Etiqueta: provenzale

PRELIMINARI, La Crusca Provenzale

PRELIMINARI, La Crusca Provenzale

PRELIMINARI

La Crusca Provenzale di Antonio Bastero

Circa la natura, e qualità delle Lettere dell’ Abbiccì Toscano, e Provenzale; e circa l’ amistà, e convenienza tra di loro.

A. Prima lettera dell’ alfabeto, perchè più agevolmente s’ esprime, e però udiamo ne’ fanciulli mandar prima fuori naturalmente questa, che niuna altra, come quella, che non ricerca fatica. Appo i Latini dicono, che aveva più di dieci suoni diversi; appo i Toscani se ne sente difficilmente più d’ uno, se però la diversità dell’ accoppiatura delle parole non facesse alcuna volta profferirla con molta forza, come A lui, alcuna con meno come A’ miei, alcuna volta quasi due AA. Ah ribaldo.

Questa prima lettera non ha parimente nel nostro Provenzal Idioma, che un solo suono, il quale però, stando ella di per se, allorchè è o segnacaso o proposizione, o interjezione, si fa sentir alquanto più forte, come A lui; A mi; o come le due a. a., che si vedono nel fine di ciascheduna strofe del seguente Poema di Giuffredo Rudello Principe di Blaja, che ho voluto quì in fronte trascrivere dal Codice Vaticano segnato num. 3205., e tradurre in Toscano, per esser egli il primo, e più antico Poeta Provenzale, di cui s’ abbia notizia.


IOFRE RODEL. 


Non sap cantar qil son no di 

Nil vers trobar qils motz no fa 

Ni sap de rima com si va 

Si rason non enten en si

Pero mon can comens aissi 

Cõ plus lausires mais valra. a. a. 

Ja nulls nos meravilh de mi 

Sieu am zo qeu non veirai ia 

Qar nulla res tan mal nõ fa 

Cõ zo gez anc dels hueilhs non vi 

Anc mais nul temps no mimenti 

Ni no sai si ia so fara. a. a. 

Anc tan suau no madurmi 

Qe mos esperitz no fos la 

On la bella si dorm e ia 

Mei dezir fan lai lur cami 

Mei suspir son sei altresi 

Delamor no sai com penra. a. a. 

Bons es lo sons sieu nõ menti 

E tot qant i a bon iesta

E cel qi de mi lapenra 

Gard si nõ mueva ni camgi 

Qar si lauzon en caerzi

Lo coms de tolsa lentendra. a. a. 


GIUFFREDO RUDELLO.


Non sa cantar chi ‘ l suono non intona,

Nè il Verso trovar, chi non fa i motti,

Nè di rima non sa che cosa sia,

Se di essa non intende la ragione;

Però mio Canto comincio così, 

Che più lo sentirete, più varrà. a. a. 

Già nessuno di me si maravigli

Se io amo ciò, ch’ io non vedrò già, 

Perchè niuna cosa mi fa sì male, 

Come ciò, ch’ io non vidi mai cogli occhi;

Non mi mentì giammai in tempo alcuno,

E non so se già ciò farà. a. a. 

Non m’ addormentai mai così soave,

Che mio spirto non si trovasse là

Ove dorme la bella, e già

Miei desir fanno là il lor viaggio; 

Miei sospir sono suoi; altresì, 

Non so come mio amor accoglierà. a. a.

Se io non m’ ingannai, buono è il suono,

E tutto quanto vi è, bene ci stà; 

E quegli, che da me l’ imparerà, 

Guardi di non muovere, nè cambiare; 

Poichè se’ l sentono in Caorsa

Il Conte di Tolosa l’ intendera. a. a.

B.
Lettera assai simile al P, e all’ V consonante, dicendosi molte voci
coll’ una, e coll’ altra scambievolmente: come Serbare, e Servare:
Nerbo, e Nervo: Boce, e Voce: Pubblico, e Piuvