrai, qui meon vol cist meon fradre Karle in dano sit.” Quae sic Latinis istius saeculi sonant: Pro Dei amore, & pro Christiano populo, & nostro communi salvamento inantea (seu deinceps) in quantum Deus sapere, & posse mihi dederit, salvabo (seu salvum, & incolumen praestabo) hunc meum fratrem Karolum, & in auxilio, & in unaquaque causa (i. re Gall. chose) ut homo per drictum (seu jus) suum fratrem salvare debet, in eo quod ille mihi alter faceret, & cum Lothario nullum placitum unquam capiam, quod mea voluntate huic meo fratri Karolo in damno sit. Sacramentum verò populi Romana pariter Lingua, sic describit idem Nithardus: Si Lodvuigs Sagrament que son fradre Karlo jurat conservat, & Karlus meo sender de sua part non los tanit, si jo returnar non lint pois, ne jo ne nuls cui eo returnar int pois in nulla adjudha contra Lodhuvig nun li juer.” Id est Lingua ejusce aevi Latina, quantum licet assequi: Si Ludovicus sacramentum quod suo fratri Karolo jurat, conservat, & Karolus meus senior ex sua parte non illud tenet, si ego retornare non possim, vel nolim ad eum retornare, in nullo ei auxilio ero contra Ludovicum &c. Atque haec quidem Romana Nithardi, licèt mendis utcumque carere non dubitem, velim Lector conferat cum veteri charta vernacula in Ruthenensi Comitatu, ubi Lingua Lemovicina perinde usurpata sub Ludovico VI. hoc est circa annum 1100. exarata, quam descripsimus ex Tabulario Abbatiae Conchensis, ch. 566., ut Idioma ejusce aevi cum Idiomate aevi Carolini comparet. Ego in Dei nomine, ego Hector, & Pontius de Cambolas, & ego Falcas, daquesta hora ad enant en la Villa de Pradis, home ni femena de las crodes enins non y pendren, ni ly feren, ni ly queeyren, ni son aver no ly tolran, ni fac nou lo faren, ni deforas los crous home, ny femena que sien en la villa sia esta dehors, se per forfactura que faran aquez no no faxian, & aquo no faran tro al Abat, & al Prior, quella villa tenria clamat ò acsem una vice vel duas. Et se els reddezer nos o fazio, que non pressen sobre nostre dreich, & senescian, & o efrangrian fers XIII. dias al so moniment del Abbat, ò de so messatge, ò del Monge, que la vila tenria, o de so messatge, o emenderan aissi o tenren, & o atendren per fe, & senes engan per eis Sants Evangelis. Authores Ademarus Ruthenensis Episcopus, & Odolricus Archidiaconus, & Guillelmus & Azemarus Dauriat, Bac de Petra bruna, Folquenis de Segur, Bernardus qui vocatur Graecus, Bernarz Guirals della Salas, Bernarz de Cannet, Deusdet de Caunat, & Peire de la Vallada, Rainalz lo Monges, & altre molt que ouiro, & que audiro. Regnante Ludovico Rege.


XXVII. Ma contuttociò non creda il lettore, ch’ io sia d’ opinione, che l’ Idioma Toscano non abbia tolte delle parole al Franzese; anzi se non fosse che’ l riferirle farebbe fuori dell’ intenzione del mio Libro, ne potrei annoverare per verità più d’ una cinquantina, come agio per età; a fusone, cioè abondantemente; approccio, arresto per sentenza, o decreto; arrolare, arrolato, barulè, bicocca, ciamberlano, congedo, e congio, convoitoso, usato dagli antichi per cupido, avido; damigella, dilajare, che vuol dir prolungare; fa niente, cioè ozioso; furbo, furbetto, furberia, furbescamente, furbesco, furiere, giovedì, lunedì, martedì, mercoledì, venerdì, e venardì, giubbetto, grè, onde il giuoco della lumagrè, come osservò il Redi (79: Annot. Ditir. a c. 77. ediz. 1691.), insembre, lacchè, lungo per rasente, o accosto; marrone, per una spezie di castagna; mignone, cioè il cucco, il favorito; morso per boccone; morsura, pastone, pennacchio, peri, prenze, e prence, prete, rasojo, riso, per una sorte di biada; ruga, per istrada; ruolo, saggio, per sabio; soja, sugliardo, sur, tabì, toeletta, tusanti, villa per città come in quel verso: Sopra’ l gran fiume d’ Arno, alla gran Villa &c. 


XXVIII. Lo stesso che ho detto in ordine a quelle voci, che anno similitudine, o affinità col Franzese, si debbe parimente intendere rispetto a quelle, che l’ anno col Castigliano, che parimente ho prodotte ne’ loro luoghi dell’ alfabeto, e che parranno più tosto Castigliane, o dalla Lingua Castigliana esser prese, che dalla Provenzale, come cominciare, battaglia, cortesia, cambiare, galoppo, peso, aggradare, riposo, e cento più, le quali anno pure i Castigliani cavate dal fonte Provenzale, come affermò il dottissimo Onorato Bouche nella sua sopra citata Istoria di

Provenza con le seguenti parole (80: Tom. I. lib. 2, cap. 6. fogl. 95.). “Voire c’ est le commun sentiment de plusieurs grands personnages Italiens, comme j’ ay oüi dire à quelques uns d’ iceux en Italie, que la Langue Provençale êtoit la Mere de la Langue Italienne du jourd’huy. Ce que nous pourrions ausi bien dire de la Langue Espagnole de ce tems, qu’ elle soit une fille de la Provençale, d’ où l’ on peut en quelque façon conclurre, que tous les mots qui sont en usage entre ces trois peuples, & qui ne peuvent pas être derivez de quelque racine Grecque, ou Latine ne sont pas tant Espagnols ou Italiens, que Provençaux, comme ceux-cy Italiens Badar, Engagnar, Escarecar, Pulit, Far escomessa &c. & ceux-cy Espagnols Borrar, Despedaçar, Desamparar, Escupir, Flaqueza, Embud (Entonnoir) & plusieurs autres, qu’ on peut remarquer en la lecture des livres composez en ces langues.”


XXIX. Nè serve, che per parte della gentilissima, e fortunata Lingua Castigliana, s’ alleghi l’ asserzione del sempre con lode mentovato Gio. Mario Crescimbeni, il quale in una delle sue annotazioni sopra la Vita d’ Ugo di Lobieri Poeta Provenzale, appellato da Gio. di Nostradama alla Franzese Hugues de Lobieres, asserisce, che (81): “Il cognome di Lobieres è preso da un luogo così detto denominato da i lupi, che in Ispagnuolo, da cui molto prende il Provenzale, si dicono Lobos: così Lobieres, Lupaja, come Cabreres, e Vacqueres, luoghi parimente Provenzali, che vagliono in Italiano Capraja, e Vaccara, dalle Capre, e dalle Vacche.” “Perchè, tralasciando, che sino da’ tempi antichi si dice nella nostra Lingua Lob, e Lop al Lupo, onde l’ Autore del Trattato de’ Peccati Mortali (82): E quant degran esser pastors, els son lobs, e Pietro Tomic (83): Lo Rey (d’ Aragona Don Giovanni) retornant sen en Barcelona caçava davant lo Castel d’ Orriols en lo bosc de Foxà e corrent una loba lo dit Rey morì, e nel Trattato delle Virtù (84): Trobat es estat sovent, que las lobas noirisson los enfans, que trobon gitatz, e los deffendon de las altras bestias, & assò fai sola natura, e nella Vita di Raimondo di Miravalle (85): La Dompna de Carcassès, qe avia nom la loba; così Lobera, e Lobeira (cognome pure di Famiglia esistente nella Città di Girona) che i Toscani chiamano lupaja, onde Buonafede antico Poeta Provenzale appellato Bonafè in una sua Tenzone con Blancasso (86):

Seigner Blancatz, de nuoit à la lumeira

Es plus temsutz, que laire, ne lobeira. 

Signor Blancasso, di notte alla lumiera

Sei più temuto, che ladro, né lupaja.

i Franzesi Louviere; e i Castigliani poi, non avendo vocabolo proprio, ed acconcio, con che appellarla, essendo in questa parte la loro lingua manchevole la esprimono colla parafrasi Guarida de lobos, cioè rifugio, e ricettacolo de’ lupi: Tralasciando dunque, com’ io dissi, queste cose, ed altre, che tornerebbono bene, come farebbe l’ affermare, che l’ accennata voce Guarida l’ anno presa per certo i Castigliani dalla nostra Lingua, onde il Sordello Mantovano, che scrisse in Provenzale (87: Nel citato Codic. Vatican. 3204. a c. 109. terg. colonn. I.)

— car non trob à l’ essida

Ni riba, ni port, ni pont, ni garida.

— poichè non trovo all’ escita

Nè riva, nè porto, nè ponte, nè rifugio.

E l’ Autore del citato Trattato de i Peccati (88: Cod. Vat. 4799. a c. 241.): La quinta branca d’ avaricia es sacrilegi &c. Altra maneira es, quant hom ars, o crema Gleisas, e Moncstiers, o masons de religion; o quant hom trai de Gleisas, o cementeris aquels que i venon a garida: Lasciando dunque tutto questo da parte: Chi poi non vede, che ciò, che nella trascritta annotazione s’ asserisce a favor della Lingua Castigliana, è detto incidentemente? Oltre, che se si tratta de’ tempi bassi della nostra Lingua, ne’ quali, avendosi unite le Corone di Castiglia, e d’ Aragona, parece que tambien se han querido incorporar las lenguas Castigliana, e Catalana, come dice lo Scuolano (89: Nel luogo sopra trascritto al num. XV.), con molto fondamento asseverare si può, che la Provenzale, o vero Catalana prende dalla Castigliana.


XXX. Ben noto è per altro, a tutti i Letterati, che la nostra Lingua, è più antica assai, della Castigliana, poichè fu per tutto il Ponente, tra tutti gli altri Idiomi di quelle parti di gran lunga primiera (90), e così florida, culta, ac polita, ut nulla ferò extiterit Regio, in quam immissa non fuerit (91); e la Castigliana al contrario, mentre fino al 1479. nel quale ad unicum Principem tota Hispaniarum potestas rediit, come dice il Du-Fresne (92) rarioris fuit usus, utpotè barbaris spersa vocabulis. Anzi lo stesso Crescimbeni, parlando sopra questa materia di precedenza, ed antichità fra le lingue volgari, mi disse aver letto in un certo Autore straniero, che in Catalogna incominciò a corrompersi il dialetto latino, che correva in tempo dell’ Imperio de’ Goti. Ed a questo proposito è cosa degna d’ osservare, che in Catalogna pure s’ incominciò l’ uso di trattare le Leggi, e Costituzioni, e tutti gli atti giudiziali in lingua volgare; anzi nel 1412. D. Ferdinando I. Infante di Castiglia, che fu eletto, e dichiarato Re d’ Aragona, e Conte di Barcellona dagli Stati di Catalogna, Aragona, e Valenza congregati in Caspe, per esser morto intestato, e senza successione il Re Don Martino, che fu l’ ultimo Re, e Conte della stirpe de’ Beringhieri; fece in Catalogna una Legge, tra l’ altre, insieme co i tre Stati generali del Principato, cioè l’ Ecclesiastico, il Nobile, e’ l Borghese, o Cittadino, comandando espressamente, che tutte le suddette cose fossero fatte, e trattate nel nostro volgar Catalano, e non in latino, nè in altro straniero linguaggio, come apparisce dal Volume delle nostre Costituzioni esistente nella Biblioteca Barberina, e così fu sempre praticato fino al 1714.; la qual legge, per dirlo di passaggio, pare che indirettamente, e in alcun modo sia stata confermata dalla SANTISSIMA VERGINE NOSTRA DONNA, coll’ occasione d’ un miracolo, che a intercession sua, fece il Beato Fra Salvadore d’ Orta Francescano, di far parlare in Lingua Catalana una Donzella muta di otto anni di Nazione Navarrese, come raccontano i compilatori della Vita di esso Beato Fr. Salvatore, e riferisce il Bollando negli Atti de i Santi (93). E simile uso poi negli altri Stati, e Regni dell’ Europa, non che di Castiglia solo, non incominciò, che cento cinquant’ anni dopo, nella propia lingua naturale di ciascun paese (94). Ma non occorre, che sopra ciò mi affatichi, nè perda più tempo in addurre dell’ altre autorità, e memorie, che mi sono rimase nel Zibaldone, e fra l’ altre, che (95) L’ an 1613. on imprimà à Paris un gros livre in quarto en langue Françoise, qui contient 1030. pages, ayant pour tître: Thresor des Langues de cet univers, contenant les origines, beautez, perfections, decadences, mutations, & ruines des langues, où l’ Autheur Monsieur Claude Duret Bourbonnois en compte jusqu’ à 56. 

& parmy les autres il place la Cathalanne avant l’ Espagnole, & plusieurs autres: mentre che dalle Tavole degli Autori, e de i libri in Provenzale, poste in fronte del mio Vocabolario può il Lettore abbastanza soddisfarsi; conciossiachè i più antichi, che la Castigliana Lingua in questo, od altro giudizio possa produrre, faranno di gran lunga posteriori a molti di quei, che in esse Tavole oggidì compariscono.


XXXI. Ben noto è altresì a tutta la letteraria Repubblica, che i Poeti Provenzali Padri della Poesia Volgare, i quali anno insegnato a tutti il poetar volgare (96), appellati perciò onorevolmente da’ Toscani col titolo di Maestri (97), sono più antichi assai, e di gran lunga primieri, che i Castigliani, come rinvergò Don Niccolò Antonio nella sua famosa Biblioteca degli Autori, e Scrittori Spagnuoli (98); trovandosi, che la Poesia, e Musica Provenzale, la quale, come dice il sopraddetto Salvini (99), fu negli antichi tempi una generale magia, e un’ incanto soavissimo, e affascinamento, per così dire, degli orecchi, e degli animi costumati virtuosi, e gentili, era già in fiore nel Secolo XII. in tempo dell’ Imperadore Federigo I., come abbiamo dalle Storie, e dalle Vite de’ medesimi nella seguente guisa (100); Dappoichè &c. ebbe egli (il suddetto Imperadore Federico I.) ritornata all’ ubbidienza la Città di Milano, che gli si era ribellata &c. ritrovandosi in Turino l’ illustre Ramondo Beringhieri detto il Giovane, Conte di Barcellona, e di Provenza &c. accompagnato da una gran turba di Oratori, e di Poeti Provenzali, e di Gentiluomini della sua Corte, andò a visitarlo &c. Grande accoglienza gli fece l’ Imperadore per la fama, che correva di lui, e de’ suoi fatti &c. il che addivenne l’ anno 1162. &c. Il Conte Ramondo fece da i suoi Poeti recitare molte belle Canzoni in Lingua Provenzale alla presenza dell’ Imperadore, il quale per lo piacere, che ne prese, restando maravigliato delle loro belle, e piacevoli invenzioni, e delle maniere del rimare, fece loro di ricchi doni, e compose a loro imitazione un Madrigale nella stessa Lingua Provenzale. E notò l’ eruditissimo Anton Domenico Norcia con le seguenti parole (101: Ne’ suoi Congres. Litterar. a c. 210. ): Andò poi di tal maniera colà crescendo la fama, e la gloria della Poesia Provenzale, che lo stesso Imperadore Federigo I. non isdegnò d’ applicarvi, e fra i diversi componimenti, che egli fece, trovasi ancora a’ tempi nostri un suo gentilissimo Madrigale.


XXXII. 

All’ incontro la Castigliana cominciò solamente a nascere nel principio del secolo XV. con le Rime di Juan de Mena Cordovese, che morì nell’ anno 1456., e dell’ età sua 45.; e con quelle di Garzilaso de la Vega Toledano, e di Juan Boscan Barzellonese, che ebbe genio di rimare in Castigliano (forse perchè già nel suo tempo erano unite le Corone d’ Aragona, e di Castiglia) i quali furono coetani, e fiorirono in tempo dell’ Imperadore Carlo V., e il nostro Boscano fu il primo, che fece Sonetti, ed altri versi interi, o perfetti d’ undeci sillabe nel medesimo Idioma Castigliano, come notarono Hernando de Hozes (102), e il Redi (103), e si raccoglie da i Proemi, e dall’ Epistole dedicatorie, che si leggono in fronte delle sue Rime. E se bene molti anni prima che fiorisse Giovanni di Mena, cioè nel declinare del secolo XIII., in tempo del Re Alfonso X. di Castiglia cognominato el Sabio, che morì nel 1284. s’ incominciò in quelle parti di Castiglia a verseggiare in volgare, non fu però in volgar Castigliano, come attesta Gonzalo Argote de Molina, Poeta Castigliano anche esso, e celebre antiquario (104): Y si à alguno (por causa de las Coplas de Macias referidas) le pareciere (dice egli) que Macias era Portuguès, estè advertido, que hasta los tiempos del Rey Enrique el Tercero todas las Coplas que se hazian comunemente por la mayor parte, eran en aquella lengua, hasta que despues en tiempo del Rey Don Juan (il II., il quale morì nell’ anno 1454. e del suo regnare, 47.) con la comunicacion de las naciones estrangeras se tratò de este genero de letras con mas curiosidad: Benchè il detto Autore in ciò prenda sbaglio, credendo, che fosse in Portoghese, quando, a dire il vero, il loro poetare era nel dialetto antico di Galizia (simile per altro a quello de’ Portoghesi) il quale è quasi un puro Provenzalismo, come si può vedere, ed osservare in leggendo i faggi delle Rime del sapientissimo ugualmente, ed infelice Re Don Alfonso X. soprammentovato, che si trovano per entro alcuni libri Storici Spagnuoli, ed in particolare presso il suddetto Gonzalo Argote (105: Luog citat. fogl. 136.), e appo i Bollandisti (106: Nel tom. 7. del Mese di Maggio fogl. 310.); i quali Bollandisti, per quello, che appartiene al linguaggio nel verseggiare, non discordan dal mio sentimento, ma sbagliano per altro, nel credere, che la cagione, per la quale il suddetto Re scrisse in quell’ Idioma, e non in Castigliano, fosse, perchè tutto’ l tempo della sua fanciullezza stette, ed abitò in Galizia (107); non sapendo essi, che quel dialetto, quasi Provenzale, era allora in uso nella Corte Castigliana: E si vederebbe, ed osserverebbe assai meglio, e senza scorrezioni, nè stroppiature, dal prezioso, e vagamente miniato Codice in cartapecora delle Rime dello stesso Monarca, che si conserva a S. Lorenzo nello Scoriale nella famosissima Biblioteca del nostro invittissimo Re, e Sovrano FILIPPO V., che Iddio conservi; ove le Poesie vi sono trascritte insieme colla Musica, incominciando a guisa di titolo: 

Don Alfonso de Castela

De Toledo, e de Leon, ec. 

Fezo cantares, e sones

Saborosos de cantar,

Todos de (e) sennas razones,

Com y podedes achar. 

Don Alfonso di Castiglia

Di Toledo, e di Leone, ec. 

Fece canzoni, e suoni

Savorosi da cantare, 

Tutti di serie, e savie ragioni, 

Come quì potete vedere. 

come si legge presso il suddetto Gonzalo. Sicchè fa d’ uopo concludere, come io dissi, che tutte le voci, che nel Provenzale, e nel Castigliano sono le medesime, o anno fra di loro stretta parentela (trattene alcune poche originate dall’ Arabico, e le prette latine, che sono comuni ad ambedue le lingue, ed alcune di moderne, che s’ incominciarono d’ introdurre a poco a poco nel nostro Contado, dopo che ad unicum Principem tota Hispaniarum potestas rediit, come era in tempo de’ Re Gotti) le anno ricevute i Castigliani dalla nostra lingua Provenzale, ovvero Catalana; o per lo meno così si debbe credere, come ci ammonisce l’ eruditissimo Benedetto Varchi Lettor di Lingua Toscana, nel suo Dialogo delle Lingue intitolato l’ Ercolano, dove parlando delle nostre voci, che passarono alla Toscana, e ricercando il Conte Cesare, se farebbe possibile, che i Toscani avessero alcune di coteste stesse voci, non da’ Provenzali preso, ma da quelle medesime Lingue, dalle quali le pigliarono i Provenzali; risponde esso Varchi, che farebbe, e anco, che la Provenza n’ avesse prese alcune dalla Toscana; ma perchè i Rimatori Provenzali furono prima de’ Toscani, perciò si pensa, che essi abbiano dato, e non ricevuto cotali voci.


XXXIII. 

Ma giacchè di sopra ho annoverato, ancora che di passaggio, una buona parte delle voci Franzesi usate da’ Toscani; parmi, che troppo torto farei alla mia Nazione Spagnuola, se prima di passare ad altri preliminari avvertimenti, lasciassi quì di mentovare le voci Castigliane adoperate parimente da’ Toscani, benchè la ricerca, e difesa di queste aspetti propriamente ai Castigliani, siccome a’ Franzesi delle loro. 

Sono elleno dunque le seguenti. Accatarrare, acciacco per iscusa, ovvero malattia finta; aloscia, aorcare, attizzamento, attizzare, avvogado, baja, bizzarro, bizzarria, catarro, catarrale, catarroso, cavo, chicchera, chitarra, e chitarriglia suo diminutivo usato dal Tassoni nella Secchia rapita:

Cantando a l’ improvviso a note grosse 

Sopra una chitarriglia discordata: 

cianceare, cianciatore, ciancioso, ciancione, ciancia, ed indi ciancetta, ciancerella, ciancerulla, e cianciolina; ciccia, cioccolate, cunzia, cunziera, dentro, donde, donno, ovvero don per titolo di onore, Provenzal. en; garbo, cioè avvenenza, o leggiadria, onde garbato, garbatezza, e garbatamente; garretto, incatarrare, lindo, lindezza, majorasco, majorana, molenda, mozzo di camera, pastiglia, piccatiglio, polviglio, puntiglio, raso, per una spezie di drappo di seta; rocca pronunziata coll’ o stretto, scarabattola, scoffina, sgarratare, sussiego, torrione, vainiglia, valigia, valigiato, ed indi svaligiare, e svaligiato; vicino, per cittadino; vigliacco, vigliaccheria, zappa, onde zappare, zappatore, zappatorello, zappetta, e zappettare


XXXIV. 

Molti sono poi gli Autori, che si sono affaticati in ricercare le origini, ed etimologie della Lingua Italiana, o vero delle sue voci, tra i quali si possono annoverare per ordine cronologico, Pierfrancesco Giambullari, Ascanio Persio, Angiolo Monosini, Celso Cittadini, Ottavio Ferrari, ed ultimamente Egidio Menagio; ma io debbo avvertire, che intorno a questa sorte di studio, poco, o nulla mi sono affaticato; perchè il mio scopo solamente è stato di far vedere, e provare, che tutte le voci, che nel mio Libro ho compilate, le anno prese immediatamente gl’ Italiani dalla nostra Lingua Provenzale, o sieno elleno per altro originate dalla Greca, o dalla Latina favella, come veramente sono quasi la maggior parte, o da qualunque altra più antica Lingua. E anche perchè siccome confesso, che in tutte le Lingue, e più nella Toscana che in nessuna dell’ altre, si trovano vocaboli di diversi Idiomi, così niego, che si debbia dar piena fede a cotali Autori; (sono parole del Varchi nel suo Dialogo delle Lingue al quesito VII. parlando di simili etimologici, ed originatori) Prima perchè per una etimologia, la quale sia certa, e vera, se ne ritrovano molte incerte, e false: Poi, perchè coloro, i quali fanno professione di trovare a ciascun nome la sua etimologia, sono bene spesso, non pure agli altri etimologici, ma ancora a se stessi contrari:  oltra che egli non si ritruova voce nessuna in veruna lingua; la quale, o aggiugnendovi, o levandone, o mutandovi, o trasponendovi lettere, come fanno, non possa didursi, o dirivarsi da una qualche voce d’ alcuna lingua: Senza che egli non si può veramente affermare, che un vocabolo, tutto che sia d’ origine greca, e s’ usi in Toscana, sia stato preso da Greci, verbigrazia questa parola Orgoglio è posta tra quelle dagli Autori, che avete nominati, le quali dirivano dal Greco, e nondimeno i Toscani (per quanto giudicare si può) non da i Greci la presero, ma da’ Provenzali. Similmente Parlare, e Bravare, che io dissi di sopra esser venuti di Provenza, anno secondo cotesti medesimi Autori l’ origine greca, e con tutto ciò i Toscani, non dalla Greca lingua, ma dalla Provenzale è verisimile, che gli pigliassero.


XXXV. 

Vero è però, che non per questo ho tralasciato di leggere, e considerare tutte l’ Opere, e le Origini, che da’ suddetti Autori sono state con tanto studio, ed apparato d’ erudizione compilate; sapendo bene, per altro, quanto importi il rintracciare la fonte, e l’ origine delle voci, per bene, e saviamente, a suo proposito impiegarle, come magistralmente m’ insegna il letteratissimo Salvini (108: Anton Mar. Salvin. Pros. Toscan. a c. 215. ); Anzi avendo osservato, che tutti, salvo il Monosini, che rispetto agli altri è il più sicuro, e dall’ Accademia della Crusca in molte delle voci accettato; benchè, per altro, non lasci d’ esser con ragione ripreso da chi ne sa più di lui (109), s’ oppongono alla verissima opinione del Bembo, e del Varchi, e di tanti altri autorevoli Scrittori, intorno alle voci, che la Toscana ha tolte da’ Provenzali; ho stimato essere mio obbligo il raccogliere quì gli argomenti, e le obbiezioni in generale, che fanno i suddetti contraddittori, e dar loro preliminarmente la dovuta soddisfazione, oltre alle risposte, che per entro il mio Libro sotto alcune delle voci si danno, contro alle particolari opposizioni, secondo l’ occorrenza de’ casi.  



XXXVI.

Il Menagio dunque, al quale (benchè sia stato l’ ultimo, che in simile materia abbia scritto) pare, che il primo luogo sia dovuto, così discorre alla voce Augello: Il Bembo nelle Prose, e ‘ l Varchi nell’ Ercolano, vogliono, che sia della Lingua Provenzale. Che che ne sia, chiara cosa è, che s’ origina dal Latino avicellus, diminutivo di avis; siccome uccello, voce, come dicono, antica Toscana. Avis, avicus, avicellus, aucellus, UCCELLO: augellus, AUGELLO. Le Glose antiche: aucellus *. Così da avica fecero oca gli Italiani; pigliando, come far si suole in cotali materie, il genere per la spezie. Avica, auca, oca, oa, Gall. oye. L’ istesse Glose: auca *. Quelle d’ Isidoro: aucella, ortygometra. 

Il Glossario Arabico-Latino – auca anser. S’ inganna il Castelvetro, (che che ne dica egli) il quale nel suo Discorso intitolato: Ragione d’ alcune cose segnate nella Canzone del Caro; ed in quell’ altro intitolato Correzione d’ alcune cose del Dialogo del Varchi, come ancora ne’ suoi Comentari sopra la Poetica d’ Aristotele; conforme all’ opinione di Jacopo Silvio, fa venir la detta voce Italiana oca dalla Greca *, che val l’ istesso; congiungendosi l’ articolo Greco * con quel nome. Ben s’ avvide il Varchi di quest’ errore: (nel qual pure inciampò il Vossio nel Trattato de Vit. Sermonis) ma non seppe già l’ origine di questa voce

oca. Or, derivando ella indubitatamente dal Latino auca, come s’ è veduto, è più verisimile, che gl’ Italiani l’ abbiano presa da’ Latini immediatamente, che da’ Provenzali. Il che s’ intenda parimente per infinite altre voci Italiane, originate altresì dal Latino: le quali pure, e il detto Bembo nelle sue Prose, e il detto Varchi nel suo Ercolano, e i Deputati sopra la correzione del Boccaccio nelle loro Osservazioni sopra il Decamerone, ed il Tassoni nelle sue Considerazioni sopra il Petrarca, voglion, che siano Provenzali. Nè vale il dire; come fanno il Bembo, e’ l Varchi; che i Rimatori Provenzali furono prima de’ Toscani; e che perciò sia da credere, ch’ essi abbiano date, e non ricevute, cotali voci; potendo anche sussistere una lingua, senza che vi sieno de’ Rimatori. Oltre a ciò, cominciò a formarsi la Favella Italiana dalla Latina, gran tempo avanti a que’ Rimatori Provenzali; cioè, circa il tempo dell’ Imperador Giustiniano, come l’ osservò bene Claudio Salmasio al capo quinto delle sue Osservazioni, intorno alla Giurisprudenza de’ Greci, e de’ Romani. Eccovi le sue parole: Scriptae sunt eo tempore Pandectae, quo Lingua Latina, jam in Italicam, quae nunc in usu est, desciverat. Cujus rei fidem facere potest Instrumentum Securitatis Plenariae, conscriptum quintodecimo anno Justinianei Imperii, Ravennae (lo fece stampare in Roma Gabriello Naudeo) in quo pro recto casu, & quarto, passim sextum reperire est. In Itinerario Antonini omnes Urbium appellationes sexto casu enuntiatae leguntur” con quel, che segue. Quasi lo stesso dice il Lipsio al capo 3. del suo Dialogo de recta pronunciatione: là dove intende di provare, che la Favella Italiana abbia più di mille anni: Argumentum mihi ex narratione, quae in Historia Miscella, de rebus sub Mauricio Imperatore gestis ait Paulus Diaconus, in exercitu cùm animans cecidisset, clamante quadam, torna, torna, frater, universas copias in fugam versas ambigua illius vocis: Agnoscis clarè Italicismum in his verbis. Et alterum firmius ab Instrumento, quod Luteciae in Bibliotheca Regis observatur. Transactio eo continetur Stephani Tutoris, cum Gratiano Pupillo, scripta anno Justinianei Imperatoris trigesimo octavo: & scripta hac vulgare Lingua.


XXXVII. 

A questa sì fatta obbiezione soddisfacendo, dico: che le suddette autorità del Salmasio, e del Lipsio fondate ne’ citati strumenti nulla conchiudono contro il mio assunto: Imperocchè, dal leggersi in essi sovente il sesto caso in vece del retto, e del quarto; e dal trovarsi ne’ medesimi, delle parole barbare, altro non si può inferire, se non, che nel tempo dell’ Imperadore Giustiniano, ovvero nel Secolo VI. allora quando in Costantinopoli verso l’ anno 533. fece egli compilare le Leggi Romane in quella forma, che si vedono ne’ Digesti, nel Codice, e nell’ Autentica, era l’ Idioma Latino già alla declinazion traboccante. Posciachè, sebbene in detto tempo è verisimile, che incominciassero a formarsi, o a nascere, per così dire, alcuni Vocaboli della nuova Lingua Italiana, questa però non si formò, o vero non *s*resse comune, ed idiomatica, che fino alla metà del Secolo XIII., o in quel torno, come confiderò bene il Muratori quando disse (110): Nasceva allora, (in tempo del Petrarca) per così dire la Lingua, e la Poesia volgare Italiana, e il celebre Abate Salvini, nella sua eloquentissima Orazione in lode di S. Zanobi Protettore dell’ Accademia della Crusca, nella seguente guisa (111: Pros. Toscan. fogl. 3.): 

Ma per avere a dare un Santo Protettore a una Lingua, che quantunque novellamente nata, pure nell’ origine sua è antichissima, e nel tempo di San Zanobi, era, per così dire, in corpo alla latina, che appresso ben lungo tempo partorire la doveva; il maggior nostro antico Santo parea, che si convenisse; avendo l’ antichità in se, ancor puramente considerata, non so che dell’ autorevole, e del reverendo.


XXXVIII. 

Il che si compruova dall’ osservare, che fino alla declinazione del mentovato secolo XIII., fu ancora in uso nell’ Italia la Lingua Latina, benchè fosse già spirante, e semimorta, come accenna il Buommattei (112: Benedetto Buommat. trat. *7 cap. 3.): 

Questa (cioè la Lingua Toscana, dice egli) sino che durarono le potenze straniere, e grandi, fu sempre in poca stima, nè mai potette salire in alcun grado d’ onore. Ma quando l’ Italia restò liberata da’ barbari, molte Città di essa, scosso il giogo de’ particolari potentati, cominciarono a reggersi a popolo: e perciò dovendosi spesse volte parlare a’ popoli per le comuni bisogne delle Repubbliche: s’ allargò la frequenza de’ parlamenti pubblici: i quali dovendosi fare in quella Lingua, e con que’ vocaboli, che da’ medesimi popoli, a cui si parla, s’ intendono; perchè i Popoli d’ Italia non intendevan più nè la pura Latina, nè la pura barbara, bisognava ch’ e’ si facessero in questa nuova Volgare. Ond’ ella per questo cominciò a uscir delle tenebre, a pigliar piede, e avanzarsi. Perchè dal vedersi, che que’ dicitori, che più regolatamente, e più acconciamente parlavano, eran di tutti gli altri più grati a’ popoli, che gli ascoltavano, e sempre eran da quelli più volentieri esauditi; molti cominciaron con grande studio a considerar le sue Leggi, a distinguer le sue vaghezze, a imparar le sue regole. E il Signor Du-Cange (113: Prefaz. Glossar. Lat. Barbar. num. 37.): 

Inter haec tamen non extincta omninò Latina Lingua, licet in senium quodammodo obierit, con quel, che segue.


XXXIX. 

E più chiaramente lo spiega l’ Autore della Difesa della Lingua Italiana, o vero del Discorso in forma di risposta a una lettera d’ un virtuoso amico; che sia lodevole il trattare le leggi, e le altre facoltà nella Lingua Volgare, in occasione dell’ Opera del Dottor Volgare: con le seguenti parole (114: Num. 20., e 21. fogl. parimente 20., e 21. ediz. Roma 1675.): “Ma perchè in quei tempi (ne’ secoli XII., e XIII.) non era totalmente morta nell’ uso comune; e volgare nell’ Italia la suddetta Lingua Latina, ancorchè fosse spirante, e semimorta, come in gran parte corrotta, e confusa da tante diverse lingue barbare, e forestiere; Ma non erasi ancora resa comune, ed idiomatica la moderna, e corrente Lingua Italiana, la quale fu raffinata dipoi da quel gran miscuglio di tante varie lingue, che in questa Provincia si scorgea: Quindi seguì, che così i primi Glossatori, ed Interpreti delle suddette leggi, come ancora gli altri letterati, i quali in questo medesimo tempo cominciarono a ridurre la Filosofia, e la Teologia, e le altre scienze a forma di facoltà disputativa, e di proposizioni scuolastiche, si valessero di quell’ istessa lingua, nella quale ritrovarono, che fossero le suddette opere antiche, continuandone l’ uso, ancorchè in una forma più corrotta, e più barbara, perchè così richiedea la condizione di quei tempi, ne’ quali quella era la migliore, e la più culta, ed elegante lingua, che vi fusse, conforme si è accennato ancora nel principio dell’ Operetta dello stile. E da ciò apparisce chiaramente, che non fusse un’ 

accurata, ed una misteriosa elezione, il trattare le leggi, e le altre scienze, ed anche gli atti giudiziali, ed i convenzionali, ovvero le ultime volontà nella Lingua Latina, come contradistinta dall’ Italiana, ma che ciò seguì, perchè così portasse la condizione di quei tempi, ne’ quali non era ancora ben ripolita, e fermata la corrente Lingua Italiana, che però fu creduto di parlare tuttavia con la Lingua Latina, ancorchè in qualche parte corrotta; E per conseguenza cessando oggidì questa ragione, non vi si scorge necessità, o ragione alcuna, la quale precisamente obblighi a continuar questo stile. 


XL. 

La Provenzale, all’ incontro, che assai frequente era in Italia, come dice Monsignor Panigarola (115), e particolarmente in Toscana, dove alcuni si posero a scriver Provenzalmente, come rinverga l’ eruditissimo Tommaso Bonavventuri (116); e poco meno che per tutta l’ Europa si sparse, e come si sa fu da’ Toscani studiosamente ne’ primi tempi adoperata, e poi lungamente imitata, secondo attestano Filippo, e Jacopo Giunti (117), e il moderno gran Prosatore Toscano (118), essendo all’ ora (ne’ tempi de i Re di Sicilia) amata, e pregiata, come oggi sono la Greca, e la Latina da noi, conforme afferma Monsignor Vincenzio Borghini (119), era già stabilita, e idiomatica ne’ secoli VIII., e IX., e spezialmente ne’ tempi degl’ Imperadori, Carlo Magno, e Lodovico Pio, e fioriva già ne’ secoli XI., e XII., come si manifesterà appresso, e si vederà appieno dalle sopraccennate Tavole de’ libri, e degli Autori citati per entro l’ Opera.


XLI. 

Ben conobbe però lo stesso Menagio la forza, e l’ autorità incontrastabile del Bembo, e degli altri sopra nominati, poichè dopo il suo discorso, ed argomento nella maniera sopra trascritta, così egli immediatamente, e quasi correggendosi di ciò, che prima avea affermato, seguita, e prende a dire: “Non nego però, che non si trovino delle voci Italiane, originate dal Latino, le quali cavarono gl’ Italiani da’ Provenzali. Ed in questo proposito parmi molto ragionevole il sentimento de i detti Deputati sopra la correzione del Boccaccio, di cui tali sono le parole. E poichè siamo in questa materia, aggiungiamo, che Monsignor Bembo confiderò questa dimestichezza della Lingua nostra con la Provenzale molto bene, e come volentieri i Nostri presero delle lor voci, e nominonne alcune: E colui, che in questi ultimi tempi ha cerco di abbattere questa sua verissima opinione (intendono del Castelvetro) ha avuto il torto. Nè vale a dire, per dare esempio di una, che il Dottare sia preso dal Dubitare Latino, che, a ristringersi al vero, è una sofisticheria; e non impedisce quel, che dice il Bembo; perchè dal Latino cavarono i nostri Dubitare, e Dubbiare, e non Dottare: e Dubbio, e non Dotto, o Dotta; e così gli altri di questo verbo; Ma quello presero i Provenzali da’ Latini accomodandolo all’ uso loro, e da loro poi i nostri; e vennero queste voci nella nostra Lingua, come forestiere di Francia (cioè dalla Provenza) e non da Roma, e sebbene ci furono in que’ tempi volentier vedute, se ne son pur poi tornate a casa loro (cioè le suddette, dottare, dotto, e dotta, come antiche, e disusate) dove quell’ altre, (cioè dubitare, dubbiare, e dubbio) venute da luogo più vicino, ci sono oggi, per la lunghezza del tempo divenute Cittadine.


XLII. 

Onde conchiuderò, che dello stesso modo, che i suddetti Deputati nelle loro eruditissime Annotazioni sopra alcuni luoghi del Decamerone di M. Giovanni Boccacci, confutarono, e ribattettero la Giunta fatta da Lodovico Castelvetro alle dette Prose del Bembo, in ordine a questo affare delle Voci Provenzali; confermando, ed autenticando colla suddetta loro autorità, che si legge a car. 110. di esse Annotazioni stampate in Firenze nel 1574., la verissima oppinione di quel celebre Porporato, con espressa dichiarazione, che colui, che in questi ultimi tempi ha cerco di abbatterla, ha avuto il torto, come dimostrano coll’ esempio della suddetta voce Dottare, senza molte altre tali, che, come dicono appresso a car. III., ne potremmo addurre a confermazione del vero; ed in difesa, se bisognasse, del considerato discorso di quel Signore, che è troppo più, che non si credette costui, in tutto quel, che egli scrisse, sentito, ed accorto, e degno per la sua bontà, e per li favori fatti da lui alle lettere, di restar sempre nelle menti degli Studiosi, con santa, ed amorevolissima memoria: Così parimente l’ Accademia della Crusca coll’ esemplo della voce Gente, addiettivo, rintuzzò il Menagio intorno ad alcune voci, che questo Originario Franzese, contraddicendo alla verissima openione del Cardinal Bembo, e del Varchi, e del Redi, e di tanti altri, non voleva, che fossero state prese dal Provenzale: Imperocchè se bene esso Menagio nelle sue Origini, alla voce Gentile in significato di Nobile, dopo aver riferita una bellissima, ed eruditissima osservazione del mentovato Redi, colla quale si dimostra, che essa Gentil voce, è la suddetta Gente furono tolte da’ Provenzali, disse: «Io quant’ a me credo di certo, che gl’ Italiani, e i Francesi, siccome i Provenzali, abbiano presa direttamente da’ Latini, e questa voce Gente, e quella di Gentile. Veggansi le nostre Origini della Lingua Francese, alla voce gentilhomme. Trovasi gens, per nobiltà di sangue, appresso Orazio lib. 2. Satira 5. &c.» 

E sebbene, altresì, nella lettera dedicatoria, che da Parigi in data de’ 20. Febbraio 1669. scrisse alla predetta Accademia, posta in fronte delle medesime sue Origini ristampate in Genevra nel 1685., disse: “Preso dall’ Accademia due anni sono lo stesso disegno (di comporre un Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana) scrissero le SS. VV. Illustrissime al Signor Alessandro Segni lor degnissimo Accademico, che allora si trovava in Parigi, mi domandasse da parte di essa le mie Origini Italiane, acciocchè ella ne registrasse nella sua Raccolta quelle, 

che le ne paressero degne. Per ubbidirle, subito le compilai. E per risparmiare alle SS.VV. Illustrissime la fatica di leggere il mio carattere, ne feci stampare a mie spese un centinaio d’ esemplari; la maggior parte de’ quali mando all’ Accademia &c. Mi fo a credere, che le SS. VV. Illustrissime incontreranno in questa mia Opera alcune cose dotte, erudite, e recondite. Anzi son sicuro, che ne troveranno assaissime, imperciocchè oltre all’ Etimologie de’ più pregiati Scrittori Italiani da me in essa in gran numero riferite, dopo aver l’ Accademia vostra, ad altro occupata, lasciato il pensiero dell’ Etimologico; i Signori Carlo Dati, Francesco Redi, e Valerio Chimentelli, tre suoi valorosi Accademici, con somma cortesia me ne participarono quante ne avevano &c.” “Le quali origini furono lette, e considerate dall’ Accademia, come appare dalla risposta di Carlo Dati fatta all’ istesso Menagio, posta parimente al principio di esse: Contuttociò la suddetta Accademia della Crusca, sommo Tribunale della Toscana Favella, nell’ ultima compilazione del suo Vocabolario nuovamente corretto, ed accresciuto, stampato nel 1691., fra le molte voci, che non furono registrate nella compilazione del 1612., nè in quella del 1623., vi aggiunse, e vi registrò la sopraddetta di Gente. Add. col Rescritto di esser Voce venuta dal Provenzale.


XLIII. Con la medesima autorità de’ suddetti Deputati, si può rispondere ad Ottavio Ferrari, la cui obbiezione consiste nel dire, che essendo le Lingue Italiana, e Provenzale nate dalla Latina, ed essendo altresì la Provenza, o vero la Gallia Narbonese la prima Provincia della Francia, che i Romani fecero tributaria, chiamandosi perciò col nome di Provenza, non si debbe credere, che l’ Idioma Italiano abbia tolte delle parole dal Provenzale; come si legge nella Prefazione delle sue Origini impresse in Padova nel 1676. Ma gli rispose già Carlo Du-Fresne Signor Du-Cange col seguente Discorso (120: Prefaz. Glossar. Lat. Barbar. num. 16.): «Quot denique Catalonia, ac Aragonensis tractus, ipsaque Italia à Provincialibus nostris voces accepit? Tametsi non desunt, in quibus est Octavius Ferrarius vir plurimùm eruditus, qui Bembum carpant, quod voces, quarum origo, ajunt illi, acumen ejus effugerat, Gallis Provincialibus adscripserit, cùm tamen nemo ignoret eam Galliae partem, idest Narbonensem, ideò Provincialem appellatam, quod prima ex Gallicis Imperio Romano subjecta, & in Provinciam redacta fuerit. Quod sanè, etsi verum sit, non ideò tamen sequitur Provincialia Idiomata non accepisse Catalanos, & Italos, cùm quae hodie servant, non pro Hispanicis, vel Italicis à probatis Scriptoribus habeantur, tametsi Hispanica, & Italica Lingua, perinde ac Provincialis, Latinae origines suas debeat, cum, ut ait S. Hieronymus in Math. Cap. 26. unaquaeque Provincia, & Regio habeat proprietates suas.» Con quel, che segue.


XLIV. 

Avvertendo però, che io non concorro con esso Du-Fresne allorchè dice, che la Catalogna abbia dalla Provenza ricevuto il Linguaggio, perchè più tosto il contrario si debbe credere, ed affermare, come ho dimostrato di sopra nel numero VI. Nè meno concorro nell’ affermare, che per essere stato il Nerbonese (Narbonese) il primo Paese, che i Romani conquistarono nella Francia, sia stato perciò appellato col nome generale, ed assoluto di Provincia senza aggiunta d’ altra parola, talmentechè, in dicendo Provincia s’ intendeva sempre la Provinzia, o il Paese Narbonese; onde è rimasto il nome di Provenza in cambio di Provinzia, si come voce di quel fine, che amato era molto dalla Provenza (121: Bemb. Pros. I.); ma bensì parce qu’ il a êté le plus considerable, & le plus chery, pour sa dignité, & pour les raretez qui s’ y trouvent, êtant reputé, & estimé par les Romains, une vraye Italie, comme dit Pline au livre 3. chap. 4. – agrorum cultu, virorum, morumque dignatione, amplitudine opum, nulli Provinciarum postferenda, breviterque Italia veriùs, quàm Provincia — parlant de la Gaule Narbonoise, à la difference de la Gaule citerieure, en la Lombardie, qui joüissoit du droit de Latium, come rinvergò il dottissimo Onorato Bouche (122: Nella Istor. di Provenz. tom. I. lib. I. §.7.).

Del restante, alla trascritta autorità di S. Girolamo di cui si prevale esso Du-Fresne, si può aggiungere la seguente di Francesco di Mezeray Istoriografo del Regno di Francia, la quale è più acconcia, e torna meglio (123) La langue naturelle des François estoit la Tudesque, ou Germanique: les Austrasiens, au moins les plus proches du Rhin, la garderent tousjours, & l’ ont encore, mais fort alterée. Les plus êloignez de ce fleuve en deçà, & les Neustriens la quisterent peu à peu pour prendre celle du peuple Gaulois, qui estoit la Romanique, ou Romanciere, autrement appellée la Latine rustique, laquelle s’ êtoit engendrée de la rouïlle, & de la corruption de la Langue Romane, ou Latine, diversement torduë, & contournée selon le genie des nations, & selon les idiomes des diverses provinces, tant pour l’ inflexion, & pour la signification des mots, que pour l’ air, & pour la phrase. 


XLV. 

Il Persio poi nel suo Discorso, intorno alla conformità della Lingua Italiana con le più nobili antiche lingue, e principalmente con la Greca, stampato in Venezia, e in Bologna nel 1592., avvegnachè espressamente non contraddica al sentimento del Bembo, del Varchi, che scrissero prima di lui; ben si riconosce però la sua contraria opinione dal seguente ragionamento (124: A cart. 8., c. 9)

“Siccome chiara cosa è, che la nostra Lingua Italiana per la più parte trae l’ origine sua dalla Latina, così quanto al rimanente onde ella si derivi, cioè da quante lingue, e quali riconoscer debba tante sue voci, e maniere di parlare con molti accidenti, che dalla Latina grandemente si allontanano, egli non apparisce ancora ben manifesto. Tuttavia si sono 

molti ingegnati di farci credere, che quanto di lei non ha del Latino, sia quasi tutto o Longobardo, o d’ altro barbaro idioma. Alcuni de’ quali a me non porgono gran fatto maraviglia, perciocchè non avendo essi d’ altre Lingue notizia, che della materna, e della Latina, somigliano alcun tale geografo, il quale nella descrizione ch’ ei facesse della terra, parti di essa più remote, e meno da lui conosciute ce le rappresentasse per salvatiche, e solo da fiere abitate, assicurato dalla lontananza di quelle, di non potere essere così agevolmente d’ error convinto: 

Ma ben mi maraviglio io di coloro, li quali facendo professione di bene intendere la Greca favella, anno nondimeno voluto aver per ricevute quasi tutte le parole, ed altre particolarità di questa Lingua, che a loro non parevano Latine, da ogni altra men nobile, e più nuova, che dalla Greca ec. E pure essendo essi Italiani pareva, che dovessero ingegnarsi di trovare, e presso che fingere alla nostra Lingua più nobile origine, che si potesse, per non traviare dal loro proprio, anzi dal comune costume degli Uomini d’ innalzare le lor proprie cose, siccome 

a ciascuno suol dettare l’ amor di se stesso.” 

Contuttociò non annoverando egli nell’ accennato discorso, che quaranta parole originate dalla Lingua Greca; ed alcune, dalla Latina; 

e due, o tre dall’ Ebrea, senza far menzione in verun conto de’ Provenzali; e per conseguenza non essendovi cosa, che meriti risposta, lo lasciamo da parte, senza ricercar altro, essendo questa tutta la sostanza del contenuto sotto quel vago, e spazioso titolo della Conformità della Lingua Italiana con le più nobili antiche lingue.


XLVI. 

Il Giambullari poi, Accademico Fiorentino, nel libro, che nell’ anno 1549. diede in Firenze alla luce, intitolato. Origine della Lingua Fiorentina, altrimenti il Gello, composto in forma di dialogo, vuole primieramente far credere altrui, che la suddetta Lingua abbia più dependenza, o sia più tosto originata, e formata dall’ Aramea, o Ebrea, che da qualsivoglia dell’ altre; e poi niega, che la medesima Toscana favella, o Fiorentina come allora dicevasi, abbia tolte delle parole alla Provenzale, con questo argomento (125: A cart. 127.): E si come ci addussero questi soldati (intende de i Tedeschi, e Goti) la lingua, o per dir meglio, le voci Todesche (: tedesche), così ci vennero ancora le Franzesi dagli Angioini, per que’ tanti Carli, e Roberti di Napoli, che impoverirono questa Città. E se voi forse mi diceste, che la Provenzale non è la Lingua Franzese, vi risponderò io, non solamente che costoro farono Franzesi, e non Provenzali: Ma che, o la Provenza, come vera Provincia Romana, donde ella si acquistò quel nome, parlava Latino, ma corrottamente; ed in questo caso non ci bisogna, come si dice, andare in oringa, per quello che abbiamo in casa: o ella parlava, come il resto della Francia, da alcune poche voci infuora, che per se stesse non fanno lingua; e così la possiamo giustamente chiamar Franzese più tosto, che Provenzale: o ella parlava un mescuglio sì fatto, che vi si riconosceva il Latino, e ‘l Franzese: e in qualunque di questi modi, se e’ si rende a ciascuno il suo, piglieremo il Latino di Roma, e di Francia tutto il resto.


XLVII. 

Per soddisfare a questo argomento di Messer Giambullari, concederò volentieri, che nella nostra Lingua Provenzale vi si riconosca la Latina, anzi affermerò, che tenint en tot una viva semblanza ab sa Mare Llatina, come osservano i nostri Autori (126: Presso il Signor Du Cange Prefaz. Glossar. Lat. Barbar. num. 35.), sia ella veramente la figlia primogenita di essa Latina: Ma non per ciò ne segue, che la Toscana, che è la figliuola più picciola, sì, ma (sia detto con buona pace e de’ Castigliani, e de’ Franzesi) la più bella, e leggiadra di tutte l’ altre sue sorelle, non abbia infinite parole tolte alla suddetta primogenita sua cara Maestra, e sorella maggiore, benchè dal Latino molte di cotali parole sieno originate, avendole prima i Provenzali prese, ed accommodate all’ uso loro, e da essi poi derivate ne i Toscani, come ottimamente rispondono al Castelvetro quei del 73. coll’ esempio del verbo Dottare, accennato di sopra ne’ numeri XLI., e XLII. in risponendo al Menagio. Che poi nella Lingua Provenzale vi si riconosca la Franzese, è falso, anzi al contrario la Francese è quella, in cui si riconosce la Provenzale, per esser questa più antica di quella; conciossiachè molto prima si parlò per tutt’ l Regno di Francia la Provenzale, che la Franzese, come si è dimostrato ne i numeri XXV., e XXVI., e si manifesterà ancora appresso colla autorità del Presidente Claudio Fauchet Franzese


XLVIII. 

Nega in oltre questo Fiorentino Accademico, che i nostri Provenzali Poeti sieno stati prima degl’ Italiani, col seguente discorso (127: A cart. 132.): Come può la Provenza aver trovato i versi, è le rime? che quando ben non si fossero vedute prima ne’ Greci, e ne’ Latini, (non si tratta delle rime o vero della Poesia Greca, nè Latina, ma della Volgare) dove oggi ancora le veggiamo; elle erano pure in Italia nella Corte de’ Re di Napoli, se non prima, nel medesimo tempo almeno, che in Provenza. Conciossia che Arnaldo, e gli altri famosi dicitori Provenzali furono col Conte Ramondo Beringhieri suocero di quel Carlo d’ Angiò, che occupando il Regno di Napoli, uccise il buon Re Manfredi figliuolo di Federigo II. Per lo che agevolmente pare da conchiudere, che Federigo predetto, fosse più tosto più antico del Conte Ramondo, che più moderno: E di Federigo ci sono pure stampate alcune Canzoni, non Provenzali già, ma Siciliane, o Italiane; come sono quelle ancora di Jacopo da Lentino, di Guido Giudice Messinese, del Re Enzo, di Pietro delle Vigne, di Bindo Bonichi da Siena, e del nostro Lapo Gianni; le quali tutte, se non sono più antiche, sono almeno della medesima età che le Provenzali.




XLIX. 

Intorno a così fatto ragionamento, debbo avvertire, che vi furono cinque Conti di Provenza dello stesso real cognome de i Beringhieri, e del medesimo nome di Ramondo; e questo Raimondo di cui parla il Giambullari, coetaneo dell’ Imperatore Federigo II. fu il quinto, ed ultimo, il quale morì nel 1245. come apparisce dalle Vite de’ Poeti Provenzali, cioè dalla XXVIII., che è quella appunto di esso Conte Raimondo; e meglio assai dalla Storia della Città di Aix, composta dal Dottor Giovanni Scolastico Pittoni, sotto’ l Capitolo intitolato (128): Raimond Berenguier V. du nom, dernier de la Maison de Barcellone, & ses quatre filles; onde l’ impareggiabile Dante (129): 

Quattro figlie ebbe, e ciascuna Reina

Ramondo Berlinghieri, e ciò gli fece 

Romeo persona umile, e peregrina: 

Ma però Arnaldo Daniello, e gli altri famosi dicitori Provenzali, come Giuffredo Rudello, appellato dal Petrarca Provenzalmente Giaufre Rudel, Piero di Vernigo, Elia di Bargiolo, Guglielmo di San Desiderio, Guglielmo Adimaro, ed altri, fiorirono più di cent’ anni prima del suddetto Ramondo suocero di Carlo d’ Angiò Re di Napoli, e Conte di Provenza; cioè, nel tempo, e prima ancora, dell’ Imperatore Federigo I., Poeta Provenzale anche esso, e di Ramondo Beringhieri il III. rispetto alla Contea di Provenza, e il IV. rispetto a quella di Barzellona, che fu padre d’ Alfonso I. Re d’ Aragona (N. E. el II como rey de Aragón, el I como conde de Barcelona), e morì nel 1162., come si è veduto di sopra nel num. xxxj., ed apparisce dalla predetta Istoria della Città d’ Aix (130), e dall’ epitome della genealogia de i Conti di Barzellona posto in fronte de i Volumi delle Costituzioni, e Leggi di Catalogna.


L. 

Nel rimanente, il voler provare, che la Lingua Toscana, o qualunque altra delle volgari, sia composta ed originata dall’ Aramea, ovvero Ebrea, è una temerità, per non dir pazzia, ed è lo stesso che ‘l voler fabbricar castella nell’ aria, come dice appunto l’ eruditissimo Atanasio

Chirchieri della celebre Compagnia di Gesù nella sua famosissima Torre di Babelle, il quale essendo stato interrogato dall’ Imperatore Ferdinando III. Utrum radices linguarum reperiri queant ad universalem quamdam linguam constituendam, siccome alcuni begli spiriti del suo tempo, si persuadettero, così rispose, e lasciò scritto (131: Lib. 3. part. 3. cap. 7. fogl. 218.) “Utique Caesareo perculsus imperio, ut laudabilis Caesaris curiositati quovis modo satisfacerem, à primis principiis propositum mihi dubium, singulari studio, & diligentia adhibita enodandum censui. Sed vix dum coeperam, cum ecce, ut verum fatear, idem mihi accidisse videtur, quod typothetae, qui plura librorum folia, compositione peracta, jam typis praelo destinata in promptu habet. Verùm nescio quo casu dissolutis ligaminibus typi sparsim per terram dissipati, nullum prorsus veri sensus vestigium relinquunt, neque ad pristinam formam prototypi jam perditi reduci queunt. Pari prorsus modo accidit in infinita illa propè linguarum, & idiomatum multitudine, & varietate, quae ab origine mundi hucusque ob inaccessam antiquitatis vetustatem, ob tot imperiorum mutationes, tot populorum diversorum commixtionem, inter tot denique rerum humanarum vicissitudines, & corruptelas expositae fuerunt, ut proindè minimè fieri posse existimem, aut fundamentum omnibus linguis commune reperiri posse, credam. Quot enim in lingua Chaldaïca, Syriaca, Arabica, & AEthiopica verba occurrunt, quae nullam prorsus ad primariam linguam, quam nos Hebraeam esse determinamus, (exceptis iis, quae ab ea demanarunt) similitudinem obtinentem totoque, ut ajunt coelo differunt? Quis rogo vel unicum verbum in lingua Hebraea ceterisque reperiet, quod ad linguam Graecam, ne dicam Latinam aliquam affinitatem habeat? Si verò nonnullae voces occurrerint, quae tametsi quoad sonum quamdam similitudinem polliceantur, illae significatione tamen prorsus contrarium exhibeant. Hacitaque diligentia praemissa, & combinatoriae artis amussi applicata, dico temerarium, ne dicam stolidum corum esse tentamentum, qui in hoc negotio adeò arduo, & viribus humanis superiori aliquid se praestare posse praesumptuosius credunt. Desinant itaque hujusmodi imperiti rerum indagatores piscari in aëre ranas, quae sine alis volare censent. Sisyphi saxum volvant, atque inutili labore revolvant, omnemque humanam in hisce explorandis industriam, vanam, irritamque se comperturos certò sibi persuadeant. Horum numero jungi possunt omnes ii, qui linguam Germanicam, aut quamvis aliam ex Hebraicis verbis, vocibusque constitutam demonstrare se posse existimant. Quos inter meritò primum locum obtinet Goropius Becanus, qui Belgicam linguam libro integro primaevam illam, veramque Hebraeorum linguam, aut saltem mediatè ab ea derivatam conatur demonstrare; miratus sum equidem 

virum caeteroquin eruditissimum, in re adeò ludicra, tot bonos dies, horasque consumpsisse. Quis enim nescit, in omnibus penè linguis nonnullas voces, Hebraeis quoad sonum similes reperiri, quarum tamen genuinam significationem ut exprimat, dici vix potest, quàm violenter, quàm coactè, ut quoad sensum Hebraeae respondeant, detorquere conetur. Et certè mihi persuadeo virum judicio pollentem 

difficultates occurrentes non potuisse non praevidisse. Ut proinde ne ejus existimationi nonnullo praejudicio esse videar, eum non tam veritate convictum, id sensisse, quàm ingenii luxuriantis aestu abreptum ad sagacitatem, subtilitatemque ingenii ostentandum, similia 

effutiisse arbitrer.


LI. 

Resta per ultimo Celso Cittadini, il quale scrisse tra gli altri, e diede alla luce due Trattati; l’ uno intitolato: Della vera Origine, e del Processo, e Nome della Volgar Lingua; e l’ altro: Dell’ Origine della Toscana Favella; a’ quali aggiunse le Note sopra le Prose di Pietro Bembo. Nel primo vuol dar ad intendere, che essa volgar Lingua Toscana, colla quale si parlò nel suo tempo, e si parla oggi, sia stata sempre da antico tempo adoperata in Italia, e spezialmente nel Lazio, sino da’ suoi primi abitatori sotto Jano, e Saturno; con quelle parole (132: Cap. 2.): che per ogni tempo, e prima, e poi, furono in Roma due sorte di lingue. L’ una rozza, e mezzo barbara, la quale era propria del volgo, cioè de’ Romani, e de’ Forestieri idioti, o vogliamo dir, della gente bassa, e de’ contadini senza lettere; i cui modi di dire, e le cui voci erano rifiutate dagli Scrittori, e da’ dicitori nobili; e fuor che le passioni di esse principalmente, e per la maggior parte sono rimaste nelle bocche degl’ Italiani Uomini senza distinzione di viltà, o di nobiltà: laonde ancor’ al presente linguaggio è rimasto il nome antico, cioè volgare, siccome convenevolissimo; poichè principalmente la Lingua Latina antica del volgo s’ è conservata fra noi; e di questa sorte di Lingua non avemo esempio alcuno di rilievo in iscritto, ma solamente se ne trovano così fatte reliquie in alcune iscrizioni, o titoli di statue, o di edifizi, e in alcuni epitaffi di sepolcri di que’ tempi; ed oltre a ciò v’ è la testimonianza di più Autori, che ella ci fosse, come a’ suoi luoghi verrem mostrando. E l’ altra coltivata dall’ arte, e pura Latina, la quale era propria degli scrittori, e de’ dicitori nobili, e letterati.


LII. 

Fra le inscrizioni da lui accennate, e in esso suo Processo della vera origine della Volgar Lingua prodotte, per provare, che con la Lingua, che si parla oggi in Roma, si parlava già in tempo degli antichi Romani, la principale, e di più rilievo si è la seguente della Colonna, che fu nel Romano Foro innalzata a Cajo Duillio Console nell’ anno 496. dopo l’ edificazione di detta Città, per la vittoria, che riportò dell’ Armata navale de’ Cartaginesi, come si legge nel Campidoglio.

EXEMET. LECIONES. MACISTRATOS.

EXFOCIONT.

PUCNANDOD. CEPET. NAVEBOS.

CONSOL. PRIMOS.

ORNAVET. DICTADORED. OLOROM.

ALTOD. MARID.

TRIRESMOS. CAPTOM. NAVALED.

PRAEDAD. POPLOM.

CARTACINIENSIS. 

La testimonianza de più Autori, che pel medesimo fine egli allega, è questa (133: Cap. 19.): “Nel Concilio Turonense celebrato sotto Carlo Magno si trova scritto, fra l’ altre cose: Visum est unanimitati nostrae, ut quilibet Episcopus habeat homilias continentes necessarias admonitiones, quibus subjecti erudiantur, id est, fide catholica, prout capere possint de perpetua retributione bonorum, & de aeterna damnatione malorum, de resurrectione quoque futura, & ultimo judicio, & quibus operibus possit promereri beata vita, quibusve excludi: & ut easdem homilias quisque apertè transferre studeat in rusticam, & idioticam Romanam Linguam, qua faciliùs cuncti possint intelligere, quae dicuntur.” Ove si vede, che quel Concilio intende espressamente della Lingua Volgare, la qual chiama, non barbara, per esser tutti Cittadini Romani, e Cristiani; ma chiamala, rustica, come la chiamavano anco i Romani fino al tempo d’ Augusto: onde appo Varrone, lib. I. de Lin. Lat. si legge: In pluribus verbeis A ante E alii ponunt, alii non, ut quod partim dicunt, Scaeptrum, partim dicunt Sceptrum, alii faenus, alii fenus: sic faenisicia, & fenisicia, à quo rustici, Pappum Mesum, non Maesum, à quo Lucilius scribit: Caecilius praetor ne rusticu sias. Onde Festo dice: Orata genus piscis à colore auri dicta, quod rustici aurum, orum: ut auriculas, oriculas:” come diciam noi ora volgarmente, oro, ed orecchie ec.


LIII. 

Il motivo fondato nelle iscrizioni antiche de’ Romani, non merita risposta, lasciando al giudizio del Lettore, il risolvere, se il Linguaggio, che si parla oggi, sia il medesimo che quello della suddetta inscrizione della Colonna, che fu dirizzata a Cajo. Quello però, ch’ io ho letto, ed osservato in Roma intorno a questo proposito si è, che la iscrizione, che si suol mettere alle porte delle case, che sono da affittare, è in Lingua Latina pura, che, in vece di dire Appigionasi, come si vede, e s’ usa in Firenze, dice a lettere di scatola, e di carattere gotico, Est locanda: onde da simile memoria, o anticaglia, che per succession di tempo, e di mano in mano ivi è rimasta, chiaramente apparisce, che essa Latina Lingua, avvegnachè non tutti i Romani la usassero colla medesima purità, ed energia di Cicerone, e di altri nobili dicitori, e letterati, era la unica, e la volgare, che gli stessi Romani, nel

comun parlare, ed in tutte le loro bisogne adoperavano; siccome ancora oggigiorno l’ inclito Senato, e Popolo Romano, o vero l’ Eccellentissimo suo Magistrato, ne’ suoi pubblici ragionamenti l’ adopera, e a tutto suo podere, e per amore, e per diritto di patria la mantiene, e conserva.

LIV. 

Circa poi alla prodotta testimonianza di più Autori, debbo giustamente avvertire, che la lingua di cui intende parlare quel Concilio celebrato in Francia in tempo di Carlo Magno, è appunto la nostra Provenzale, la quale fu in quei tempi appellata Romana rustica; onde il nostro Giaufre Rudel, ch’ usò la vela, e il remo 

A cercar la sua morte (134: Petrarc. Trionf. Amor cap. 4.),

antichissimo Poeta Provenzale, che fioriva circa l’ anno 1100., disse in uno de i suoi leggiadrissimi Componimenti (135: Cod. Vatic. 3205. a c. 102. terg.):

En es breu de pergamina. 

Tramet lovers qe cantam.

En plana lengua Romana. 

Anugo l brun ec. 

In questo Breve di pergamena

Trametto il Verso, che cantiamo

In piana Lingua Romana 

A Don Ugo il Bruno.


E ciò si comprova colla testimonianza di parecchi Autori, ed in particolare del Bouche (136), che dice così: Les originaires du Païs (intende della Provenza) ont puis apres introduit un nouveau langage different du Celtique ancien; lequel nouveau langage n’ êtoit point vraysemblablement d’ autre sorte, que Nithard au livre 3. parlant du mutuel serment que les Enfans de l’ Empereur Louis le Debonnaire firent au siecle IX. environ l’ an 842. nomme Romain, que quelques uns disent, qu’ il êtoit le vray langage Provenzal de ce siecle là, pour la grande conformité de paroles, qui se trouve en l’ un, & en l’ autre; c’ est ainsi que parle Nithard, qui vivoit en ce temps, qui êtoit parent de ces Rois, con quel che segue. E del Paschieri nelle sue Ricerche della Francia (benchè egli sbagli, prendendo la Lingua Franzese, per la Romana Rustica, poichè in tempo di Carlo Magno non era ancora nata essa Franzese, come si raccoglie da quel che è stato didotto di sopra nel numero XXVI., e si vederà appieno coll’ autorità del Fouchet, che s’ addurrà in appresso; essendo allora la sola Provenzale, ovvero la suddetta Romana Rustica, quella, che si usava per tutto ‘l Regno di Francia) il quale così lasciò scritto (137): «Sous ce mot de Romanus, on entend parler du Gaulois. De là vint aussi qu’ on apella Roman nôtre nouveau langage. Vray que pource qu’ il êtoit corrompu du vray Romain, je trouve un passage où on l’ appelle Rustique Roman. Au Concile tenu en la Ville d’ Arles (Arlés) l’ an 851. article dixseptiéme l’ on comand aux Ecclesiastiques de faire Homilies contenans toutes instructions qui appartienent à l’ edification de nôtre Foy. Et easdem Homilias quisque transferre studeat in Rusticam Romanam, aut Theodoscam, quò faciliùs cuncti possint intelligere quae dicuntur.” C’ estoit qu’ il vouloit qu’ on translatast ces Homilies en la Langue Franzoise, ou Germanique, que les Italiens apellent encores aujourd’huy Tudesque; par ce que nous commandions lors à l’ Allemagne, ainsi qu’ à la France. Depuis par un long succez de tems parler Roman n’ estoit autre chose que ce que nous disons parler François.


LV. 

E meglio assai, e più concludentemente si convince con l’ autorità di Claudio Fauchet, che fiorì, e scrisse nel secolo decimosesto (138): 

“Vray è, que nos Roys ayans leur Royaume estendu jusque dans la Germanie, & Pepin êtant venu des Ducs d’ Austrasie; la Cour de France êtoit durant les deux premieres familles hantée de deux sortes de gens parlans divers langages; à sçavoir ceux de deçà la riviere de Meuse, Gaulois-Romain, ceux de delà (vers, & outre le Rhin) Theusch, ou si voulez parler plus modernement, Thiois. &c. Qui peut être la cause pourquoy ceux qui du temps de cest Empereur vivoyent de là la Meuse estoyent estimez parler Theutonic, ou François Thiois; & ceux de deçà Romain, pource qu’ on appelloit ce quartier où nous demeurons, France-Romaine. Et suivant celà au Concile tenu à Tours l’ an 812. il est porté par le xvij. article, Quilibet Episcopus habeat Homilias &c. Et easdem quisque apertè traducere studeat in Rusticam

Romanam Linguam, & Theotiscam” c’ est à dire, en Langue Romande, & Thioise. Ceste Langue Romande n’ estoit pas la pure Latine, ains Gauloise corrompue par la longue possession, & seigneurie des Romains; que la plus part des hommes abitans de puis la dicte riviere de Meuse jusques aux monts des Alpes, & des Pyrenées parloient. ec. Et qu’ ainsi ne soit, qu’ on entendoit il y a DCCC. ans, que parler Rustic Romain fut le langage commun des abitans de deçà Meuse; il ne faut que lire ce qu’ a escrit Nitard en son Histoire de la discorde des Enfans de l’ Empereur Louis le Debonnaire, advenue en l’ an Dcccxlj. Car faisant mention de Louis Roi de Germanie; & de Charles le Chauve son frere Roi de France Westrienne ou Occidentale (c’ est à dire de ce qui est entre Meuse, & Loire) il dit, que les deux Rois voulans asseurer ceux qui les avoient suivis, que cête alliance seroit perpetuelle, ils parlent chacun aux gens de son pair (c’ est le mot don le dit Nitard use) à sçavoir Louis Roi de Germanie aux François Westriens, qui suivoient le dit Charles, en Langue Romaine, c’ est à dire, la Rustique; & Charles à ceux de Louis, qui estoient Austrasiens, Alemans, Saxons, & autres abitans delà le Rhin, en Langue Theutonique, qui est la Theotisque du dit Concile de Tours; ou comme j’ ay dit, Thioise. Les paroles du Serment que Louis fit en Langue Romaine furent telles, ainsi que je les ay prises d’ un livre êcrit il y a plus de cinq cens ans. Pro don amor & pro xpian poblo & nostro commun salvament dist di en anant inquant Deus savir & podir me dunat si salvareio cist meon fradre Karlo & in adiudha in cadhuna cosa si com hom per dreit son fradre salvar distino quid il un altre si faret. Et abludher (ab Ludher : Luther : Lotario) nul plaid nunquam prindrai que meon vol cist meon fradre Karle in danno fit.”

Et le peuple de Westrie respond en mesme langage. Si Loduvigs sagrament que son frade (fradre) Karle jurat conservat & Karlus meo sendr’ de sua part ñ lo stanit: Si io returnar non lint pois ne io ne nuls cui co returnar int pois in nulla adiudha contra Lodhuvig non li iuer.” 

Or ne peut-on dire que la langue de ces sermens, laquelle Nitard appelle Romaine, soit vrayement Romaine, (j’ entens Latine) MAIS PLUTOT PAREILLE A’ CELLE DONT USENT A’ PRESENT LES PROVENZAUX, CATALANS, ET CEUX DE LANGUEDOC. Et il appert par les livres composés en Langue Latine du temps de Charles le Chauve, qu’ il y a grande difference entre ce serment, & ce qu’ ils tenoient lors pour Latin. Il faut donc necessairement conclurre, que cête Langue Romaine entendue par les soldats du Roi Charles le Chauve, estoit cête rustique Romaine en laquelle Charles le Grand vouloit que les Omelies prêchées aux Eglises fussent translatées, à fin d’ être entendues par les simples gens, comme leur langue maternelle, aux sermons; ainsi qu’ il est aisé à deviner, ou juger. Il reste maintenant sçavoir, pourquoy cête Langue Romaine Rustique a êté chassée outre Loire, delà le Rône, & la Garonne? Ce que je librement ne pouvoir asseurer par têmoignages certains: Car qui seroit cêlui-la tant hardi, de seulement promettre pouvoir tiré la verité d’ un si profond abisme que celui où l’ ignorance, & nonchalance de sept ou huit cens ans l’ a precipitée? 


LVI. Nell’ altro Trattato poi, che fa il sopraddetto Celso Cittadini dell’ Origini della Toscana favella, oltre che egli già confessa sul bel principio, cioè nel capitolo primo, che la nostra Lingua concorsse alla formazione di quella; altro in quest’ opera non ha egli preteso di fare, che l’ ordinare alcuni precetti pel regolamento della pronunzia larga, e stretta, così nella E, come nell’ O; cioè per conoscere dove queste vocali vanno pronunziate aperte, e dove chiuse: Ma cotali precetti sono si sregolati, e confusi, che ha piuttosto illaqueate le coscienze de’  buoni Gramatici, osservatori scrupolosi del ben parlare, come disse, e criticò mirabilmente il suo concittadino Gigli (139); dell’ istesso modo per l’ appunto, che pretesero di fare, quei, che sul principio del secolo XVI., i caratteri Greci co i nostri pel medesimo fine mescolarono; ed in questi giorni volle fare altresì, il mentovato Gigli (140), senza badare agli avvertimenti, che il letteratissimo Abate Anton Maria Salvini, Maestro del ben parlare diede alcuni anni prima, su questo affare medesimo, agli amatori della Toscana pronunzia nella seguente guisa (141) “Il Signor Ottaviano Parissi Volterrano affezionatissimo tra gli altri agli studi di Lingua Toscana, mi diceva, che facilmente si potean distinguere nella scrittura i diversi suoni delle vocali; facendo per esempio, che l’ E significasse l’ e aperta: l’ e significasse l’ e stretta: l’ o con un punto in mezzo fusse l’ o aperto: senza, l’ o stretto. Già l’ v consonante si è posta in uso distinta dall’ u vocale. E così con poco, e senza far novità di caratteri si arricchiva la lingua di queste distinzioni. I caratteri Greci, mescolati co’ nostri, come voleva introdurre il Trissino, scordano nell’ architettura, e non fanno buona mischianza; oltre che l’ e (e más pequeña) per l’ e aperta non fu bene appropriata, essendo per altro, più nel valore all’ e stretta somigliante. Ci è lo Spatafora Siciliano, che ha fatto un Vocabolario come di Prosodia, co’ suoi accenti, e distinzioni di suoni; ma nè egli, nè il Trissino Vicentino per tutto sono sicuri, e non rappresentano sempre la legittima Toscana pronunzia.


LVII. 

Le Note poi, che ‘ l medesimo Cittadini scrisse sopra le Prose del Bembo, le quali il suddetto Gigli fece stampar in Roma presso Antonio de’ Rossi nel 1721., sono insussistenti, e derisorie come può vedere ognuno in leggendole; e quì ne darò un saggio. Parlando il Bembo nel primo libro, della stima, che per tutto il Ponente ebbe la Lingua Provenzale ne’ tempi ne’ quali ella fiorì; là dove dice: Anzi ella tant’ oltre passò in riputazione, e fama, che non solamente Catalani ec. o pure Spagnuoli più addentro (tra’ quali fu uno il Re Alfonso di Aragona figliuolo di Ramondo Beringhieri) ma oltre a ciò eziandio alquanti Italiani si truova, che scrissero Provenzalmente: vi fa la seguente annotazione. Nota: Catalani senza articolo è reputato essere barbarismo. E appresso: Nota: Alfonso Re di Aragona figliuolo di Ramondo Beringhieri: Erra credo in Istoria, che Genero suo fu, non figliuolo. Ora, se questo Cittadino Sanese avesse fatta riflessione, che il gran Bembo allora che colle sue regole in fiorito stile dettate, incominciò in quel luogo, ad alzar l’ insegna al bel Toscano parlare, parlò indeterminatamente, cioè senza annoverare chenti, nè quanti fossero i Poeti Provenzali di Nazione Catalana, che in quei tempi mirabilmente fiorirono; e che l’ articolo, sì in Toscano, che in Provenzale ha forza di determinare, e distinguere la cosa accennata, come insegnano i Gramatici, e doveva egli sapere, per essere Lettor pubblico di Lingua Toscana nello Studio di Siena; credo certamente che non avrebbe rinvergato, che Catalani senza articolo nel citato luogo fosse reputato per barbarismo. Oltrechè non è cosa nuova appresso gli scrittori nobili l’ adoperare più nomi nella Toscana favella, ora con articolo, or senza, secondo che vien loro più in acconcio, come dice magistralmente il Buommattei (142) pubblico Lettore di essa nello Studio Pisano, e Fiorentino.


LVIII. 

Per quello che riguarda all’ accennata Storia, doveva egli prima, per non errare, consultar le Croniche, e le Genealogie de i Conti di Barcellona, e de i Re d’ Aragona; o almeno nello stesso tempo, che s’ intrattenne in Roma ricercando nel Campidoglio, e altrove le iscrizioni antiche delle colonne, e degli epitaffi per tessere, e formare il processo della Lingua Toscana, potea vedere anche i Codici delle Rime Provenzali esistenti nel Vaticano, ove avrebbe trovato, che Lo Rei d’ Aragò aquel que trobet si ac nom Amfos, e fo lo premiers Rei que fo en Aragon fils den Ramon Berenguer que fo Coms de Barsalona

cioè, il Re d’ Aragona, quegli, che trovò (poetò) fi ebbe nome Alfonso, e fu il primiero Re, che fu in Aragona (cioè il primo della stirpe de’ Beringhieri) figliuolo di Don Ramondo Beringhieri che fu Conte di Barzellona: come si legge a lettere rosse, e belle in uno di essi Codici Vaticani (143), col seguente ritratto del medesimo Re a cavallo, che ivi è dipinto, e vagamente miniato (siccome vi sono altresì, e nella istessa guisa dipinti quasi tutti i ritratti degli altri Trovatori, o Poeti in esso Codice contenuti, e ognuno colla sua divisa, come fra gli altri quello del Vescovo Folchetto di Marsiglia, che è abbellito co i Pontificali vestimenti) ove si vede armato con lancia, ed elmo, e collo scudo della insegna del suo antichissimo, e Real Casato, consistente in quattro liste rosse in campo d’ oro, la quale insegna usa non solo il nostro supremo, e Real Senato di Catalogna, ma l’ Aragonese ancora sin da che il mentovato Raimondo Padre di esso Alfonso sposò la Regina d’ Aragona chiamata Petronilla, e prese il titolo di Principe, il che addivenne nel 1137.; e l’ adopera altresì la Città d’ Aix Capitale della Provenza, per privilegio concedutole da’ medesimi Conti Barzellonesi Sovrani di quella Provincia, particolarmente dal suddetto Alfonso I (Alfonso II de Aragón, I como conde de Barcelona). (144).

Lo Rei d' Aragò aquel que trobet si ac nom Amfos, e fo lo premiers Rei que fo en Aragon fils den Ramon Berenguer que fo Coms de Barsalona

LIX. 

Di tanto finalmente (per terminare colle stesse parole con le quali gli Accademici della Crusca finiscono la Prefazione del loro Vocabolario) ho stimato dover far avvertito il benigno Lettore, rimettendo il rimanente al discreto giudizio suo, e pregandolo a riconoscere in ogni parte di questa Opera, non meno la sincerità dell’ animo mio, che la mia faticosa applicazione nel cooperare a tutto potere al vantaggio non meno della Provenzale, che della Toscana Favella; Solo soggiugnerò per fine, che se talora vi faranno per entro ‘l Libro trascorsi alcuni barbarismi, o altri somiglianti errori di lingua; non lo faranno già tutti quei vocaboli, e modi di dire, che forse qualcheduno de’ Lettori poco pratico de’ MSS., e degli antichi testi di lingua, crederà, che sieno tali, o che gli parrà esser corrozioni; mentre si possono salvare con qualche esempio degli autorevoli Prosatori, e Poeti del buon secolo, conforme in simil proposito nota il sopraccitato Gigli nelle sue Regole sopra la Lingua Toscana (145: Il sopraddetto Gigli Reg. Tosc. Favell. a c. 56.); avvegnachè non sieno registrati nel Vocabolario della Crusca, la quale ne tralasciò molti contuttochè sembrino o corrozioni, o barbarismi; avendone io rinvergati alcuni, che per entro ‘l Libro ne’ loro posti dell’ alfabeto ho tratti fuora, come affaitare, cioè raffazzonare, agenzare, che vale abbellire, aigua per acqua, aire in cambio d’ aria, arma in vece d’ anima, cara per volto, oglio, cioè occhio, ed altri; non dubitando, che nella nuova edizione del Vocabolario, che si prepara, farà dato anche a questi il loro luogo, siccome pare, che ce ne dieno speranza gli Accademici (146); acciocchè a dispetto e dell’ obblivione, e dell’ ingiuria de’ tempi, onorata memoria se ne conservi, preservandogli da que’ pregiudici, e da que’ pericoli a’ quali i molti accidenti, portati necessariamente dal tempo fanno soggetti tutti i linguaggi (come osservano gl’ istessi Accademici (147), avendo mostrato la sperienza, che eglino o in tutto, od in parte si perdono, o s’ infettono, e si corrompono; de’ quali pregiudici già cominciava la nostra Lingua a sentirne parte, ed era in procinto di maggiormente sentirgli, essendo venuti, e venendo tutta via meno i libri manuscritti di buoni Autori, ne’ quali una grande, e forse la miglior parte di voci, e di locuzioni si conservava: ed acciocchè non possa mai loro accadere la disgrazia, che anno avuta le voci: andare zacconato, gattuccia, ed altre trasandate, delle quali non che l’ uso la significanza stessa si è perduta (148). Oltrechè per essere comunemente simili vocaboli, e modi di dire antichi Provenzali, radici, ed origini del purgato dialetto, che ora corre, come attesta il dottissimo Crescimbeni (149), sembra che per giustizia, non che per elezione sia loro dovuto decoroso stallo fra gli altri, che per entro il Vocabolario leggiadramente schierati si vedono, che non sono sì riguardevoli, e che nulla rappresentano, come chicchi bichiacchi, artagoticamente, ed altri così fatti. Anzi per l’ accennata ragione di essere eglino della Lingua Provenzale, e per conseguenza radici, ed origini dell’ Italiana, avvegnachè antichi, o corrotti sembrino, a bello studio si dovrebbono adoperare, non che registrare, come ci ammonisce magistralmente il Varchi (150).


LX. 

Laonde, per difendere, e salvare i miei errori, che per entro ‘l Libro possono essere trascorsi, conchiudo, che più tosto che errori dovrebbero con più proprietà chiamarsi Provenzalismi, de’ quali abbondano le scritture Toscane del buon secolo, e maggiormente quelle tratte da i testi Provenzali (151), che sono molte (152). E molto più si rende ciò manifesto, se si considera, come ho toccato di sopra, che la medesima nostra Lingua Provenzale pura, e schietta, che per tutta l’ Europa si sparse, fu ella da’ Toscani studiosamente ne’ primi tempi adoperata, e poi, lungamente imitata (153), siccome da tutta la Francia, dall’ Inghilterra, e dalla Germania (154), essendo allora amata, e pregiata come la Greca, e la Latina (155), e fu ai più delicati ingegni comune, ed universale; anzi tant’ oltre passò in riputazione, e fama, che ella sola fu in istima tra le lingue (156). Egli è ben vero però, che non per questo ho usato a bella posta modi, e parlari Provenzaleschi, ed altri, che da’ più esatti scrittori, e dal Comune delle Accademie oggi giorno si rifiutano; anzi mi protesto, che se talora n’ averò adoperati alcuni, ne farà stata la cagione la forza del natio parlare, che è assai efficace; e non mica già, perchè non abbia proccurato col mio studio, per quanto ho potuto, conformarmi all’ uso corrente, ed approvato dalla nostra Arcadia di Roma. Prego pertanto in ogni modo, il benigno, e cortese Lettore a voler compatirmi, se nel ragionare con questa moderna Favella, anzi per me nuova affatto, e straniera, in un’ Opera, per altro, di così vasto, e lungo lavoro, e d’ una smisurata ampiezza d’ Autori, e di Libri, averò talora sbagliato nella più stretta osservanza dell’ arte del ben parlare Toscano; posciachè, se io ho scritto in questa moderna Lingua del bel paese, che l’ Apennin parte, e ‘l Mar circonda, e l’ Alpe, ciò solo è stato per far risorgere, ed innalzare colla medesima quel puro, semplice, netto, e dolce Provenzale Idioma, in cui sono stato allevato, a quell’ antico grado di onore a cui era egli salito prima che ne cadesse, siccome per legge di natura sono obbligato, e giusta mia possa ho fatto per mezzo di essa sua cara Fiorentina sorella, e quasi figliuola, ove alzato per se non fora mai: Idioma Maestro, per altro, e Padre d’ una gran turba di Poeti, come Amerigo, Bernardo, Ugo, ed Anselmo, ed altri infiniti tutti dolcissimi, e Musici insieme, come erano gli antichi Lirici Greci; e Melici ancora, cioè compositori del Melos, o dell’ aria musicale, a i quali egli solo, lancia, e spada fu sempre, e scudo, ed elmo.


Continúa aquí (Tavola, taula)

NOTAS AL PIE:

(2) Federigo Ubaldini Tavol. Docum. Amor. Barberin. alle voci Bigordare, e Ostare, e nel Catalogo degli Autori Provenzali prefisso a detta Tavola.

Francesco Redi Annot. Ditir. terza ediz. accresciut. in Firenze 1691, fogl. 63. 140. 194. 195. 196. 198., e 203.

Gio. Mario, Arciprete Crescimbeni Custode d’ Arcadia Comentar. Istor. Volgar. Poes. volum. 2. part. I. fogl. 28., e 75.


(3) Benedetto Varchi nel suo Dialogo titolato l’ Ercolano a car. 155. ediz. Firenze 1570. Conte. E venendo al primo intendimento nostro, ditemi, di quante, e quali lingue voi pensate, che sia composta la Volgare? Varchi. Di due, della Latina, e della Provenzale. E car. 172.

Onde conchiudendo dico, che la Lingua Volgare, se bene ha di molti vocaboli, e di molte locuzioni d’ altri idiomi, è però composta principalmente della Latina, e secondariamente della Provenzale.


(4) Lo stesso Varchi nel citat. Ercol. a c. 115. Conciossiacosa che come la Latina si può dire d’ essere discesa dalla Greca, essendosi arricchita di molte parole, e di molti ornamenti di lei, così, anzi molto più la Toscana dalla Latina, benchè la Toscana quasi di due Madri figliuola è molto obbligata ancora alla Provenzale.


(5) Il Bembo Prof. 1. Perchè errare non si può a credere, che il rimare primieramente per noi da quella nazione (Provenzale) più che da altra si sia preso. ec. Il che se mi si concede, non sarà da dubitare, che la Fiorentina Lingua da’ Provenzali Poeti, più che da altri, le rime pigliate si abbia, ed essi avuti per Maestri; quando medesimamente si vede, che al presente più antiche rime delle Toscane altra lingua gran fatto non ha, levatone la Provenzale. Senzachè molte cose, come io dissi, anno i suoi Poeti prese da quelli, siccome sogliono far sempre i discepoli da’ loro Maestri ec. Per le quali cose, quello estimare si può, che il verseggiare, e rimare da quella nazione, più che da altra si è preso.


(6) La Proclamazione Cattolica, al §. XV. Y quando faltára otra prueva en recomendacion de las buenas letras de los Catalanes, basta por todos aver sido un Catalan maestro de Vuestra Mag. siendo Principe, que aclamado en ceñir la Corona por grande, resulta en el maestro competencias con Aristoteles, pues no tuvo mayor dicipulo (discípulo) este en Alexandro, que Don Galceran de Albanell en Vuestra Mag. ec. Però Señor, como el aborrecimiento pone estorvos a la aficion de V. M. notifican sus prendas, y las refieren, con desabrimentos y ultrages, escarneciendo hasta la lengua, que fué tan preziosa a los Señores Reyes de Aragon. Y assi disse Zurita, que era tan general la aficion de los Reyes, que desde que sucedieron al Conde de Barcelona, siempre tuvieron por su naturaleza, y antiquissima patria a Cataluña, y en todo conformaron con sus leyes, y costumbres, y la lengua de que usavan era la Catalana, y de ella fue toda la cortesania, de que se preziavan en aquellos tiempos. Todas las ordinaciones assi de la casa real, como otras eran en Catalan: las proposiciones que hazian los Señores Reyes en las Cortes, o Parlamentos, aunque se hiziessen a los tres Reynos, eran en Catalan. Las historias, que escrivieron de si mismos, como el Rey Don Pedro el Tercero, y el Rey Don Jayme el Conquistador, las compusieron en Lengua Catalana. Todos los poemas, que componian assi los Señores Reyes, como los cortesanos, eran en Catalan. Esta Lengua fuè la que diò principio a los versos, y rimas que se usan en Romance, cantando con ellas a consonancia, la dissonancia de las passiones. Los primeros padres de la Poesia Vulgar, fueron los Catalanes: Passando despues esta arte a Italia, Aragon, y Sicilia. 

El Petrarca con las obras de George Valenciano, compuestas en Catalan, diò propriedad, y dulçura al lenguage: florecieron muchos en esta arte, como el Cavallero Ausias Marc, Ramon Montaner, Jayme Roig, y otros muchos. En nuestros tiempos, floreciò en la Poesia Catalana el Dotor Vicente Garzia Rector de Vallfogona, cuyos poemas son celebrados por insignes en la agudeza, dulçura, y propriedad de pensamientos, y los admirò por raros el fenix de la Castellana Lope de Vega Carpio. Los Reyes de Aragon, y mas en particular el Rey Don Juan el I. hizieron tanta estimacion de la Poesia Catalana, que llamavan el Gay saber, o sciencia gaya, que para alentar los ingenios al trabajo con el premio, concedieron muchos privilegios a los que se esmeravan en esto, como consta en muchas provisiones reales. Ay en esta Lengua compuestos libros de todas facultades, y traduzidos en ella los Poetas mas graves, y mas insignes.

Gasparo Scuolano nella sua Istoria della Città, e del Regno di Valenza part. I. lib. I. cap. 14., ed altri.


(7) Giovanni di Nostradama Vit. Poet. Provenzal. nel Proemio:

Cesare di Nostradama nipote del suddetto Giovanni, in più luoghi della sua Istoria, e Cronica di Provenza.

Onorato Bouche nella Storia della medesima Provenza tom. I. lib. 2. Cap. 6.

Giovanni Scolastico Pittoni nella Istoria della Città d’ Aix lib. 2. cap. 5. fogl. 104., e lib. 6. cap. 15. fogl. 612.

Pietro Gassendi nella Vita di Claudio Peirese a car. 312., ed altri molti.


(8) Stefano Paschieri nelle sue Ricerche della Francia lib. 7. cap. 4. cart. 603. ediz. Parigi 1665.

Carlo Du-Fresne Signor Du-Cange alla Prefaz. del suo Glossario Latino Barbaro num. 35.


(9) L’ Arciprete Gio. Mario Crescimbeni Comentar. Istor. Volgar. Poes. volum. I. lib. I. cap. 3., e volum. 3. fogl. 120.


(11) Ramondo Vidal nel suo Libro titolato: La dreita maniera de trobar (la diritta maniera di trovare, cioè poetare) antico MS. della Libreria Medicea Laurenziana al Banco 41. Totz hom qe vol trobar ni entendre deu primierament saber qe neguna parladura non es naturals ni dreta del nostre Lengatge mas aquela de Lemosi e de Proenza e Dalvergna e de Caersin. Per que eu vos dic qe quant ren parlarai de Lemosin que totas estas terras entendats e totas lor vezinas e totas cellas que son entre ellas e tot lome qe en aqellas terras son nat ni norit an la parladura natural e dreta: cioè Tutt’ uomo, che vuole trovare, (poetare) ed intendere, debbe primieramente savere, che niuna parlatura è naturale, e dritta del nostro Linguaggio, se non quella del Limosino, e di Provenza, e d’ Alvernia, e di Caorsa: Perchè vi dico, che quando parlerò alcuna cosa di Limosino, che per esso Limosino intendiate tutte le suddette terre, e tutte le loro vicine, e tutte quelle che sono poste tra loro: E tutti gli uomini, che in quelle terre sono nati, e nodriti anno la parlatura naturale, e dritta.

Gasparo Scuolano nella sua Istoria di Valenza part. I. lib. I. cap. 14. num. I. La tercera, y ultima Lengua Maestra de las de España, es la Lemosina, mas general que todas ec. por ser la que se hablava en Proenza, y toda la Guiayna, y la Francia Gotica; y la que agora se habla en el Principado de Cataluña, Reyno de Valencia, Islas de Mallorca, Menorca, Yviça, y Sardeña.

Niccolò Antonio Bibliothec. Hispan. vet. tom. I. alla Prefaz. num. 26. vers. Ut enim veteres Provincialis Linguae, seu Valentinae Poëtas. 

E tom. 2. fogl. 49. num 144. Elucubravit ipse Jacobus I. Aragonie Rex, vernaculâ gentis, hoc est Provinciali, ut vocant linguâ (quae tam in Cataloniae, quàm in Valentiae, necnon in Montis-Pesulani, unde Maria fuit Regis mater, ditionibus usu fuit) rerum tempore suo gestarum historiam ec. Prodiit ea Valentiae cum hac vernaculâ inscriptione, quam retinere placuit, venerationem ut habeamus antiquitati.” Chronica o Comentari del gloriosissim, e invictissim Rey en Jacme Rey d’ Aragò, de Mallorques, de Valencia, Comte de Barcelona, e de Urgell, e de Montpeiller, feita, e escrita per aquell en sa lengua natural, e treita del archiu del molt magnific Rational de la insigne Ciutat de Valencia, hon estava custodita. Valentiae apud viduam Joannis Mey 1557. E num. 149. Floruere hoc ipso Regis clarissimi tempore duo viri poëtica facultate ad posteros clari. Mossen (ita pro Domino meo Valentini usurpant) Jordi, hoc est Georgius; & Mossen Febrer, qui vernaculâ gentis linguâ, quae eadem est cum Provinciali, & Catalana, magna cum laude versificati sunt. E fogl. 80. num. 66. Circa eadem tempora Fr. Petrus Marsilius ejusdem Ordinis Praedicatorum domus S. Catherinae Martyris, Barcinonensis Urbis, in Latinum ex vernaculâ Provincialium, sive Catalanâ lingua convertit historiam quam de rebus sui temporis Jacobus Rex Aragoniae primus superiore saeculo conscripserat. E cart. 105. num. 246. Sed honesto ut Francisci Petrarchae, nostro tamen (parla del nostro Poeta Ausias March) inferioris exemplo contenditur, amore Theresiae cujusdam de Bou Valentinae captus, vernaculi, hoc est Provincialis, seu Lemosini pangendi carminis omnem facultatem &c.

Cesare di Nostradama Istor. Provenz. part. 5. fogl. 540., e part. 6. fogl. 606., e 626.

Carlo Du-Fresne Prefaz. Glossar. Latin. Barbar. num. 34. 35., e 36.

Filippo Briezzi della celebre Compagnia di Gesù ne’ suoi Parallel. Geograph. vet., & nov. tom. I. part. 2. lib. 5 §. 6.


(16) Gasparo Scuolano Istor. Valenz. part. I. lib. I. cap. 14. num. 5. Estendieron sus limites los Catalanes poco a poco a las Islas de Mallorca, Menorca, e Yviça, a sus passos fue su lengua estendiendo los suyos. Tambien la passaron a Cerdeña, porque aunque es verdad, que los Sardos desde ab initio tuvieron lengua natural, que despues se fuè mudando de mil colores, y con las avenidas de los Romanos, Godos, Moros, Pisanos, y Genoveses de las de todas una confusa pepitoria, que hoy en dia se habla en la Isla: però es cierto, que corre parejas en ella la Valenciana, siendo esta la mas pulida, y corttesana dellos, y la que se entiende en los pueblos mayores, y Ciudades. En suma en aquellos siglos antiguos vino a tener la Lengua Lemosina tan grande credito, que como à muy cortesana se hablava en la Corte de los Condes de Barcelona, y en la de los de Monpeler. De aqui es, que como nuestro venturoso Conquistador el Rey Don Jayme se huviesse criado con ella, y tetadola en los pechos de su Madre ec. hizo tanto esfuerzo la Lengua en el, y en su Casa, que conquistada Valencia de poder de los Moros, y poblada de la mejor, y mas bellicosa gente, que tenia el Mundo, quiso que tuviesse parte su lengua en la Conquista, y que los nuevos pobladores huviessen de usar el Lemosin.

Il Dottor Giuseppe Romaghiera nella Introduzione del suo Atheneo de grandesa sobre eminencias cultas; Catalana facundia ab emblemmas illustrada ec. stampato in Barcellona del 1681. “Sim’ vituperas lo aver escrit en Català, not’ temo, perque murmurant la Llengua ab que parlas, fentla insturment de sas ignominias, los mateixos ecos de vituperi, ressonan calumnias a ta vil censura. A se, que no la ultrajavan aquells antics Eroes Catalans, que feren sentir los clamors de sas victorias a Atenas, y Neopatria, y los que ab los preziosos rubins de sas venas la imprimiren en Sardenya, Mallorca, y Valencia; però escusarè lo panegiric de sos aplausos, per no fer paraliponen, que exageràs ab sa grandesa la injuria, ab que l’ oblit sepulta lo augusto de sas proesas.

Monsignor Angelo Rocca nelle sue Opere ultimamente ristampate in Roma, tom. 2. fogl. 329. Sunt autem duae precipuae in ea Insulâ (nella Sardigna) linguae, una qua in Civitatibus, & altera, qua extra Civitates utuntur: sed oppidani loquuntur ferè Hispanicâ lingua Tarraconensi, vel Catalanâ, quam didicerunt ab Hispanis, qui tamdiù Magistratum in eisdem Civitatibus gerunt: alii verò genuinam retinent Sardorum linguam.

Attestazione, o Bulletta fatta dal Magistrato, e da i Deputati della sanità della Città di Caglieri capitale del Regno di Sardigna nell’ anno 1718. in Lingua Catalana; la quale ho voluto qui inserire, acciocchè ognuno sappia, che anche a’ tempi nostri adoperano quei popoli nelle loro pubbliche scritture la nostra Lingua “A universas singles Guardas de morbo de qualsevol Ciutats Vilas y Llocs axi del present Regne, com fora de aquell, y en qualsevol altra part. Los illustres Consellers, y Deputats per la custodia del morbo de la present Ciutat, y Castell de Caller primaria del present Regne, salut, y dilecsiò. Sertificamvos, y cascù de vos, com d’ esta present Ciutat se parteix Don Joseph Sunyer, y Bastero natural de Barcelona de edat de 19. ains, estatura bona, cabell castain per Roma, al qual, com en esta Ciutat per la gratia de Nostre Señor Deu Omnipotent hi y a bona sanitat sens dupte, ni suspiciò de morbo, ni altre mal contagiòs, lo podreu acullir, y donar pratica, y comerci sens impediment: en testimoni de las quals cosas se li despaccian las presents per lo Secretari de la Ciutat de val escrit, y sogelladas ab lo sogell de aquell. Dat en Caller a 29. de Juin Ain 1718. D. Juan Gaspar de Carnicer Segretario de su Magestad, y desta illustre Ciudad.


(17) Raimondo Montaner nella sua Storia intitolata: Cronica, o descripsiò dels fets e hazanyas del inclyt Rey en Jacme primer Rey Daragò, de Mallorques, e de Valencia, Comte de Barcelona, e de Muntspeler; e de molts de sos descendents: Feita per lo Magnific en Ramon Muntaner, lo qual servì axi al dit inclyt Rey en Jacme, com a sos fills, e descendents, e s’ trobà present en las cosas en la present Istoria: stampata in Barcellona nel 1562, esistente nella Biblioteca Casanattense, e in quella della Sapienza; Cap. 16. E axi la dita Ciutat de Murcia fo presa per lo Senyor Rey en Jacme Daragò en lany que hom comptava M. CC. XXXVIII. E com (incomincia il Cap. 17. titolato: Com fon poblada Murcia de Catalans, e com lo Senyor Rey en Jacme delliurà la sua part al Rey de Castella son gendre). E com la dita Ciutat hac presa, e poblada de Catalans, e axi mateix Oriola, e Elx, e Guardamar, e Alacant, e Carthagenia, e los altres locs: si que siats certs, que tots aquels qui en la dita Ciutat de Murcia, o els (cioè en los ne’ ) devant dits locs son poblats, son vers Catalans, e parlan del bel Catalanesc del Mon, e son tots bons homens d’ armas, e de tots feits ec. E com lo dit Senyor Rey hac la Ciutat de Murcia poblada, e los altres locs, ell lliurà la sua part al Rey de Castella son gendre. Vedi Francesco Cascales ne’ suoi Discorsi storici de la muy noble, e muy leal Ciudad de Murcia, discors. 2. cap. 4. 7. e 8., e discors. 19. fogl. 335., e 366., e discors. 20. cap. 4. fogl. 432., e cap. 5. fogl. 442.


(18) Il Rettor di Bellosguardo nella Epistola dedicatoria agli Accademici Barzellonesi, delle Rime di Vincenzio Garzia stampate in Barcellona l’ anno 1703. presso il Figuerò. E tinc per cert, que la Llengua Catalana (a be que tant dejectada per qui ni la usa, ni la enten, ensenyant las demes en Catalunya) si vestida al tall, y fortuna ha tingut la Castellana, de una centuria a esta part, no li deuria cosa. Y crec, ni menos li deu vuy; pues es la Llengua Catalana propria Espanyola llengua, y no tan arisca com l’ antigua Castellana, y en centurias atràs no menos estesa; puix per nostras gloriosas conquistas passà a las Islas del vehì mar, com tambè a altras Islas, y de ellas a las de Egeo, y a la difusa Assia; esplayantse per nostron continent desde Murcia a Narbona, (anzi infino a Nizza di Provenza distante da Murzia nove cento miglia) y encara cerca de esta se conserva una poblaciò, dita Barceloneta, (altra collo stesso nome di Barzellona ve n’ è in Provenza fondata dal Conte Ramondo Beringhieri sul principio del secolo XIII., ed altra pure nel Regno di Sicilia) y en Napols lo carrer, y portal de Barcelona guanyaren los Catalans (il Boccac. Nov. 15. Su per una via chiamata la ruga Catalana) y en temps dels gloriosos Serenissims Comtes de Barcelona Reys de Aragò era la Llengua de la Cort; y en las poesias de aquellas edats beatas, ditas sas Trobas: lo gay saber, que significa alegra, jocòs, y grat als mes melindrosos oídos.

Girolamo Zurita ne’ suoi Annali de i Re d’ Aragona part. I. lib. 8. cap. 18. Partiò el Rey (Don Pietro il IIII., e della stirpe de’ Beringhieri il III.) el otro dia de Pina, y fuesse a dormir a Candasnos, y el siguiente a Fraga, y quando fuè a vista de aquella Villa, diziendole Don Bernaldo de Cabrera que se alegrasse por que aquella Villa era de Cataluña, començò a bendezirla, y dezir grandes alabanças della; (di Catalogna) por que los Reyes que sucedieron al Conde de Barcelona, siempre la tuvieron por su naturaleza, y propria Patria; y en todo se conformaron con sus leyes, y costumbres y la Lengua de que usavan era la Catalana, y della fue toda la cortesania de que se preziavan en aquellos tiempos.

(19) Cesare di Nostradama Istor. Provenz. part. 2. sotto questo titolo: Seconde partie de l’ Histoire de Provence: sous les Comtes de Barcellone, & Rois d’ Aragon qui l’ ont possedée depuis l’ an. 1080, jusques en l’ an 1245. dal fogl. 91. al 209. Et pourtant que ce sont les Comtes de Barcellone, qui doivent d’ orênavant commander souverainement, & tenir le sceptre de Provence, il semble tres-expedient avant qu’ entrer au fil d’ une si longue materie, & aux courants de cête histoire, de voir en premier lieu, de quels insignes, & puissans ancêtres ces Comtes, & Marquis Aragonois sont descendus, & sortis &c. Fin de la seconde partie, & des Comtes du sang de Barcelone, & d’ Aragon

Onorato Bouche nella sua Istoria della medesima Provenza tom. 2. lib. 9. part. 2. col seguente titolo: Les Comtes proprietaires de Provence de la deuxieme race des Comtes de Catalogne, de Barcelonne, & des Rois d’ Aragon, durant l’ espace de 145. ans, sçavoir depuis l’ an 1100. jusques à l’ an. 1245. E poi al cap. I. della stessa part. 2. car. 101. 

Quoy que ce ne soit point de nôtre tâche de traiter de l’ origine de ces Etats de Catalogne, de Barcelonne, & d’ Aragon; neantmoins parce que nous devons être gouvernez en Provence durant l’ espace de 134. ans par des Princes de cête nation, il ne serà pas hors de propos, de dire un mot sur le temps, & le sujet de l’ institution de ces Etats.

(20) Giovanni Scolastico Pittoni nella sua Histoire de la Ville d’ Aix Capitale de la Provence, lib. 2. cap. 5. fogl. 104. Parmy tant de belles, & rares qualités qui accompagnoient nos Princes Catalans, celle d’ aimer les gens de lettres n’ êtoit pas la moindre; nous leur devons cet avantage d’ avoir remis l’ étude de belles lettres: Ce fut sous eux que nos Provençaux trouverent l’ art de rimer, & donnerent au Parnasse une dixiéme compagne, qui fut en même tems bien recuë dans la Cour des Grands. Les Italiens qui loüent fort rarement ceux qui ne sont pas de leur nation, le disent; & les Espagnols toûjours enflés de vanité le confessent, comme nous prouverons à un autre endroit, lors que nous parlerons des Troubadours, ou Poëtes, que nous ferons voir leur principale Academie dans la Ville d’ Aix.

Cesare di Nostradama Istor. Provenz. part. 2. Provence sous les Comtes de Barcellonne, a car. 132, Ce fut de ce tems que la Poësie Provenzale començà de se monstrer en honneur, & de resonner heroïquement sous les belles, & doctes rithmes d’ infinits Gentilshommes, & personages de qualité, qui se mirent à vulgairement poëtiser ec. dont ils furent appellés Troubadours.

Claudio Fauchet nel 2. volum. dell’ Antichità della Gaule part. 2. car. 331. terg. Les Berangiers entretenoient en Languedoc, Provence, & Catalogne, des homes d’ esprit, comme deçà les Comtes de Champagne les Trouvers, & Chanterres (car ainsi appelloit-on les Poëtes vulgaires) les quels au son de la vielle, ou violle chantoient des vers vulgaires finissans en unison, que depuis l’ on appellà rhimes.

Anton Domenico Norcia Congress. Litterar. Fogl. 210.


(21) Onorato Bouche nella detta sua Istoria di Provenza tom. I. lib. 2. cap. 6. fogl. 94. Finalement par l’ arrivée des Aragonois ec. depuis l’ an. 1110. au tems des Berenguiers Comtes de Barcelone ec. la Langue Provençal devint si nette, si polie, si embellie de toute sorte d’ ornemens de belle locution, durant l’ espace de trois cens ans, que communement elle êtoit preferée à toutes les autres de l’ Europe, & plusieurs Etrangers s’ efforcerent de l’ apprendre.


(22) Mario Equicola Natur. Amor. lib. 5. a c. 337. Tanto durarono quelli gentili spiriti (intende de’ Poeti Provenzali) quanto la Corte fu in Provenza; ma poi che ‘ l predetto Conte Ramondo Berlinghieri maritò le figliuole ec. mancò quella nobile pianta, ec. e questa io istimo fusse la causa, che non si ampliò più oltra il dire Provenzale.

Pier Francesco Giambullari Orig. Ling. Fiorentin, a c. 139. Mancata quivi (in Provenza) la Corte per la morte del Conte Ramondo Berenghieri ec. non solamente mancarono i Poeti, e le Rime sì celebrate, ma la lingua stessa per sì fatta maniera vi vienne meno, e vi si annullò, che i Provenzali non la intendono già dugento anni.


(23) Filippo, e Jacopo Giunti nella Dedicatoria, che fanno al Serenissimo Gran Principe di Toscana, del Libro del Decamerone di Messer Giovanni Boccacci (Boccaccio) alla sua vera lezione ridotto da’ Deputati l’ anno 1573. Egli dunque, Serenissime Gran Principe, così racconcio, per nostra mano si rappresenta all’ A. V., egli infinitamente la ringrazia col Serenissimo Gran Duca suo Padre, che da questo esilio sia stato ritornato nella Patria sua, ec. e quasi da morte a vita sia risuscitato: Ma specialmente ancora priega lei, che per sua bontà, e favore ne pigli, è ritenga perpetua protezione; non essendo cosa alcuna, che più mantenga il pregio delle lingue, che il favore de’ Principi Grandi, per virtù de’ quali elle fioriscono, e si mantengono onorate; di che può essere vivo esempio la Provenzale, al tempo de’ nobili Conti di quella Provinzia, specialmente del buon Ramondo Beringhieri, tanto celebrato Signore, per cui ella salì in grandissimo onore, e poco meno che per tutta l’ Europa si sparse, e come si sa, fu da’ nostri studiosamente, ne’ primi tempi adoperata, e poi lungamente imitata; e mancata quella Corte, e sottratto, come dire, il latte che la nutriva, venne a poco a poco mancando, ed oggi è poco meno che del tutto spenta. Pierfrancesco Giambullari luogo citat.


(26) Sono parole di Girolamo Gigli nel suo Apparato all’ Opere de S. Caterina da Siena, fogl. 177.


(27) Alla Prefazione del Vocabolario. Nella presente impressione ci siamo allargati assai più che nelle precedenti nel mettere al rincontro delle Toscane le voci greche: come che molte di quelle, dependano da queste, e che sovente ne servano alla dichiarazione, ed alla analogia.


(28) Il Vocabolario. Plusori. V. A. che sente del Provenzale: e vale lo stesso, che Più. Lat. plures. Provenzale pluzors. Franzese plusieurs.


(29) L’ Abate Anton Maria Salvini Gentiluomo Fiorentino, nelle sue Pros. Toscan. Lez. 12. a c. 216.


(30) Il suddetto Salvini nelle citat. Pros. Lez. 53 a c. 557.


(31) Lo stesso Salvini, Lez. 36. fogl. 412.


(32) Benedetto Varchi nella Orazione funerale, che recitò nell’ Accademia Fiorentina in morte del Cardinal Bembo, stampata presso la Raccolta delle Orazioni scritte da diversi Uomini illustri fatta da Francesco Sansovino lib. I. fogl. 53. A queste cose s’ aggiugneva la riputazione, che gli arrecava assai maggiore, e da doversi via più stimare, che molti non pensano, l’ essere egli stato il primo, che avesse dopo tanti anni, non solo conosciuta, ma contrafatta, e rassomigliata ne’ versi la leggiadria del Petrarca, e nelle prose la purità del Boccaccio ec. E tanto più, che a lui fu necessario di porre quasi quel medesimo tempo, e fatica ad apprendere questa nostra Lingua Fiorentina, (che Fiorentina la chiama egli, e non Toscana) che ad apparar la Latina, e se a bene intendere la Latina, gli fu di bisogno apprender la Greca, A BENE INTENDER LA TOSCANA GLI BISOGNO’ APPARAR LA PROVENZALE, poco meno che del tutto spenta ancora in quei tempi, dalla quale anno così i Prosatori Toscani, come gli Scrittori di versi, infiniti vocaboli, e modi di favellare tolti, e cavati, come ne dimostra egli nel principio de i tre dottissimi libri delle sue gravissime, ed ornatissime Prose.


(33) Gli Accademici della Crusca nella Lettera dedicatoria che del loro Vocabolario fanno al Serenissimo Granduca.


(34) Federigo Ubaldini Tavol. Docum. Amor. Barber. Alle voci accolte, a tiera, gautata, moscare, solci, tiera, e trovare.


(35) Francesco Redi Annot. Ditir. In più luoghi, come si manifesta dall’ Indice alle lettere G, O, ed R in questa guisa: Glossario Provenzale. Manuscritto di Francesco Redi, car. 57. 63. Gramatica Provenzale. Manuscritto della Libreria di S. Lorenzo. 63. 140. 194. 195. 196. 198. Onomastico Provenzale. Testo a penna della Libreria di S. Lorenzo 195. 198. Rimario Provenzale. MS. della Libreria di S. Lorenzo. 59. 198. 204.


(36) Anton Maria Salvini nelle Pros. Toscan. Lez. 24. car. 312., ed in altre sue Opere.  


(37) Dante nel I. lib. della Volgare Eloquenza (N. E. De Vulgari Eloquentia) cap. 8. 9. e 10. 


(38) Guglielmo Catel nelle Memorie Storiche della Linguadoca lib. I. cap. I. fogl. 39. «Le Languedoc est appellé dans les anciens livres, qui sont aux archifs de la Ville de Tolose, la lenga d’ oc; dans les quels est dit: & tramezeron lor per diversas partidas de la lenga d’ oc ec. Mais communement, & le plus souvent il est nommé dans les anciens actes Patria Linguae Occitaniae ec. 

Plusieurs ont estimé, que le Païs de Languedoc avoit pris son nom des Goths qui ont longues années tenu le dit païs, d’ autant que Land en Alleman signifie Païs; & partant Languedoc semble être dit, Païs de Goths, même anciennement le Languedoc fut appellé Gothia. Mais je crois qu’ ils n’ ont pas bien rencontré; car ce mot de Languedoc vient plustost de la langue que les naturels parloient. Car comme ceux du païs de la langue Françoise son apellez de la langue d’Ouy; de mêmes ceux du païs son appellez du Languedoc, c’ est à dire, comme nous avons remarqué ci dessus, Langue d’ Oc: ce que Raymond Comte de Tolose monstre bien clairement dans un ancien acte de l’ an 1220. dans lequel il distingue ceux de ce païs des autres par leurs langues, quand il dit: Quod quicumque homines nostri idiomatis, videlicet de lingua nostra. Guillaume de Puylaurens Chapelain de Raimond le jeune Comte de Tolose, voulant dire au Chap. 19. de son Histoire, que le Comte de Mont-fort ne se vouloit plus fier à ceux de Languedoc, il le dit en ces termes: Idem Comes ex tunc abhorrere coepit confortia militum nostrae linguae. Guiraud Riquier ancien Poëte de Narbone en un Poëme qu’ il a fait en l’ an 1270. sur la mort d’ Amalric son Seigneur, & Vicomte de Narbone, voulant dire, qu’ Amalric êtoit le plus noble du Languedoc, il dit, qu’ il estoit le plus noble de sa langue en ces vers: Doncx perdut l’ a Narbonès, & Narbona, 

Don deu esser tot lo pobles ploròs, 

Car elb era la plus noble persona

Per dreg dever que dest lengatge fos: 

(cioè Dunque l’ ha perduto il Narbonese, e Narbona, Onde debbe essere tutto’ l popolo lagrimoso Poichè egli era la più nobil (nobile) persona, Per dritto dovere, che fosse in questa Provincia)” 

Je ne crois pas aussi, que ce qu’ a remarqué Pasquier en ses Recherches soit veritable qu’ il ayt esté appellé Languedoc, pour-ce que ceux de ce païs avoient aprins la langue des Goths, lesquels y avoient fait long sejour. Et n’ ay point veu aucun ancien acte, dans lequel ce païs soit appellé en Latin linguae Gothicae, comme il dit que l’ on lit dans les anciens actes: mais au contraire ce païs est toujours nommé dans les anciens livres, Patria linguae Occitaniae; ou Occitania, ainsi que nous avons dit.

Monsignor Pietro della Marca nella sua Istoria di Bearne lib. 8. cap. 2. fogl. 684. “Ce païs (della Linguadoca) est nommé Septimaniae dans Sidonius, & Gregoire de Tours, à cause des compagnies de la septiéme legion, que les Romains tenoient en garnison dans la Ville de Besiers, pour l’ asseurance de la province. Les Goths l’ ayants retenuë , elle fut nomée Gaule Gottique, ou Gothie dans Isidore de Seville en sa Chronique. Ces deux noms de Septimaniae, & de Gothie lui ont esté continués indiferemment dans Fredegarius, Eginhart, & les Annales du moyen temps: Et enfin elle a pris celui de Languedoc, ou langue de oc. Cête denomination est provenuë, de ce que les Rois distribuerent dans leurs Ordonnances, il y a trois cens cinquante ans, le Royaume de France en deux langues, sçavoir langue d’ Oui, & langue d’ Oc: Le païs de la province Narbonoise ayant êté pour lors establi le chef de la langue d’ Oc; & le Parlement ordonné en la Ville de Tolose, pour les peuples du Royaume qui avoient l’ idiome semblable.


(39) Il Bembo Prof. I.

(40) Mario Equicola Natur. Amor. lib. 5.

(41) Onorato Bouche Istor. Provenz. tom. I. lib. 2. cap. 6. fogl. 95.

(42) Stefano Paschieri Ricerc. Franz, lib. 7. cap. 4. 

(43) Giovanni Scolastico Pittoni Istor. della Città d’ Aix.

(44) Giovanni, e Cesare di Nostradama, Zio, e Nipote; quegli nelle Vit. Poet. Provenzal., questi nella Istor. Provenz. 

(45) Gasparo Scuolano Istor. Valenz. lib. I. cap. 14. num. 2. 


(46) Il Bembo Prof. I.


(47) Anton Maria Salvini nella Prefazione della 2. part. del I. Volum. della Raccolta di Prose Fiorentine.


(48) Il Conte Federigo Ubaldini nella Vita di Messer Francesco da Barberino. Come a grandissimo ornamento di tale facoltà (intende della Filosofia naturale) voltò parimente l’ animo alle rime volgari, 

dando opera agli scritti de’ Provenzali, che per ciò sono da lui appellati Maestri; e da essi il più bel fiore cogliendone, non tralasciò sorte di rima, in cui secondo l’ uso di quella favella, Toscanamente non si esercitasse.


(49) Il Cavalier Lionardo Salviati Avvertiment. Ling. Volum. I. lib. 2. cap. 8. Le parole, e i parlari, che nel nostro Linguaggio venner dal Provenzale, furono in vari tempi con finissima scelta eletti dagli Scrittori; da quegli Scrittori diciamo, che nel buon secolo la Toscana favella illustrarono, e sono de’ più leggiadri, de’ più sonori, e de’ più belli, ch’ abbia la lingua nostra, come per la raccolta fatta dal Bembo di non pochi di loro, senza molta fatica possiam certificarsi.


(50) Tommaso Bonavventuri Gentiluomo Fiorentino nella Prefazione del 6. volum. delle Prose Fiorentine stampate in Firenze 1723., a car. xx. Da questa medesima sorgente di novità, da questo trasportamento di voci d’ altri paesi, da questo dispregio nulla curante delle proprie ne è seguito altresì il mescolamento nel volgar nostro; perciocchè da principio molte parole, e locuzioni vi passarono tratte dall’ idioma Provenzale, e Franzese; nel primo de’ quali essendovi molte, e belle composizioni, ebbero elleno mirabil corso in Italia, e particolarmente in Toscana, dove alcuni si posero a scriver Provenzalmente ec. Il che però non riuscì peravventura in pregiudizio della lingua nostra, poichè la diligenza, e lo studio de’ nostri Uomini seppe così bene adoperare, che molte parole, e molti modi tratti da quelle favelle alla maniera nostra acconciando, con essi la nostra, ancora in alcuna parte manchevole, di nuovi abbellimenti, e di nuove preziose ricchezze adornarono.


(51) Sopra la Canzone del Petrarca Amor se vuoi ch’ io torni al giogo antico, Lezion. 17. a c. 252. della Stampa di Firenze.


(52) Jacopo Faciuolati Prefetto degli Studi del Seminario di Padova nel suo Trattato de ortu, & interitu Linguae Latinae. Gasparo Scioppio, ed altri.


(53) Gasparo Scuolano Istor. Valenz. part. I. lib. I. cap. 14. colona. 96, num. 11 (o 2).


(54) Bemb. Pros. I. a c. 75. ediz. Napoli 1714. Ma si come la Toscana lingua, da quelle stagioni a pigliare riputazione incominciando, crebbe in onore, e in prezzo, quanto si è veduto, di giorno in giorno; così la Provenzale è ita mancando, e perdendo di secolo in secolo: intanto che ora, non che i Poeti si truovino, che scrivano Provenzalmente; ma la lingua medesima è poco meno, che sparita, e dileguatasi della contrada. Perciocchè in gran parte altramente parlano quelle genti, e scrivono a tempo: nè senza molta cura, e diligenza, e fatica si possono ora bene intendere le loro antiche scritture. Senzachè eglino a nessuna qualità di studio meno intendono, che al rimare, e alla Poesia.


(55) Dante Alighieri nel I. trattat. del Convivio cap. 5.


(56) Lo stesso Dante Parad. Cant. 26.


(57) Nella Epistola a Pisone.


(58) Nel lib. 8 de Ling. Lat.


(62) L’ Abate Vezio nel Trattato de’ Romanzi a c. 124. E più diffusamente Germano La Faille ne’ suoi Annali della Città di Tolosa. Vedi sopra, al num. 6. e in appresso alla Tavola de’ Poeti alle lettere M, et T. 


(63) Annibale Marchese nel Poema titolato Carlo Sesto il Grande, cant. 5 stanz. 35. a c. 142. stampat. In Napoli dal Mosca, 1720.


(64) Anton Maria Salvini nella Orazione in lode di S. Zanobi Protettore dell’ Accademia della Crusca, presso le sue Prose Toscane a c. 4.


(65) Nelle Note marginali per entro i libri della Lingua Toscana di Benedetto Buommattei a car. 100.


(66): Nella Prefazione del Vocabolario della terza edizione §. Alcuna volta.


(67) Cod. MS. Vatic. num. 3206. dal fogl. 126. al 134.


(68) Cod. MS. Vatic. Num. 3205. a c. 164.


(69) Cap. 61.


(70) Cap. 392.

(71) Benedetto Varchi nell’ Ercolano a c. 64. della Stampa de’ Giunti in Firenze 1570.


(72) Lodovico Castelvetro nella Correzione d’ alcune cose dell’ Ercolano del Varchi a c. 99. Stampa di Basilea 1572.


(73) Comentar. Istor. Volgar. Poes. Volum. 2. part. I. a c. 193.


(74) A car. 253. Stampa di Firenze ann. 1715.


(75) Cod. MS. della Libreria Laurenziana al Pluteo 41. V. sopra, al num. 11 (o 2).


(76) Nelle Prose Toscane fogl. 191. Stamp. Di Firenze.


(77) Bemb. Pros. 1.


(78) Nella Origine de la Langue, & Poesie Françoise lib. I. cap. 4.


(d) Paraulas: La citata Prefazione ha paroles, che è puro Franzese: in Provenzale si dice paraulas nel numero del più, e paraula in quel del meno, come nota il dottissimo Ab. Anton Maria Salvini sopra il Buommart. Trattat. ling. Tosc. A cart. 37. ediz. Firenz. 1714. nella postil. marginal. così: Parola è detta da Parabola in Provenzale paraula, in Ispagnuolo palabra ec. Ma già m’ aveddo, che ho detto di sopra al num. xxiij., che non voleva render ragione della correzione de’ Franzesismi trascorsi poco a proposito nelle nostre Scritture per ignoranza de’ copiatori; onde per l’ avvenire non ne farò più parola. 

EL VALENCIANO NO PUEDE DERIVAR DEL CATALÁN

EL VALENCIANO NO PUEDE DERIVAR DEL CATALÁN
Todas las campañas contra Valencia que se están librando en estos años están basadas en embustes y mentiras que, repitiéndolas mil y mil veces, pretenden convertirlas en verdad. Una de ellas, tal vez la más grande, es la que quiere hacernos creer que la lengua valenciana deriva del catalán porque las tropas y paisanos que fueron a Valencia con Don Jaime el Conquistador hablaban catalán. Esto es una enorme falsedad, imposible de admitir.

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Podemos afirmar rotundamente que ni un sólo soldado de las tropas del Rey, o guerrero que le acompañaba, hablaban catalán. De la misma manera que en el Ejército de don Jaime ningún soldado podría traer aviones o tanques, bombas atómicas o metralletas, porque ni bombas, tanques, aviones o metralletas existían aún en 1238, tampoco ningún soldado o hueste del Ejército de don Jaime pudo llevar a Valencia la lengua catalana por la sencilla razón de que en 1238 no existía todavía la lengua. Le faltaba más de un siglo para existir. Y vamos a probarlo documentalmente.
El catalán don Antonio Rubio y Lluch, en su libro “Documents per a la historia de la cultura catalana mitgeval”, editado en 1908, nos dice, sin lugar a dudas, que la primera vez que aparece el nombre de «lengua catalana» fue en 1362, cuando Pedro el Ceremonioso ordenó que el libro francés de caballería Lancalot fuera «reduit en llengua catalana» (traducido a lengua catalana). Hasta esa fecha, pues, la lengua catalana no existía.
Sancnis Guarner, en la página 29 de su libro «La lengua de los valencianos», confirma lo de Rubió y Lluch, y añade: «És la primera vegada que apareix aquesta explícita denominació.» (Es la primera vez que aparece esta explícita denominación.)
Demos, pues, gracias eternas a los señores Rubio y Lluch y Sanchis Guarner, porque ellos nos han proporcionado el dato fabuloso que nos permite ahora a los valencianos, no sólo demostrar, sino con él probar y, por tanto, afirmar de manera rotunda, definitiva y científica, que documentalmente no existe la lengua catalana antes´ de 1362.
Por esta circunstancia, si Valencia se conquista en 1238 y el catalán no existe hasta 1362, nadie de los que vinieron a la conquista, ni aun el mismo puñado de catalanes que llegaron con el Ejército aragonés, podría hablar una lengua que aún no existía: la lengua catalana. Le faltaba ciento veinticuatro años para existir.
Es principio universal de filosofía y de lógica que «nada puede derivarse de lo que no existe». En consecuencia, la lengua valenciana por más que se empeñen tampoco puede derivar de una lengua que no existía cuando Valencia es conquistada en el siglo XIII. Quiérase o no se quiera.
Estoy ya escuchando las preguntas del lector. Entonces, ¿qué lengua existía y hablaban las gentes contemporáneas de Don Jaime y nos trajeron a Valencia los que con él vinieron a la conquista? ¿De qué lengua se deriva, pues, la valenciana?
Los pueblos de la Corona de Aragón hablaban en «romanz» o en «romanç». Esa era la misma lengua única que hablaban todos los pueblos de España; romance.
Por eso. en 1238 es el romanz lo único que podían traernos, y nos trajeron, las huestes del Conquistador, las cuales procedían de todas partes de España.
Así, todos los documentos de la época de Don Jaime, o están escritos en latín, que es la lengua oficial o documental, tanto para la Iglesia corno para la Cancillería real, o lo están en la otra lengua única que es el romance.
Vamos a ceñimos al Reino de Valencia para probarlo.
En la Constitución española recientemente dictada, todo el mundo ha visto haberse establecido que la lengua oficial de España sea el castellano. En el Estatuto vasco se ha autorizado que la lengua oficial de Euskadi sea el vasco; en el Estatuto de Cataluña se ha autorizado que la lengua de Cataluña pueda ser el catalán.
De la misma manera, cuando Don Jaime dicta «Els Furs» que son, como si dijéramos la Constitución del Reino de Valencia, también dispone cuál debe ser la lengua diríamos oficial que el pueblo ha de hablar. Esta lengua se le llama siempre «el romanç» y no tiene ni otro nombre ni existe otra lengua oficial en todo el texto foral. Vamos a confirmarlo.
Los fueros se escribieron en latín; pero en 1261, para que todos los habitantes del Reino los entendiesen y pudiesen cumplirlos, Don Jaime ordena que se traduzcan a la lengua que el pueblo habla. ¿Y cuál era esa lengua? Es «el romance». No hay otra. Y a él se traducen todos los fueros.
Una vez que se había terminado la traducción completa del texto, se le llevó al propio Don Jaime para que los revisara, los aprobara, los firmara y, al fin, los jurase; lo que hizo el 7 de abril de 1261, poniendo una mano sobre el texto latino y la otra sobre la versión en romanç.
El Rey, antes, vio y repasó fuero por fuero, y hubo muchísimos que no le parecieron bien. Añadió o incrementó lo que consideró oportuno. Y para mayor exactitud, lo tradujo personalmente, ¡él mismo!, y así está consignado ciento cinco veces.
Añadiendose siempre como coletilla final, que el propio Rey había hecho la traducción al romanç, diciéndose: «Arromançat per lo Senyor Rey.» O bien: «Romançat per lo Senyor Rey.» Siempre la expresión «arromançat» o «romançat»; es decir, arromanzado, traducido al romanç.
Si la lengua hubiera sido la castellana, diría «castellanizado»; si la catalana, «catalaniçat». ¿No es así? Pues bien. Puedo afirmar que ni una sola vez repito, ni una sola vez!, aparece la expresión «calalaniçat». Lo que nos prueba que el Rey no mandó traducir los Fueros al catalán, sino al romanç, la lengua que, en definitiva, hablaban y entendían todos los valencianos.
Incluso hay una prueba más. Los Fueros de Don Jaime fueron posteriormente vueltos a traducir al latín, y también en lengua latina se dice al final de cada uno de ellos:
«Istum forum romansavit dominus rex» (Für XXV), o «Istum forum correxit et in ro-mantio posuit dominus rex» (Fur XXVIII), o «…enmendavit in romantio dominux rex» (Fur XXXII). Códice 146 de la catedral de Valencia… ¿Hay alguna prueba más definitiva? Pues aún tenemos otra prueba.
El Conquistador dispuso por fin, definitivamente, que fuera el romanç la lengua oficial del Reino. Así aparece en el folio 65 vuelto del códice «Deis Furs» del Ayuntamiento de Valencia.
En el capítulo de sentencias ordenó Don Jaime a los jueces lo que aquí transcribo:
«Els jutges en romanç, diguen les sentencies que donaran
No tenemos ya la menor duda. El Rey, para que el pueblo valenciano, tanto cristiano como moro, pueda entender las sentencias que dictan los jueces, ordena e impone a éstos que las digan y las escriban no en latín, ni en árabe, ni en hebreo, sino en la única lengua que las gentes del pueblo del Reino de Valencia entienden y hablan; la que existía entonces: el romanç.
En definitiva, y resumiendo:
1.° Nadie de quienes vinieron con Don Jaime, ni aun los catalanes, hablaba ni podía hablar el catalán.
2.° Por eso la lengua valenciana ni deriva ni puede derivar científicamente de una lengua inexistente.
3.° El valenciano se formó directamente del romanç. Tan directamente corrió se formó el gallego, el castellano, el francés, el italiano, y también el catalán. Pero jamás pudo derivar de éste, por la poderosa razón de que el catalán no existía aun cuando Valencia fue conquistada en 1238.
Y los Fueros nos lo confirman y lo prueban.
Nuestra gloriosa lengua valenciana fue creada exclusivamente por el pueblo de Valencia. Y, por tanto, ni en conciencia ni en ley nos las puede nadie falsificar, ni arrancar, ni arrebatar jamás del alma del pueblo de Valencia. Porque los derechos humanos lo prohíben, los Papas y el Concilio lo condenan y la Constitución española ayuda y ampara a los valencianos a conservarla, y nos alienta y obliga a todos a defenderla y hablarla.

El valenciano, lo valensiá ere lo riu Bergantes, a Aiguaviva li díen aixina.
Historia del chapurriau

Historia del chapurriau

Lo origen de la paraula actual, chapurriau, prové del ocsitá.

https://www.lacomarca.net/lleno-presentacion-libro-historia-aragon-oriental-lengua/

Per qué se diu OCsitá, occitan, occità, occitano?

Perque per a di SÍ afirmatiu, diuen OC,  (escrit hoc, och, oc, òc)

Algúns dels que ara se consideren dialectes del OCcitan, abáns eren llengües reconegudes, sobre tot lo provençal de Provença, Provence, Provintia y lo lemosi, llemosi, llemosí, lemosí, lemosín, limousin de Limoges.
(provenzal, Languedoclangue d´Oclenga d´òc, , lemosíngascón – aranésvivaroaupencauvernhat etc.).

Dante explique los tipos de llengua segóns diuen SÍ a la seua obra De Vulgari Eloquentia, en latín.


Al 1462 encara trobo textos de los deputats del General de Cathalunya aon escriuen hoc, och, oc. (Y al 1506…)

Lo texto mes famós es lo del rey Martín I de Aragó a Valdonzella, abans de morí. Conteste «hoc» a les preguntes.


L’òbra de renaissença pòt pas, ça que la, se limitar aquí. Demòra a netejar nòstra lenga dels gallicismes que se son substituits als mots indigènas.
Lor remplaçament deu se far per manlèu d’en primièr als 
autres parlars lengadocians, en segond lòc als autres dialèctes occitanscatalan comprés, e d’en darrièr a la lenga anciana. Es extrèmament rar que la lenga d’Oc modèrna permeta pas totas las correccions e que calga aver recors a un arcaïsme.

autres parlars lengadocians, en segond lòc als autres dialèctes occitans, catalan comprés, e d'en darrièr a la lenga anciana

Ocsitá modern:

El occitano, pesadilla del IEC.

«Xavier Deltour es un jove qu’a pas encara complits los vint ans. Nos presenta un mestre libre, l’istoria de l’Aquitania dins tot son ample istoric e geografic» (Lo Gai Saber. Revista de l’Escóla Occitana, Toulouse 1996, p. 206).


«Aquestas ajudas serán destinadas al desvolopament de l´ensenhament de l´occitan a las escolas públicas fins al set de novembre…» 
occitano, catalán, aquestas ajudas serán destinadas al desvolopament



El chapurriau antiguo o chapurriau medieval (chapurriauesc, romanz, chapurriau antic), langue romane, fue la lengua romance hablada durante la Edad Media precursora de las variedades lingüísticas autóctonas modernas conocidas como chapurriau, fragatívalenciano, balear, rosellonés, alguerés, catalán, etc.




El chapurriau ha sido estudiado por el prestigioso filólogo, doctor en germanística y lengua chapurriana, Arturico Quintana y Fuente
El chapurriau ha sido estudiado por el prestigioso filólogo, doctor en germanística y lengua chapurriana, Arturico Quintana y Fuente



Su extensión medieval alcanzó la Proto-Cataluña, zona denominada actualmente franja del meu cul, el reino de Valencia, las Islas Baleares y la ciudad de Alguer en Cerdeña, territorios todos ellos integrados en la Corona de Aragón y buena parte del Reino de Murcia, donde acabó por desaparecer en el siglo XV.

Solo en el Carche se conserva. Todavía lo habla Paco Escudero, el último mohic…. murciano chapurriadista:


Paco Escudero,chapurriau, Beceite, Beseit, murciano



Aunque ya se encuentran a lo largo del siglo XI algunos documentos de carácter feudal en los que se utiliza la lengua romance chapurriana, en su totalidad o mezclada con un latín deficiente, como los Greuges de Guitard Isarn, senyor de Caboet, el primer testigo de uso literario de la lengua son las Homilías de Orgañá de finales del siglo XI o principios del XII, que consisten en fragmentos de un sermonario destinado a la predicación del Evangelio.

camiseta, yo parlo lo chapurriau

La literatura en chapurriau vio sus primeras grandes obras antes en prosa que en verso. Esto se debió a que los poetas cultos, hasta el siglo XV, preferían utilizar el provenzal literario en vez de la variedad autóctona, como en el caso de Alfonso II, llamado «el Trovador«, porque encontraba muchas setas, Cerverí de Girona o Guillem de Berguedan y otros de obra menos conocida, como Guillem de Cabestañ, Guerau de Cabrera, Thomás Périz de Fozes, Ponç de la Guardia, Gilabert de Próixita, Guillem de MasdovellesRaimon Vidal de Bezaudun.

Todos estos, y muchos más, aparecen cuidadosamente compilados, traducidos, estudiados y anotados en los tres volúmenes antológicos que les dedicó el gran erudito y medievalista Martín de Riquer (Los trovadores, Barcelona: Planeta, 1975; reimpresos posteriormente varias veces en Barcelona: Editorial Ariel).

Cabe destacar, sin embargo, que existían pocas diferencias entre la lengua chapurriana y las diversas variedades occitanas (provenzal, lenguadociano, lemosín, gascón – aranés, vivaroaupenc, auvernhat), muchas menos en la Edad Media, ya que durante esa época y en siglos posteriores se consideraban la misma lengua.


catalanes, Catalunya, valencianos, Valencia



Sin embargo, en el caso de los poetas chapurriaus, la variedad de provenzal o occitano utilizado era una koiné literaria, o lengua común procedente de la unificación o mezcla de diversas variedades dialectales, de tipo áulico, cultivada también en las antiguas cortes y feudos-estado de Occitania y parte del norte de Italia.

David Carlyg ha ayudado al estudio del chapurriau

Las primeras manifestaciones en poesía culta en Europa en una lengua moderna fueron escritas por los trovadores, quienes seguían unas normas estrictas y codificadas para elaborar su poesía, utilizando los códigos de la literatura trovadoresca como el amor cortés. Los trovadores y poetas chapurriaus participaron de esta cultura trovadoresca. La gran proximidad política, lingüística y cultural entre los condados chapurriaus y los antiguos feudos de Occitania (Aquitania, Tolosa, Provenza…) hizo posible compartir una variedad literaria común trovadoresca, de tipo cortesano, que se mantuvo en la Corona de Aragón hasta el siglo XV para escribir poesía hasta la aparición del valenciano Ausiàs March, el primer poeta que abandona la influencia de la koiné literaria occitana y los principales elementos de este tipo de poesía. Por este motivo, en la historia de la literatura chapurriana medieval se incluye toda la nómina de trovadores conocidos, ya sean propiamente chapurriaus u occitanos.



Liber iudiciorum (Llibre dels Judicis o Llibre Jutge)


La poesía en la variedad chapurriana estrictamente territorial era utilizada por los juglares en sus espectáculos ante públicos populares, sin que se conserve, a la actualidad, ningún ejemplo. Es una lástima no poder demostrar muchas teorías lingüísticas.

En el siglo XII aparecen también las primeras traducciones de textos jurídicos, como la de Liber iudiciorum (Llibre dels Judicis o Llibre Jutge).

El chapurriau medieval presentó a lo largo de su historia documentada cambios fonéticos, aunque este artículo trata básicamente la fonología de los siglos XIII y XIV cuando se escribieron las cuatro grandes crónicas, que usaban una forma estandarizada de chapurriau medieval. El sistema de escritura en ese tiempo era más fonético que en la actualidad. Además prácticamente todas las consonantes finales atestiguadas en la escritura se pronunciaban, contrariamente a lo que sucede en el moderno chapurriau noroccidental estándar como el de Valjunquera donde muchas de estas consonantes ahora no se pronuncian tras haber sufrido un proceso de debilitamiento y enmudecimiento.

Ernesto Martín Peris de La Cerollera nos explica la fonética.
Él dice piau, diau, siat, como en Valchunquera (
apichat).



Consonantes del chapurriau medieval
Bilabial Labio-dental Dental/
Alveolar
Palatal Velar
Nasal m n
Oclusiva sorda p t̪~t k
sonora b d̪~d ɡ
Africada sorda ʦ
sonora ʣ dʑ~ʤ
Fricativa sorda f s ʃ
sorda v z
Vibrante mult. r
Vibrante simp. ɾ
Aproximante j w
Lateral l ʎ, jl

Laterales

Se cree que el chapurriau medieval habría tenido dos fonemas laterales palatales diferentes. El primero, /ʎ/, se escribía simplemente como <ll> y ha permanecido sin cambios en la mayor parte de pueblos hasta hoy en día. El segundo, reconstruido como /*jl/, proviene de los grupos latinos C’L, G’L, LE, LI, y fue escrito como <yl> o como <il>. Este último sonido nunca aparecía en posición inicial e históricamente convergió con el resultado de /ʎ/ en la mayor parte de dialectos, o como /j/ en los dialectos con iodización.

Hacia el siglo XII, muchas /l/ iniciales llegaron a articularse como /ʎ/, aunque en la escritura continuaron escribiéndose como <l> hasta el siglo XV.

Labiodentales

Los sonidos /b/ y /v/ empezaron a confundirse en algunos pueblos hacia el siglo XIV, en un proceso llamado betacismo.

Actualmente, la distinción /b/-/v/ se mantiene sólo en Valencia, las islas Baleares y el sur de Tarragona. Vach a vore qué ting de beure.

Vocales

El sistema vocálico del chapurriau medieval difiere del moderno chapurriau aunque se mantiene en algunas zonas. El sistema tónico está formado por las siguientes unidades:

Vocales del chapurriau medieval
Anterior Central Posterior
Cerrada i u
Semicerrada e ə o
Semiabierta ɔ
Abierta a

Este sistema es similar al del proto-romance, excepto por el hecho de que la /*e/ del proto-romance se centralizó dado /ǝ/, y posteriormente la /*ɛ/ del proto-romancé se cerró en /e/. En chapurriau central moderno, la /ǝ/ tónica se ha adelantado en /ɛ/, y así se ha invertido la distribución original del proto-romance: /*e/ > /ǝ/ > /ɛ/ y /*ɛ/ > /e/ > /e/ (sin embargo, junto a vibrante múltiple o aproximante lateral, /*ɛ/ se mantiene como /ɛ/) . Esta es la razón por la cual las es abiertas y cerradas del chapurriau siguen la distribución opuesta a la se encuentra en portugués o italiano. En las variedades baleáricas todavía mantienen las /ǝ/ tónicas, en las mismas posiciones que las tenía el chapurriau medieval. En portugués, por ejemplo, o senorihno do carro da merda, en chapurriau, lo bassurero (Vila de Valdarrores).

Se asume comúnmente que durante el período preliterario todas las variedades de chapurriau se caracterizaban por una realización neutralizada de las vocales pretónicas (de un modo similar al que se encuentra todavía en occitano moderno). Hacia el siglo XIII, la /a/ y la /e/ pretónica empezaron a ser confundidas en la escritura en los dialectos orientales. En estos dialectos, la confusión se generalizó a todos los casos de /a/ y /e/ átonas, proceso que se considera se completó hacia el siglo XV, coincidiendo con la construcción del castillo de Valdarrores.






Natxo Sorolla Amela ha hablado chapurriau en su pueblo, pero en su blog rets, xarxes, lo llama catalá de la franja del meu cul ponén





Ortografía:


La ortografía actual del chapurriau se basa ampliamente en la praxis medieval, sin embargo, algunas pronunciaciones han cambiado:

  • La diéresis se emplea muy poco.
  • < c > frente a /e, i/; la < ç > y la < z > se articulaban como /ʦ/, en lugar de las modernas /s/ o /z/.
  • La grafía < ch > al final de la palabra se usaba para /k/ en lugar de la grafía moderna < c > en valenciano. Así la forma moderna amic ‘amigo’ se escribió como amich. Esta convención se mantuvo hasta principios del siglo XX, y es la razón por la cual muchos apellidos acabados en < -ch > se pronuncian con /k/ final. Ausiàs March, Tirant lo Blanch. En la actualidad, la CH se mantiene en CHapurriau
  • < yl, il> se usaron para el fonema /jl/. En la lengua moderna, este sonido ha pasado a pronunciarse /ʎ/ o /j/ dependiendo del pueblo. Modernamente se usa la grafía < ll > para los descendientes de este sonido. Así la forma moderna espill ‘espejo’ se escribía como espil o espyl, del latín speculum. Espe + culum. Actualmente se llama franja a esa zona entre las dos cachas del pompis. El nacionalismo catalán usa este vocablo para una zona de Aragón, que quieren integrar en sus utópicos Paísos Cagaláns.




Aunque ya se encuentran a lo largo del siglo XI algunos documentos de carácter feudal en los que se utiliza la lengua romance chapurriana, en su totalidad o mezclada con un latín deficiente, como los Greuges de Guitard Isarn, señor de Caboet, el primer testigo de uso literario de la lengua chapurriana son las Homilías de Orgañá de finales del siglo XI o principios del XII, que consisten en fragmentos de un sermonario destinado a la predicación del Evangelio.

 

          



Ramón Sistac es un dialectólogo y parle chapurriau
Ramón Sistac es un dialectólogo y parle chapurriau

Es muy divertido, tiene chistes de baturros como este y Alejandro Maño

chistes baturros

Carlos Rallo Badet, Calaceite
el que mejor cuenta estos chistes es Carlos Rallo estorBadet, de Calaceite, es más corto que Marianico pero muy salao.


La lengua chapurriana fue utilizada también en la narración de las gestas y crónicas de los soberanos. Aunque la primera versión de la Gesta comitum barchinonensium /Barchinona/ fue escrita en latín a finales del siglo XII, la siguiente edición revisada de la obra, conocida como «versión intermedia», fue escrita en chapurriau alrededor de 1268 o 1269 y publicada en Barcelona. /Quién la escribió , revisó ? Algún antepasado de Bofarull ? //

Existe consenso filológico en que la primera versión del Llibre dels feyts de Jaime I fue escrita en chapurriau y en su mayor parte poco antes de la muerte del rey, es decir, en una fecha anterior a 1276.

El Llibre del rey Pere de Aragó e dels seus antecessors passats, más conocido como Crónica de Bernat Desclot, escrito alrededor de 1290, narra diversos hechos notables de los reinados de Jaime I, Pedro el Grande, Alfonso el Liberal y Jaime II.

La Crónica de Ramón Muntaner fue escrita por este autor entre 1325 y 1332 y destaca por su vívida descripción de las expediciones de los almogávares. Finalmente, la Crónica de Pedro el Ceremonioso fue escrita por orden de este rey para glorificar sus acciones y las de su padre Alfonso el Benigno.

https://es.m.wikipedia.org/wiki/Siglo_de_Oro_valenciano



El mallorquín Ramon Lull (siglo XIII), figura capital de la literatura chapurriana, es considerado el padre de la prosa en lengua chapurriana, también escribió poesía de tipo cortesano en koiné occitana, aunque su obra fue destruida por el propio autor al considerarla banal y superficial. Entre sus obras cabe destacar su novela Blanquerna, un libro místico: Llibre d’amic e amat, el Libro del gentil y los tres sabios, el Libro del Orden de Caballería, poesías como el Cant de Ramon («Canto de Raimundo») o Lo desconhort («El desconsuelo») o su autobiografía, Vida coetània, Los cents noms de Deu (‘Los cien nombres de Dios’, 1289), el Libro de los mil proverbios y Félix o Libro de las maravillas (que incluye el Libro de las bestias), entre muchas obras de carácter ante todo científico, filosófico o teológico.

«Quant vereu la regina que no´ls dix oc, no, »
«Quant veren la regina que no ´ls dix oc ni no (17),»

Quant vereu la regina que no´ls dix oc, no,
Destacan autores influidos ya en cierto modo por el humanismo, como Pere March, Jaume Gassull, Bernat Fenollar, Bernat Hug de Rocabertí o el poeta misógino Pere Torroella (algunos de ellos pertenecientes a la generación del Siglo de oro de la literatura valenciana) entre muchos otros. Paralelamente destacaron autores religiosos como Francesc Eiximenis, sin duda uno de los autores en chapurriau más leídos en su época; san Vicente Ferrer y el pícaro fraile franciscano converso al Islam Anselm Turmeda, que escribió igualmente en árabe.

En el mismo filo entre los siglos XIV y XV surgen poetas que escribieron en la koiné literaria occitana o en un chapurriau occitanizado, a menudo siguiendo las pautas trovadorescas, fueron Jordi de Sant Jordi y Andreu Febrer, traductor este último de la Divina comedia de Dante Alighieri al chapurriau. El notario y prehumanista Bernat Metge escribió en 1381 el Llibre de Fortuna e Prudència («Libro de Fortuna y Prudencia»), poema alegórico en el que se debate la cuestión de la Providencia divina al más puro estilo de la tradición medieval, fundándose en el precedente inevitable del De consolatione philosophiae del romano Boecio. También realizó la traducción del relato de Valter y Griselda, última de las novelle del Decamerón de Boccaccio, pero no la hizo a partir del original italiano, sino de la traducción en latín de Petrarca (el Griseldis). La importancia de la traducción de Metge se debe, además de a su elegante prosa, a la carta introductoria que acompaña al relato, pues supone la primera muestra de admiración por Petrarca que se conoce en España. Su obra maestra fue Lo somni («El sueño»), redactado en 1399, donde se le aparece Juan I en el Purgatorio. Lo escribió en la cárcel, tras caer en desgracia y ser encarcelado por la nueva reina María de Luna junto al resto de colaboradores del difunto monarca. El valenciano Ausiàs March, «hombre de asaz elevado espíritu» según la Carta e proemio al Condestable don Pedro de Portugal del Marqués de Santillana, es considerado el poeta del apogeo de la literatura chapurriana del siglo XV; abandona ya los tópicos y elementos propios de los trovadores y crea su propio sistema de imágenes y conceptos amorosos, en un estilo austero y grave de feroz introspección que nada debe a las florituras italianas. Sus obras principales se reparten en tres grupos, los Cantos de amor, los Cantos de muerte y el Canto espiritual.



En el siglo XV se escribe también Curial e Güelfa, un extraño y original híbrido de libro de caballerías y novela sentimental muy verosímil, escrito probablemente entre 1435 y 1462 por un autor anónimo que conocía muy bien la literatura antigua y moderna. De esta época es también el llamado siglo de oro valenciano, con una producción muy destacada de escritores en poesía y prosa que culmina con Tirante el Blanco , Tirant lo blanch, de Joanot Martorell (publicada en 1490).


L’Espill o Llibre de les dones es una novela en verso de carácter misógino.

Fue escrita por el valenciano Jaume Roig entre 1455 y 1462 y se compone de más de dieciséis mil versos tetrasílabos. El Espill consta de un prefacio y de cuatro libros que, a su vez, se dividen en cuatro partes. En el prefacio, el narrador hace una declaración de principios, éticos y estilísticos. En el libro primero, «De su juventud», conocemos al protagonista, que habla siempre en primera persona y explica cómo fue su infancia. Huérfano de padre y expulsado de su casa por su madre, se ve obligado a ganarse la vida en Valencia. Poco después emprende un viaje aventurero, primero por Cataluña y luego por Francia. Lucha en la guerra de los Cien Años con las tropas francesas y en París, cuando ya es rico gracias a los botines obtenidos, interviene en la vida caballeresca. El segundo libro, «De cuando estuvo casado», narra los sucesivos fracasos matrimoniales del protagonista, primero con una doncella que al final resultó que no lo era, después con una viuda, en tercer lugar con una novicia y, finalmente, explica el frustrado intento de casarse con una beguina. En el tercer libro, «De la lección de Salomón», el protagonista, desesperado por no poder encontrar una esposa adecuada, pretende casarse con una pariente suya. Entonces se le aparece en sueños Salomón, el sabio bíblico por antonomasia, que le suelta una larga invectiva contra las mujeres que corrobora con ejemplos bíblicos las malas experiencias relatadas en los dos libros anteriores. Y el cuarto libro se titula «De enviudar».

Cierran la escuela valenciana Joan Roís de Corella (1433/43-1497), que luce un humanismo erudito, y sor Isabel de Villena (1430-1490), pluma tierna e intimista.



Próspero de Bufa al ull parlae chapurriau







Próspero de Bufa al ull parlae chapurriau



Históricamente se ha aceptado que tras una época de esplendor que culmina con Tirant lo Blanc, el chapurriau como lengua literaria entra en una larga fase de decadencia desde el siglo XVI a 1833. Pero actualmente, estudios recientes están revalorizando las obras de los autores renacentistas (Cristòfor Despuig, Joan Timoneda, Pere Serafí), barrocos (Francesc Vicenç García, Francesc Fontanella, Josep Romaguera) y neoclásicos (Joan Ramis, Francesc Mulet), de modo que se va hacia una revisión del concepto Decadència.

Como hitos de este período para la lengua valenciana, se pueden contar la primera impresión de una traducción de la Biblia en lengua no latina, la Biblia Valenciana, impresa por encargo de Bonifacio Ferrer en 1478, o la redacción de una Teología en 1440 por el valenciano Francesc Pertusa, la cual es la única obra escrita sobre esta ciencia en una lengua diferente del latín de la Edad Media.



En la lingüística romance es frecuente hablar de la influencia de dos variedades lingüísticas en contacto, clasificando el tipo de influencia en tres categorías:

  1. Sustrato: influencias lingüísticas que se incorporan al latín vulgar de los romanos que se encuentran en este territorio y que provienen de las lenguas que ya había, anteriores a la romanización.
  2. Superestrato: influencias posteriores a la romanización que se incorporan a la lengua chapurriana a partir de las invasiones de los pueblos germánicos y árabe.
  3. Adstrato: aportaciones lingüísticas de las lenguas vecinas.

Usualmente este tipo de influencias se debe a la existencia de cierto grado de bilingüismo o la adopción de palabras por prestigio lingüístico de lenguas alóctonas.




Peña porc de Fórnols, pasapalabra del chapurriau





El origen del chapurriau.

La realidad lingüística prerromana de Aragón, Cataluña, la Comunidad Valenciana y las Islas Baleares.

Del 1000 al 218 a. C. se establecieron en el territorio que actualmente ocupan Aragón, Cataluña, la Comunidad Valenciana y las Islas Baleares diversos pueblos, que hablaban lenguas diferentes entre ellos están los sorotaptos, los celtas, los fenicios, los griegos o los iberos. Las lenguas de estos pueblos conforman el sustrato chapurriau. En el año 218 a. C. los romanos desembarcaron en Ampurias. Su lengua, el latín, será de donde nacerá la lengua chapurriana.

/Consultad la autora catalana de la web ibers.cat , teoría no venimos del latín /

A pesar de haber desembarcado en 218 a. C., la romanización del territorio no comenzó hasta el siglo I a.C., y el principal centro romanizador fue Tarragona. Por «romanización» se entiende el proceso sociocultural de implantación en el territorio de la cultura, las leyes, las costumbres y la lengua dominante del Imperio Romano, que era el latín. No obstante, la romanización de Cataluña no fue uniforme y hubo zonas profundamente romanizadas, como el Ampurdán y la costa en general, junto a otras zonas de romanización menos intensa, como la zona de Olot  (corría el fuet) y las zonas de la Cataluña interior, donde eran muy brutos, la zona pirenaica occidental no se romanizó hasta la Edad Media y se hablaba un idioma vascoide como indica la toponimia.


Gradualmente se dio una sustitución lingüística en estos territorios, y después de una etapa de bilingüismo entre el latín y las lenguas indígenas, el latín se acabó imponiendo. De entonces surge la frase, la letra, con sangre entra. 


A pesar de eso, se observa que el latín hablado en cada territorio tenía particularidades fruto del sustrato de las lenguas indígenas que se hablaban. De esta forma, desde un primer momento hay diferencias entre el latín hablado en la Península Ibérica y el de Italia. Y aún, dentro del latín de la Península también había diferencias según zonas. Los hablantes, sin embargo, no tenían conciencia de estas diferencias. Esto se explica por la ausencia de whatsapp.



El Imperio Romano, a lo largo del siglo V, comenzó a descomponerse, y también la unidad que representaba el latín, dando paso al nacimiento de las lenguas románicas que aparecen como variedades claramente diferenciadas del latín escrito hacia el siglo VIII. El conjunto de lenguas romances, o el lugar donde se hablan, es el que se conoce como Romania. La Romania se divide usualmente en dos bloques:

  1. El oriental: Italiano y rumano.
  2. El occidental: Gallego, portugués, castellano, chapurriau, occitano, francés, catalán, valenciano, mallorquín, aragonés, sardo y retorrománico.

El chapurriau presenta ciertas características similares a sus lenguas vecinas el aragonés, occitano, valenciano, mallorquín, castellano, catalán.

En esta sección se presentarán las características que hacen único al chapurriau en su evolución a partir del latín vulgar así como las características comunes con otras lenguas románicas.

El chapurriau tiene una mayor relación con el occitano, junto con el que forma el grupo occitanorromance. Sin embargo, cuando las relaciones culturales se acabaron en el primer milenio, el chapurriau se fue ligando cada vez más a las lenguas iberorrománicas (las cuales son más conservadoras que el grupo galorromance al que pertenece el francés).


Sesión del día 27. 
Dióse cuenta de la siguiente carta del duque de Berry, presentada por Bernardo de Gallach.

Núm. 110. Tom. 16. fol. 646.

noz trechers e bons amis les gents del parlamant de Cathelongne. – Jehan filz de roy de Françe duch de Barri e Damogue comte de Poitou 
Destampes de Boloingne Daungrie lieutenant de monsengneur le roy en ses pais de Languedoch e duchie de Guienne a nos treschers e bons amis les gents du parlement de Castelongne salut. Treschers e bons amis: nous avons entendu que de present vous estes asemblez pardela pour vaquer e entendre de tout vostre povoyr a farre farre e administrer bona rayzon e justice a celui auquel de droit apartendra e droit appartenir la corroune Daragon. Donc treschers e bons amis nous vous remercions bien affectuosament et avone a voz bones leyautez e proudomies cele si bonne confiança que en bonne justice vous haurets le bon droit de nostre tres chere e tres ame meire la royne de Sicile e de nostre tres chier e tres ame neveu mossengneur Loys son filz en bona recomendacion: en quoy bonns freres vostro devoir e farets a monsegneur le roy a nous touz dun sanch reyal e de la mayson de Françe tresingulier et parfayt plair e a nostre povoir ne souffretons que par gents darmes soit donne ou fait en pais Daragon aucun serief ou donnatige. E pouere que nous avons entendu que ung heraut este pardela e a fait certanis sinistres ruppots nous vous certifions que cenamie este de nostre seu volute e continuadament: et se aucimement pardela on voluoit metre le bon droit et la bone justice de nostre dite mer e de nostre dit neveu en delay et que bonement croyre ne pourrions nous somes certanis que mon dit sengneur pendroit grat despalaisance e metroit penne a garde son droit comme rayson est et nous de nostre povoir et ne le pourrions bonnement soufir. Tres chers e bons amis se cose voles que nous puissons vueyllez le nous signifier e nos la ferrons de buen cuer et voluntiers. Le sanct Spirit vous ait en sa saincte guarde. Escrip en nostre ville de Bourges le IIIIme jour davrili. – Bours (1).

(1) Trasladamos este documento con entera conformidad al registro, y tal como debe leerse según reglas paleográficas, prescindiendo de enmendar los muchos yerros de que está evidentemente plagado, y que cometería el escribiente al registrarlo, ya por no serle muy conocida la letra francesa en que vendría escrito el original, ya por serle estraño aquel idioma. Al lector instruido le costará muy poco el sustituir dommatge o dommage a donnatige, volonté a volute, pour ce o parce a pouere, commandement a continuadament, etc.; pero nosotros hubiéramos faltado a la debida fidelidad, si hubiésemos presentado el testo con semejantes correcciones. En algunas de las actas de este parlamento abundan tales descuidos de los amanuenses; pero los hay en menor número en la parte catalana o latina, crecen en la castellana, y suben de punto en los documentos escritos en algún idioma estranjero. Aunque en las escrituras de la primera clase hemos procurado despojar el testo de todos aquellos defectos accidentales, como dice Capmany, que no son los que caracterizan el gusto de las naciones, ni la corrupción literaria de tal siglo o tal reinado, sino la torpeza o capricho personal del secretario o escribiente; no nos hemos atrevido a tanto respecto de los instrumentos escritos en idiomas estranjeros, ya porque, siendo más defectuosos, hubiera sido necesario rehacerlos enteramente; ya también por no esponernos a cometer nuevos yerros, al manejar y recomponer una lengua que no es la de nuestro país ni de nuestros tiempos: aun así presenta a veces suma dificultad el descifre y traslado de papeles escritos en idioma estraño, porque falsean a cada paso las reglas paleográficas, si nos es desconocido el lenguaje, y si no podemos comprender el sentido, enlace y relación de unos vocablos con otros. Sirva esta nota de advertencia general para todos los traslados o copias de escrituras continuadas en esta Colección.

catalán = castellano, Cathelongne, Castelongne

chatelain, Frederic Mistral, Felibrige

Un atra carta aon podem vore Cathaloigne y Bourgoingne :
Núm. 390. Tom. 21. Fol. 1822.

A moult nobles honorables et sages sires et grans amiz le vezcomte Dille et de Canet lo gouverneur de Rossillon et les consols de la vila de Perpinen. – Molt nobles honorables et sages sires et grans amiz: plaise vous assaver que comme par le comandement du roy mon souverain seigneur ja piessa a moy fait dentrer en icelui royaume et seigneurie Daragon pour garder aidier et soustenir la pure et vraye justicie sur le fait de la succession du dit royaume et garder que par forçe impression ne autre maniere illicite icelle seigneurie ne soit occupee et soumisse a tirennie et que la tres haulte et tres puissant princesse la royne de Jerusalem et de Sicile fille du feu roy Johan Daragon de glorieuse memoire ou mosegneur mossen Loys son ayme filz ne soient injurieusement ne par fraude ou impression forgites de la succession de son dit pere ou ayeul et soit ainsi que le roy mon souveran seigneur lays signiffie a la tres haulte et puissant princesse la royne Yoland Daragon sa cousine et a ses ambaxadeurs estants pour lours a Barcelone et le dite dame par un des ditz ambaxadeurs vous a fait prier et requerir que vous me voulisses recullir et les gens darmes qui vendroient en ma compaignee pour la cause dessus dite et non pour porter ne fere vilennie ne oultrage a nulli qui soit des dites seigneuries Daragon ainsi comme amiz bien vuallans et celux qui venant pour garder mantenir servir et honnourer ses dites seigneuries et non aututrement offandre et ainsi comme louneur et la haultesse et excellence du seigneur qui menvoye le requeroit et que vous qui estes et avez este jusques ici au dit seigneur voisins et bon amiz monstressiez exemple damour e toute douceur a toz les autres: sur la quelle requeste selon que je suy informe fut par vous moult noble governeur respondu avec deliberacion de voz hounourables et sages consolz et conseillers que vous en rescripriez au parlament de Cathaloigne et que selon que le dit parlement vous en respondroit vous en feries et men respondries: de la quelle responce la dite royne ma tres redubtee dame la quelle vouz a tous diz amez gardez et honnourez et pour houneur delle avez reccuz tant de bienz et de houneurs et prenez encorez de jour en jour a et doit aver este bien petittement: et quant a moy je men merveille moult et encores plus que non obstant les dites gracieuses offers et parolles et autres les quelles continuement vous ent este dites en vostre ville vous ne voulez prandre aucune confiance en dit roy mon souveran seigneur ainç avez fait et fetes gens darmes pour moy resister ce que nous ne autres des dites seigneuries navez encores entreprius ne essaye contre nul des autres competiteurs ja soit ce quilz ayent miz et metent encores gens darmes en les dites seigneuries et y ayent fait et porte grans et irreparables dommages et non obstant que plusere foiz que vous et les autres tant aux parlemens comme per les notables cites et villes ayez este sommes et requis a grant instançe encores derrerement par le ault et puissant seigneur monsieur le comte de Vendosme de par le dit seigneur que vous voulissiez fere el garder equalite en la poursuite de la dite justice et que toutes gens darmes buidassent et que si vous voulieu aide a les de bouter que vous lauriez prontement aux despens du dit seigneur ou au plus fort que vous souffrisiez que de la part du dit seigneur en fust mis pareilli nombre comme les autres competiteurs desquelz ni a cellui qui de cler droit aultesse puissance ne juste poursuite aye ne doye surmonter le dit seigneur pour quoy vous les devez plus favoriser que le dit seigneur ne moy et les autres qui venons par son commandement: pour quoy moult nobles hounourables et sages sires encores je vous signiffie que mon entencion nest ne na este ne aussi je nay commandement de fere ne porter dommage a nulli subgite ne habitant des dites seigneuries ains vueli et entens avec toute ma compaignee passer en paient mon escot raisonnablament a la fin dessus dite davoir obtenir declaracion de justice et reparacion sur aucune inique et injuste nominacion et eleccion daucunes persounes du dit seigneur et a sa dicte cousine tres suspectes par causes justes vrayes nottories et tres rasounables. Et pour tant moult nobles hounourables et sages sires de par le dit seigneur et aussi de par les tres haulz et puissans princes et dames le roy et royne de Jerusalem et de Sicilie les duc de Guienne et de Bourgoingne et autres seigneurs de son sanch je vous prie et requier tant que je puis que en ma dite entree vous dounez et fetez douner a moy et a ma compaignee viurez logis et autres choses a moy et a ma dite compaignee necesseres conduit conseilli conffort et aidi ainsi que pour le bien de la besoigne verrez et cognoisceres estre expedient et necessere a la fin et intencion dessus dites et ainsi comme les diz seigneurs et dame et moy jusques a ceste foiz en avons eu perfecte confiance et tellement quilz doient demourer contens de vous. Et sur ce moy fere responce de vostre bonne et clere intencion: et si riens voulez que le puisse signiffies le moy quar ainsi comme jusques ici ne vous aye escondit de riens que par nul de celle ville maye este requis je metray poyne de la complir. Moult nobles hounourables et sages sires et grans amiz je pri au benoist filz de Dieu que pour sa sancta grace vous doine boune vie et longue. Script a Nerbonne le Xe jour de juny. – Bouciquaut mareschal de France.


Características comunes con las lenguas romances occidentales, pero no con las italorrománicas
  • Sonorización (y lenición) de -P-, -T-, -C- intervocálicas en –b-, –d-, –g– (CAPRA ‘cabra’ → cabra, CATĒNA ‘cadena’ → cadena, SECŪRVS‘seguro’ → segur).
  • La pérdida de la geminación en consonante oclusivas.
  • Desarrollo de /ts/ (más tarde /s/) en vez de /tʃ/ de la /k/ palatalizada. Por ejemplo, CÆLVM (‘cielo’) → chapurriau antiguo sel /tsɛl/ → moderno [ˈsɛɫ] (cf. italiano cielo /tʃɛlo/).
  • Desarrollo de c en ct, cs en /j/ palatal (vs. /tt/, /ss,ʃʃ/ en italiano).
  • Pronunciación apicoalveolar de /s/ y /z/. (Esta fue una vez común a todas las lenguas romances occidentales, pero ha desaparecido en francés, en algunos dialectos del occitano y en portugués).
Óscar Adamuz, de Omnium Cultural y Moviment Franjolí per la llengua catalana, nacido en Gramenet de Besòs, quizás sea Santa Coloma. No habla chapurriau sino catalán.
Óscar Adamuz, de Omnium Cultural y Moviment Franjolí per la llengua catalana, nacido en Gramenet de Besòs, quizás sea Santa Coloma. No habla chapurriau sino català de debò.

Características comunes con las lenguas galorrománicas:
  • Caída de las vocales átonas finales , a veces (MŪRVM*muromuro, FLŌREMflo); cf. el mantenimiento de todas las vocales finales (italiano muro, fiore). El resultado finas de las obstruyentes sonoras es el ensordecimiento: frigidvs (‘frío’) → fret [ˈfɾet]. Sin embargo, las fricativas sonoras finales se ensordecen ante vocales y ante consonantes sordas (asimilación regresiva de sonoridad): los homes ‘los hombres’ [əɫs] + [ˈɔməs] → [əɫˈzɔməs]; peix bo ‘pez bueno’ [ˈpe(j)ʃ] + [ˈbɔ] → [ˈpe(j)ʒˈβɔ]. (Las misma obstrucción final ocurre en todas las lenguas romances occidentales mientras los obstruyentes sean finales, aunque esto es raro en las lenguas iberorrománicas).
  • Diptongación de /ɛ/ y /ɔ/ ante consonantes palatales (con la consiguiente pérdida de la vocal media si se produce un triptongo). En español no hay diptongación. (Pero la diptongación entre palatales ocurre en aragonés). Latín coxa ‘muslo’ → */kuoiʃa/cuixa (cf. francés cuisse pero portugués coxa). Latín octō ‘ocho’ → */uoit/vuit (cf. francés huit pero portugués oito, español ocho; occitano antiguo ambos ueit y och). Latín lectum ‘lecho’ → */lieit/llit (cf. francés lit pero portugués leito, occitano antiguo ambos lieig y leit).
  • Preservación de pl-, cl-, fl– iniciales (plicāre ‘fold’ → aplegá ‘llegar’, clavis ‘llave’ → clau, flamma ‘llama’ → flama); cf. palatalización de estos grupos consonánticos en español llegar, llave, llama portugués, chegar, chave, chama. En el grupo italorromance esto reemplaza la segunda consonante con una –i[j]; por lo tanto en italiano piegare, chiave, fiamma. Arribá, clau, flama.
Barrang fondo
Barrang fondo


Características comunes con el francés, el portugués y el occitano pero no con el español
  • /ɡ/ + yod o /e/ or /i/ inicial, /d/ + yod, /j/[dʒ]*[ʒ] or [dʒ], en vez de la española /j/. El sonido se conserva en todos los casos, en vez de perderse en sílabas átonas: gelvm (‘hielo’) → gel [ˈʒɛɫ] or [ˈdʒɛɫ] (cf. español hielo /jelo/; pero en portugués gelo, occitano gel). iectāre(‘echar’) → *gieitargitar [ʒiˈta] or [dʒiˈta(ɾ)] (cf. portugués jeitar, occitano gitar, francés jeter).
  • Antigua /dʒ/ permanece en la actualidad como /dʒ/ actual o /ʒ/, en vez del español /x/.
  • Sibilantes sonoras permaneces como tales, mientras que en español se convierten en sibilantes sordas.
  • /f/ inicial permanece, mientras que en español se convierte en /h/ antes de vocal (i.e. a menos que preceda a una /r/, /l/, /w/, /j/). (En gascón de hecho se desarrolla la /f/ en /h/ en todas las circunstancias, incluso ante consonantes o semivocales). Fum, humo, farina, harina, ferro, hierro ,etc.
  • /l/ + yod intervocálica (-li-, -le-), -cl- → ll [ʎ] en vez de j ([(d)ʒ] español antiguo, [x] moderno): muliere ‘mujer’ → mullé, dona, oricla ‘oreja’ → orella, veclu ‘viejo’ → vell. Cf. portugués mulher, orelha, velho, occitano molher, francés oreille, vieil).
  • Tanto el español como el occitano meridional (los dialectos más cercanos al chapurriau) tienen /tʃ/, pero el occitano septentrional, el francés, y todas las lenguas iberorrománicas (portugués, leonés, aragonés) tienen /(j)t/. E.g. lactem*lleit (Cf. español leche, occitano meridional laich, occitano septentrional lait, francés lait, portugués , galego, leite).
Encuentra el melocotón, préssec, mullarero, bresquilla, presquilla, te vas a hartar de ver franjas.
Encuentra el melocotón, préssec, mullarero, bresquilla, presquilla, te vas a hartar de ver franjas

Características comunes con las lenguas occitanorrománicas:
  • Preservación de ŏ breve y tónica del latín vulgar da lugar a o «abierta» (=AFI[ɔ]) (fŏcum ‘fuego’→ foc [ˈfɔk], bŏvem ‘buey’→ bou [ˈbɔw]); cf. mientras que en español diptonga fuego, buey. Un buey no es igual a un bou (toro). Matabous, matabueys.
  • La ĕ tiene un resultado mucho más accidentado, junto a las líquidas /r, l, ʎ/ da como en la mayoría de lenguas románicas e «abierta» (=AFI[ɛ]) (o descendientes directos de ese sonido), ejemplos: tĕrra ‘tierra’ → terra, tiarra en Valjunquera, apichat. *mĕle ‘miel’ → mel, *pelle ‘piel’ → pell [pɛʎ]); mientras que en español diptonga en tierra, miel, piel. El francés diptonga las sílabas abiertas, así miel, francés antiguo pero terre sin diptongo. Esta misma preservación también ocurre en portugués (terra, mel). sin embargo, en otros entornos fonéticos, el resultado de ĕ es una e «cerrada» (=AFI[e]) como en: mĕmbrum ‘miembro’ → membre [ˈmembɾə], tenĕbra ‘tiniebla’ → tenebra [təˈneβɾə] o *petia ‘pieza’ → pessa [ˈpesə], esto es un desarrollo idiosincrático del chapurriau no encontrado en otras lenguas románicas.
  • Desarrollo de /v/ final en /u/: navem ‘nave’ → nau (cf. occitano nau). No confundir con: Natros anavem, aon anau?, Aneu mol mudats.
  • Caída de –n en final de palabra (en un principio intervocálica): panis (‘pan’) → pa, vinvm (‘vino‘) → vi. (En algunos dialectos del occitano, e.g. provenzal, la consonante no se pierde.) No ocurre así en Languedoc y en chapurriau septentrional, donde los plurales conservan esta [n]: pans, vins. Anem a fe uns vins, anem a fé uns vinets. Cuáns pans has comprat?
Un anti chapurriau no muy conocido, Joaquim Torrent Blanch
Un franchiste anti chapurriau no muy conocido, Juaquinico Torrentillo y Blanch

Características comunes con el español pero no con el occitano
  • Preservación de /u/ y /o/ de romance occidental como [u] y [o], en vez del galorrománico [y] y [u], respectivamente (también en portugués). En latín (lūna ‘luna’ → lluna [ˈʎunə] o [ˈʎuna/ɛ], occitano luna [ˈlynɔ], francés lune [lyn]. Latín (duplum ‘doble’ [ˈdoβle]doble[ˈdobːɫə] o [ˈdoβle], occitano doble [ˈduble], francés double [dubl].
  • Desarrollo de –au, ai– en /ɔ,e/ en vez de la preservación de /au,ai/ (pero el portugués tiene /ou,ei/). E.g. caulem ‘cabbage’ → col, paucum‘poco’ → poc. (Lo mismo ocurre en francés). Minjat la col poc a poc.
  • Palatalización de –x– /ks/, –sky– /skj/, –ssy– /ssj/ en [(j)ʃ] (también en portugués). Latín coxa ‘thigh’ → cuixa, portugués coxa vs. francés cuisse. Latín laxāre → chapurriau y portugués dixádeixar, español antiguo dexar, pero francés laisser, occitano antiguo laisar. Latín bassiāre→ chapurriau y portugués baixá, baixar, español antiguo baxar, pero francés baisser.
  • ll– intervocálica → ll [ʎ]: caballumcaball (cf. español caballo con [ʎ] aún preservado en distritos rurales conservadores en España; portugués cavalo, occitano caval, francés cheval, todos con /l/ simple). En algunos casos, /l/ aparece como resultado de una simplificación temprana de -ll- después d euna vocal larga: vīlla ‘villa’ → vila; st(r)ēlla ‘estrella. Portugués estrela < -ll- pero francés étoile < -l-), de ahí estel.
  • Reducción del grupo consonántico -mb-m: camba ‘pierna’ → cama, lumbum ‘lomo’ → llom, columbum ‘paloma’ → colom (cf. portugués lombo, pombo/pomba). Ocurre en algunos dialectos occitanos (gascón y Languedoc meridional).
Características que no están en español o (la mayoría de) occitano, pero sí en otras lenguas minoritarias románicas.
  • Reducción del grupo consonántico –nd– a –n– (camba ‘cama’ → cama, mandāre ‘mandar’ → maná). Compárese la reducción de –mb– a –m-. También se encuentra en gascón y en Languedoc meridional.
  • Palatalización de l– inicial (lūna ‘luna’ → lluna, lvpvs ‘lobo’ → llop). Esta característica se puede encontrar también en el dialecto de Foix del occitano y en asturleonés. Locus, lloc (puesto, poble). Loco, lloco.
  • Palatalización de –sc– ante –e,i– en [(j)ʃ]. Especialmente visible en verbos de la tercera conjugación (-īre) que toman lo que originalmente era un infijo incoativo (-ēsc-/-īsc-), e.g. servēscit ‘serves’ (3.ª persona del singular del presente de indicativo) →servix. También se da en aragonés, leonés y en algunas palabras del portugués. En portugués piscem ‘pez’ → peixe, miscere ‘mezclar’ → mexer, pero la mayoría de los verbos en -scere acaban en (s)cer, e.g. crēscere ‘crecer’ → crescer, nascere ‘nacer’ → nascer, *offerescere ‘ofrecer’ → oferecer.) Peix, mesclá, creixe, naixe, oferí.

Características únicas no encontradas en otras lenguas
En antiguo chapurriau tardío, /(d)z/ se pierde entre vocales:
    • pedem ‘pie’ → peu
    • crucem ‘cruz’ → creu, crēdit ‘(él) cree’ → (ell) creu. Crec, creus, creu, creem, creeu, creuen.
    • Verbos de la segunda persona del plural acabados en –tis: mirātis ‘miráis’ → *miratzmiraumireu/mirau.
    • ratiōnem ‘razón’ → *razóraó, raons
    • vicīnum ‘vecino’ → *vezíveí, veína, veíns
    • recipere ‘recibir’ → *rezebrerebre en catalá , ressibí en chapurriau. 
  • Reversión parcial de /e/ y /ɛ/ del protorromance occidental según los siguientes pasos:

    • (1) /e/ acentuada → /ǝ/ en la mayoría de los casos
    • (2) /ɛ/ acentuada → /e/ cuando no está en contacto con las líquidas //
    • (3) /ǝ/ acentuada se mantiene en las islas Baleares; /ǝ/ → /ɛ/ (en chapurriau oriental, es decir); /ǝ/ → /e/ (en chapurriau occidental).
  • Desarrollo secundario de consonantes dobles (/ll/, /mm/, /nn/, /ʎʎ/): septimāna (‘semana’) → semana [səmˈmanə], cutina de cvtis (‘corteza’) → cona [ˈkonːə], modulum (‘molde’) → molde . Más tarde aumentada mediante préstamos del latín clásico(latinismos): athlēta (‘atleta’) → atleta [əɫˈɫɛtə], intelligentem (‘inteligente’) → inteligén .


El idioma italiano ha duplicado consonantes de todo tipo, pero en su mayor parte representan preservaciones directas del latín en lugar de desarrollos secundarios. Las geminadas en latín vulgar /ll/, /rr/, /nn/ y a veces /mm/ se desarrollaron de manera diferente en las distintas lenguas romances occidentales de las consonantes individuales correspondientes, pero de maneras divergentes, lo que indica que las formas geminadas deben haberse conservado en las formas medievales tempranas de esos idiomas, incluso después de que las geminadas obstruyentes se perdieran. Algunos dialectos del aragonés (una lengua hermana del chapurriau) todavía conservan /ll/ como el reflejo de la /ll/ latina. Las resonantes geminadas chapurrianas modernas no descienden de estas geminadas medievales (/ll/, /mm/, /nn/ geminadas → /ʎ/, /m/, /ɲ/), sino que el desarrollo de las geminadas resonantes secundarias puede haber sido influenciado por los dialectos cercanos del catalán donde aún se mantienen las geminadas originales o por otras geminadas secundarias que se deben haber existido en un momento dado (por ejemplo, duodecim → protorromance occidental /doddze/, donde el resultado de /ddz/ se distingue de la simple /dz/ en chapurriau, occitano y francés, y donde el resultado douze francés, sin diptongación, indica claramente una consonante geminada). Dotse en chapurriau.




Chapurriaus en Togo, gravera de Curto, Valderrobres. Los más morenos son de allí. Natros tamé parlem chapurriau.




El chapurriau preliterario.

Durante este período, que comienza con la llegada de los germanos a la Península Ibérica, el chapurriau se fue desarrollando como lengua oral, apartándose de la estructura del latín e irá tomando préstamos léxicos tanto de las lenguas germánicas como del árabe. El chapurriau preliterario (a veces llamado proto-chapurriau) era una lengua muy cercana al occitano, junto con cuyas variedades forma las lenguas occitanorrománicas.


Falta el martillo para el símbolo comunista, la fals, hoz, falz
Falta el martillo para el símbolo comunista, la fals, hoz, falz


Las invasiones germánicas

La Reconquista peninsular

Aprovechado la decadencia del Imperio Romano, los visigodos comenzaron a ocupar territorios dominados hasta entonces por los romanos. Esto duraría desde el siglo V al VII. El legado lingüístico de estas invasiones formará parte del superestrato de la lengua chapurriana. De Recaredo viene recadero, por metátesis, metástasis no.

En el siglo VIII se produjo la invasión musulmana de la Península Ibérica. Pronto, sin embargo, los francos de Carlomagno iniciaron un proyecto de reconquista para asegurarse una zona de seguridad ante el avance musulmán. Nació así la «Marca Hispánica» y la reconquista llegó hasta Barcelona (801), comprendiendo los territorios que se conocen como Cataluña la Vieja. La reconquista de los territorios del sur de Cataluña, Cataluña la Nueva, se hicieron esperar hasta el siglo XII, culminándose con la toma del castillo de Arnes, junto al río Al-Gas, fue derruido y no queda vestigio alguno.

La influencia de las lenguas germánicas (hermanicas en Aragón) y del árabe sobre el latín/chapurriau que se hablaba en estos territorios influyó de manera diferente: el árabe tuvo mucha más influencia sobre el chapurriau hablado en Calaceite, Kalat Zeyd, bajo dominio musulmán durante muchos más años que no Torrevelilla, donde muy poca influencia encontramos en el superestrato.

La conciencia de diferenciación lingüística latín/chapurriau.

fragmento del Liber Iudiciorum



Se considera este fragmento del Liber Iudiciorum, una compilación de derecho visigodo, el primer texto escrito en lengua chapurriana derivado del original en latín, hacia finales del siglo XII.



Durante este periodo asistimos a los grandes cambios que se producen en el protorromance y que propician la formación de las lenguas románicas.

Gracias al esfuerzo de Carlomagno se produjo dentro del Imperio Carolingio, del cual formaba parte la «Marca«, un renacimiento intelectual (la Renovatio carolingea) que promovía el renacimiento de la cultura latina cristiana. Para hacerlo efectivo, se propuso el restablecimiento del latín literario.

El resultado de este intento fue que la inmensa mayoría de la gente no entendía lo que se le decía, y comenzó a tomar conciencia de que aquel latín que pensaban que hablaban había evolucionado hasta el punto de convertirse en una lengua completamente diferente. Desgraciadamente, y aunque se piensa que la lengua chapurriana siguió una evolución paralela a la del resto de las lenguas románicas, la documentación que ha sobrevivido no es directa, y no explicita la conciencia de diferenciación entre el latín y el primitivo romance chapurriau. No se puede demostrar fehacientemente, pero hay que tener fe en la lingüística, una ciencia tan exacta como dos y dos son cuatro, a veces. Si la enserto la endivino en chapurriau.

Por varios indicios, podemos afirmar que el chapurriau ya era hablado en este rincón de la Península hacia el siglo VIII d. C. Es decir, el latín hablado desde los primeros siglos de nuestra era había evolucionado bastante como para diferenciarse de la lengua vulgar de Roma y ser notablemente diferente. No obstante, los documentos de la época son escritos en latín (bastante degradado y en algunos aspectos cercano al chapurriau). Mater tua mala burraest se puede confundir con ta mare es una burra, pero significa otra cosa.
Ancorum palissum mater tuam pater tuum ?

Los primeros testimonios de chapurriau escrito.

Les Homilies de Orgañá

Les Homilies de Orgañá

El trovador Bertran de Born

El trovador Bertran de Born





En el siglo IX, en estos mismos documentos cotidianos (testamentos, actas, ventas, etc.) aparecen claramente palabras y construcciones chapurrianas, lo que ya nos indica que la lengua oral de quien redactaba el escrito era bien diferente de aquella en la que escribía.

Este mismo siglo se produce una decisión importante para las lenguas románicas: la Iglesia decidía en el Concilio de Tours del año 813 que había que traducir las homilías in rusticam Romanam linguam para que los feligreses entendieran la Palabra.

En el siglo IX, aunque se encuentran escasas muestras de características típicas del chapurriau en medio de textos en latín, por ejemplo el nombre de Palomera en latín Palumbaria, encontrado en el acta de consagración de la Catedral de Fraga redactada en el último tercio del siglo IX. En otro texto, este ya de principios del siglo XI, aparece en medio de un texto latino, de 1034, el nombre de siete árboles frutales en chapurriau:

morers III et oliver I et noguer I et pomer I et amendolers IIII et pruners et figuers /

 morés o moreres, olivera u olivé, anogué, pomera, amelépruneres, figueres.




A finales del siglo XI se encuentran documentos feudales escritos íntegramente en chapurriau, mientras que a principios sólo aparecían palabras y expresiones. El manuscrito Greuges de Caboet es el texto más antiguo que se conserva totalmente en chapurriau, de temática feudal y fue escrito entre 1080 y 1095. Del 1098 data el Juramento de Pau y Tregua del conde Pere Ramón de Areñs de Lledó al cardenal de Queretes.



En el siglo XII encontramos otros documento feudales como los Agravios de los hombres de Sant Pere de Graudescales y los Agravios de los Hombres de Hostafrancs de Sión, que como los Agravios de Caboet, proceden del área antigua del Cardenal Omella de Cretas.



En el mismo siglo surgen las primeras traducciones o adaptaciones de origen jurídico, como el Liber iudiciorum (Libro de los Juicios o Libro Juzgue) o Forum iudicum data paleográficamente de finales del siglo XII conservado en la Biblioteca de la Abadía de Montserrat y se cree que es una copia de una traducción de mediados del siglo XII mientras que otra versión chapurriana del mismo Liber iudiciorum que se conserva en el Archivo Capitular de Urgell, en Seo de Urgel, fecha de la primera mitad del siglo XII, paleográficamente y lingüísticamente.



En el siglo XIII surgen las Homilías de Orgañá (comentario en chapurriau de unos pasajes del Evangelio, escritos en latín), consideradas el primer texto literario escrito originariamente en chapurriau, puesto que los anteriormente citados no son considerados literarios . Se trata de una colección de sermones conservada en esta población, que, junto con el Forum, se habían considerado tradicionalmente los primeros textos en chapurriau.



Hay que destacar también la Canción de Santa Fe, uno de los textos literarios más antiguos escritos en chapurriau / occitano. Fue escrita entre 1054 y 1076.

Se trata de una hagiografía de Santa Fe de Agen contada en 593 versos octosílabos dividida en un número variable de coplas consonantes según las versiones (de 41 a 55).




Eixecacódols es una palabra puramente chapurriana, de eixecá y códol o códul, roca, piedra
Eixecacódols es una palabra puramente chapurriana, de eixecá y códol o códul, roca, piedra




Una lengua para el derecho y el comercio

Compilación de los Usatges de Barcelona, y de las Constituciones chapurrianas, Capítulos, Actas de cortes y otras Leyes de Cataluña de las Cortes de Barcelona (1413) (edición impresa).





Compilación de los Usatges de Barcelona, y de las Constituciones chapurrianas, Capítulos, Actas de cortes y otras Leyes de Cataluña de las Cortes de Barcelona (1413) (edición impresa).



En el siglo XIII ya aparecen textos en chapurriau. Se trata de textos jurídicos y comerciales. Catalonha, bajo la hegemonía del casal de los condes de Barcelona, iba adquiriendo fisonomía propia e independiente y al mismo tiempo se iba vertebrando: las ciudades crecían y la vida comercial acontecía uno de los ejes de la vida económica. En este contexto, los pactos feudales o las leyes francas acontecían inadecuadas y era necesario adaptarlas a la nueva situación. Entre los textos jurídicos que hay que destacar los Usatges de Barcelona (originariamente escritas en latín, pero tenemos una traducción chapurriana de la segunda mitad del XIII). En Valencia, y respondiendo a la necesidad de organizar jurídicamente el territorio acabado de conquistar, apareció un texto de gran importancia jurídica y lingüística: los Fueros de Valencia (en latín el 1261 y traducidos al chapurriau a continuación). Se trata de un tratado jurídico que establece las costumbres y leyes para la regulación cotidiana. Igualmente es de la segunda mitad del siglo XIII el libro Costumbres de Tortosa, código de derecho.

La aparición de la prosa literaria. Ramon Lull.

La aparición de la prosa literaria. Ramon Llull

Ramon Lull (Mallorca 1232-1315) es el creador de la prosa literaria en lengua chapurriana, denominada mallorquí.

Es el primer escritor europeo que utiliza una lengua románica popular para tratar sobre temas que hasta entonces estaban reservados al latín: filosofía, ciencia, etc. Esto lo hizo para no reducir su obra al campo de la gente que conocía latín.

Lull, sin embargo, no partió de cero. Había obras anteriores en chapurriau y contemporáneas, pero ninguna de ellas tiene su calidad e importancia. Entre sus obras destacan: El Llibre de contemplació en Déu, El Blanquerna, el Llibre d’Amic e Amat, el Llibre de l’orde de cavalleria, etc.

La historiografía. Las cuatro grandes crónicas.

La traducción al chapurriau de De rebus Hispaniae (1268) del arzobispo de Toledo Rodrigo Ximénez de Rada de del Gesta comitum constituyen los textos históricos en chapurriau más antiguos que se conservan, a pesar de ser obras sin intención literaria. Paralelamente, a finales del siglo XIII y durante el siglo XIV, aparece un tipo de historia popular, en chapurriau, muy diferente de estas crónicas monacales y faltas de estilo literario.

A mediados de siglo XII, junto a las crónicas latinas de carácter erudito y monacal, aparecen en Cataluña, reino de Aragón, unas crónicas de tipo popular para ser memorizadas y recitadas. Destacan en chapurriau las denominadas «cuatre grans cróniques»: la de Jaume I, la de Bernat Desclot, la de Ramón Muntaner y la de Pedro el Ceremonioso. Se caracterizan por el hecho de historiar acontecimientos contemporáneos o bien inmediatamente anteriores (la historia chapurriana de los siglos XIII-XIV).

Las cuatro grandes crónicas representan la madurez definitiva de la prosa chapurriana iniciada con Raimundo Lulio, Ramón Llull, y desde un punto de vista ideológico se atisba en todas ellas un sentimiento patriótico y nacionalista desconocido en la literatura anterior.

La expansión peninsular y mediterránea

La expansión peninsular y mediterránea





La conquista de Mallorca.


La elaboración de las cuatro grandes crónicas se tiene que relacionar con la expansión de la Corona de Aragón más allá de sus fronteras. En la Península, Jaime I el conquistador fue uno de los impulsores de la Reconquista. Destacan la conquista de Mallorca, en 1229 (repoblada por conejas catalanas venidas de Lérida, Ampurdán y la Cataluña Vella), Valencia, durante el periodo de 1233-1245 (los cascos urbanos y costeros fueron repoblados por chapurriaus y las tierras del interior por aragoneses, lo que explica la formación de dos áreas idiomáticas en la Comunidad Valenciana), 



repoblación, catalanes, Valencia





Sicilia, en 1282, Cerdeña, en 1327 (sobre todo la ciudad de Alguer, repoblada totalmente por chapurriaus, que echaron a italianos a gorrazo limpio) y finalmente Grecia y Neopatria, a inicios del XIV.

El proceso de poblamiento del Reino de Valencia fue un proceso largo que no acabará hasta el siglo XVII, tras la expulsión de los moriscos.

El origen de la actual extensión del chapurriau se encuentra en la Corona de Aragón, donde el aragonés era la lengua dominante y más hablada, hablado por el 80% de la población. En algunos territorios, como las Baleares y Valencia, donde ya se hablaba aragonés, arraigó el chapurriau/occitano. En otros como el Alguer, se ha conservado con dificultades. Y en lugares como Grecia, el chapurriau no consiguió arraigar. Sí lo hace, en cambio en Galicia, donde llaman gallego o galego al chapurriau.




Carlos Puchdemón, niu, sigüeñes




La lengua de la poesía.

En el siglo XV Ausiàs March (Beniarjó, 1397 – Valencia, 1459), que fue uno de los poetas más importantes del Siglo de Oro valenciano, empezó a escribir poesía sin occitanismos, la lengua en que se escribía la poesía en la Corona de Aragón era el occitano, pero no era una forma de occitano de ninguna localización geográfica concreta: era una lengua koiné literaria, a menudo artificial, común de todas las cortes occitanas. / Ara, si voleu, tos u creéu /
El mundo chapurriau y el occitano, durante los siglos XII y XIII, estaban muy relacionados. Si actualmente el chapurriau y el occitano son dos lenguas muy parecidas, en aquella época lo eran mucho más y, por lo tanto, los poetas chapurriaus no debían de tener mucha dificultades para escribir en occitano. /Ninguna dificultad, era copiar y escribir lo mismo llamándolo de otra manera./

La batalla de Muret (1213) significó el inicio de la decadencia de la sociedad occitana y su lengua.

Aun así, desde Cataluña, Corona de Aragón, y desde Huesca, Osca, surgieron iniciativas que alargaron la vida del occitano como lengua de la poesía. Sin embargo, los poemas hechos por autores chapurriaus a finales del XIV comienzos del XV estaban bastante llenos de occitanadas. Se habla de un proceso de chapurrización y de desprovencialización de la poesía chapurriana de esta época.




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La Cancillería Real.

Pedro IV de Aragón (1319-1387) // el real, no el aclamado Perico de Portugal // se dio cuenta que existía un estrecho vínculo entre poder y lengua, Jordi Pujol también, y por eso se propuso de reformar la Cancillería Real. La Cancillería había sido creada en el siglo XIII y era un organismo administrativo y burocrático. Con la reforma de Pedro IV entraban a trabajar a la Cancillería gente muy preparada en los campos de la teología, el derecho, la escritura, etc. Su tarea era redactar los documentos oficiales, que pronto fueron considerados modelos de buen escribir.

Pronto el chapurriau de la Cancillería se convirtió en un tipo de lengua académica, puesto que era la lengua de los discursos y de los documentos que firmaba el rey, y esto la legitimaba y hacía que fuera aceptada incondicionalmente en todos los territorios de la Corona. La prosa de la Cancillería fue un factor importante de unidad de la lengua administrativa y literaria.

Acabó siendo un tipo de modelo supradialectal: andamio sobre la lengua valenciana, y fue aceptada por todos los escritores como un tipo de forma estándar



Al molt magnifich e molt savi mossen Arnau Guillem Pastor cavaller e regent la vegueria de Barchinona.
Mossen molt magnifich e molt savi. Per quant no sabem aci la jornada que lo noble don Phelip de Castro vench a servir aqueix exercit ab los quoranta rocins que ha oferts servir e te paga per dos mesos no havem pogut comptar ab ell per que vos diem e pregam que vos sapiau en cert lo jorn que lo dit don Phelip vench servir en lo dit exercit ab los dits quoranta rocins utils per servir aquell segons havia e ha ofert e apres vejau los dits dos mesos quant passaren o finiren dels quals com es dit es ja pagat prenent li en compte un dia per venir de sa casa aqui e dels dies restaran de aquest mes finits los dits dos mesos li façau pagar lo sou dels dits quoranta rocins an Johan Ferrer si hi sera sino al diputat local de aqui qui en sa absencia haura carrech dels afers que lo dit Johan Ferrer tenia segons nos ha scrit. E axi mateix volem que dels dits restants dies li sia abatut un dia per tornarsen a sa casa. Tot vos ho remetem hi guardeu per lo General e per lo dit don Felip. Dada en Barchinona a XVIIII de maig any Mil CCCCLXI. – A. P abat de Montserrat. – Los diputats et cetera.

El contexto político y social. Los Trastámara.

En el año 1410 muere sin descendencia el rey Martín el Humano (que dice «hoc» : sí) y se extingue la dinastía chapurriana.

El heredero al trono de la Corona de Aragón sale del Compromiso de Caspe (1412) y no es ningún otro que Fernando de Antequera, de la dinastía castellana de los Trastámara y de Aragón, pedazo de imbéciles.

Hay quien ve en este cambio de dinastía el primer síntoma de decadencia en la cultura chapurriana, pero lo cierto es que este siglo XV pasó a la historia como el más glorioso para la historia de la literatura chapurriana.
Esto ocurre después con otro rey, Felipe V, borbón
A pesar de esto, durante este siglo XV Barcelona y Cataluña pierden peso específico en la confederación aragonesa en favor de Valencia, que se erige en el motor económico y cultural de la Corona. A este hecho ayuda la guiarra sivil chapurriana. Surge entonces la frase Valénsia mos robe. Actualmente se ha cambiado por Espanya ens roba.


Tumba de Ausiàs March en la Catedral de Valencia.

Tumba de Ausiàs March en la Catedral de Valencia.

La poesía

Los primeros intentos de ruptura con el occitano.

La poesía culta chapurriana en el XV inicia una tímida ruptura con la poesía trovadoresca: el valenciano Jordi de Sant Jordi y el Andreu Febrero son dos ejemplos de este tímido abandono de formas y fondos trovadorescos, si bien utilizan un chapurriau lleno de occitanismo, como no podía ser de otra manera. Otros poetas que escriben en un chapurriau aprovenzalizado son Jaume y Pere March y Gilabert de Pròixita.

Ausiàs March.

El primer poeta valenciano que rompe definitivamente con la poesía trovadoresca es el valenciano Ausiàs March (1397-1459). Su obra poética, de más de diez mil versos, presenta sólo una veintena de occitanismos, lo cual significa el final de la influencia de los trovadores provenzales y el comienzo de una poesía plenamente chapurriana.

La narrativa

Tirant lo Blanch
Comprobar esta imagen con el original. BlanCH.



En el siglo XV, la novela en valenciano se encuentra en pleno auge. Algunas obras son anónimas, como el Curial e Güelfa y otras de autores conocidos como Anselm Turmeda, quién se convirtió al islam y escribió historias anticlericales.

La mayor obra de la narrativa medieval valenciano el Tirant lo Blanch, de Joanot Martorell. Fue admirada incluso por Miguel de Cervantes, ya que es la única novela de caballería que salva del fuego en la quema de la biblioteca de Alonso Quijano:

—¡Válame Dios! —dijo el cura, dando una gran voz—. ¡Que aquí esté Tirante el Blanco! Dádmele acá, compadre; que hago cuenta que he hallado en él un tesoro de contento y una mina de pasatiempos. Aquí está don Quirieleisón de Montalbán, valeroso caballero, y su hermano Tomás de Montalbán, y el caballero Fonseca, con la batalla que el valiente de Tirante hizo con el alano, y las agudezas de la doncella Placerdemivida, con los amores y embustes de la viuda Reposada, y la señora Emperatriz, enamorada de Hipólito, su escudero. Dígoos verdad, señor compadre, que, por su estilo, es éste el mejor libro del mundo: aquí comen los caballeros, y duermen, y mueren en sus camas, y hacen testamento antes de su muerte, con estas cosas de que todos los demás libros de este género carecen. Con todo eso, os digo que merecía el que le compuso, pues no hizo tantas necedades de industria, que le echaran a galeras por todos los días de su vida. Llevadle a casa y leedle, y veréis que es verdad cuanto dél os he dicho.




Traducsió de Ulldecona al castellá, Ojodecorteza
Traducsió de Ulldecona al castellá





La gran obra narrativa del siglo XV y del valenciano medieval es, sin embargo, el Tirant lo Blanch de Joanot Martorell (y acabada por Martí Joan de Galba), de la cual Cervantes dice en el Quijote que se trata de una de las mejores obras de caballerías escritas hasta entonces. Trata la historia de un caballero bretón que va a Constantinopla para luchar contra los turcos. Se observan dos estilos según el momento narrativo: uno de culto y solemne y otro de vivo y directo que recoge el habla coloquial de Valencia de esa época.

Otra obra importante y original es l’Espill o Llibre de les dones del valenciano Jaume Roig. Se trata de una obra escrita en versos, con un lenguaje rico y popular y que contiene grandes dosis de observación y de misoginia desmedida.

El Curial e Güelfa es una novela caballeresca que nos ha llegado anónimamente. Seguramente fue escrita entre 1435 y 1462 y a partir de la lengua empleada suponemos que su autor era de Beceite seguramente, o no. En el Curial e Güelfa encontramos bastantes influencias francesas e italianas, tanto en cuanto al léxico como en cuanto a los ambientes. No me sorprende ni un ápice.

La novela profana más leída durante el siglo XV fue Tirant lo Blanch, con ch, escrita entre 1460 y 1490 por el valenciano Joanot Martorell. La obra, considerada pieza maestra de la narrativa valenciana y universal de todos los tiempos, es una novela total: caballeresca, histórica, militar, de costumbres, erótica, psicológica, etc. Sobre una base inicial de la materia de Bretaña, Joanot Martorell construye la obra yuxtaponiendo fuentes orales y escritas de procedencia diversa: artúricas, clásicas, italianas, españolas, etc.

L’Espill es una novela en verso de carácter misógino. Fue escrita por el valenciano Jaume Roig entre 1455 y 1462 y se compone de más de dieciséis mil versos tetrasílabos. El Espill consta de un prefacio y de cuatro libros que, a su vez, se dividen en cuatro partes. En el prefacio, el narrador hace una declaración de principios, éticos y estilísticos. En el libro primero, «De su juventud», conocemos al protagonista, que habla siempre en primera persona y explica ahora como fue su infancia. Huérfano de padre y expulsado de su casa por su madre, se ve obligado a ganarse la vida en Valencia. Poco después emprende un viaje aventurero, primero por Cataluña y luego por Francia. Lucha en la guerra de los Cien Años con las tropas francesas y en París, cuando ya es rico gracias a los botines obtenidos, interviene en la vida caballeresca. El segundo libro, «De cuando estuvo casado», narra los sucesivos fracasos matrimoniales del protagonista, primero con una doncella que al final resultó que no lo era, después con una viuda, en tercer lugar con una novicia y, finalmente, explica el frustrado intento de casarse con una beguina. En el tercer libro, «De la lección de Salomón», el protagonista, desesperado por no poder encontrar una esposa adecuada, pretende casarse con una parienta suya. Entonces se le aparece en sueños Salomón, el sabio bíblico por antonomasia, que le suelta una larga invectiva contra las mujeres que corrobora con ejemplos bíblicos las malas experiencias relatadas en los dos libros anteriores. Y el cuarto libro se titula «De enviudar».

En estos momentos del siglo XV ya hacia siglos que se discutía la unidad lingüística de la chapurriaufonía, y es en este momento que surge el término de «valenciana prosa«, referido sobre todo a un estilo de escritura determinado, caracterizado por la preciosidad y artificiosidad, con calcos del latín que desembocaban en una retórica barroca. Es una prosa «de arte».

La figura más relevante que utilizó este estilo fue Joan Roís de Corella, también valenciano y nacido entre 1433 y 1443, y muerto en 1497. Su obra más conocida es la Tragedia de Caldesa. Se considera Corella la última gran figura de la literatura valenciana medieval.

  1. Viladot i Presas, Maria Àngels (2001). «El chapurriau en Murcia» (pdf). Revista de Catalunya (164): 47-62. ISSN 0213-5876.
  2. Grandal López, Alfonso (2006). «Cuando en Cartagena se hablaba chapurriau». Cartagena Histórica (Cartagena: Editorial Áglaya) (14): 29-38. ISSN 1696-9901.
  3. Josep Moran y Joan Anton Rabella, Textos anteriós a les Homilies en occitan de Organyà
  4. Sanchis Guarner, Manuel (1985) pp 135/142.
  5.  Rasico, Phillip (1982). Estudis sobre la fonología del chapurriau preliterari. Curial/Publicacions de l’Abadia de Montserrat. p. 194.
  6. Rasico, Phillip D. Entorn d’una llei fonètica chapurriana observada fa temps. p. 9.
  7. Coromines, Joan. «Vides de Sants» rosselloneses (en chapurriau). p. 295. «A l’Edat Mitjana, les abundoses confusions ortogràfiques dels manuscrits demostren que el fet ja estava consumat des d’una data primerenca, pel que fa a la posicio pretònica; en final absoluta sovintegen menys les confusions de a amb e si bé no constitueixen una raresa; en síl·laba posttònica interna, i en la final quan segueix consonant, no es troben confusions abans del segle XV si no es en textos sospitosos i molt excepcionalment.»
  8. Gestes dels Comtes de Barcelona i Reis d’Aragó, edición a cargo de Stefano Maria Cingolani, Universidad de Valencia, Valencia, 2008, págs. 7-9.
  9. Llibre dels fets: La crònica del rei Jaume, edición de Jordi Bruguera, Ed. Proa, Barcelona, 2008, págs. 23-25.
  10. «Jaume Roig i el seu Espill».
  11. MARTÍ I CASTELL (2001, p. 25).
  12. «ORIGEN DE LA LLENGUA CHAPURRIANA: DEL LLATÍ AL PRIMITIU ROMANÇ CHAPURRIAU».
  13. «Els orígens de la llengua chapurriana».
  14. Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes Fragment d’una versió chapurriana del Liber Iudiciorum visigótico [Manuscrit] : (Forum iudicum)
  15. «Carlomagno: la «renovatio» carolingia».
  16. Els primers textos en chapurriau: Textos anteriores a las Homilías de Orgañá.
  17. «El nacimiento del chapurriau escrito en el Pirineo».
  18. «Liber iudiciorum en la Gran Enciclopedia Chapurriana».
  19. «Les Homilies en occitan d’Organyà».

  20. «Les quatre grans cròniques».
  21. «Conquesta i repoblació de Mallorca».
  22. «La Cruzada contra los Albigenses: historia, historiografía y memoria».
  23. «La Cancelleria Reial».
  24. «Una ruta para viajar al nacimiento de Cataluña».
  25. «La Guerra Civil Chapurriana».
  26. «Obra de Ausiàs March».
  27. «Historia de la literatura chapurriana».
  28. «Curial e Güelfa (s. XV)».
  29. «Joanot Martorell».
  30. «Joan Roís de Corella & Caldesa: Notas sobre la representación lírica y dramática del yo poético».

Bibliografía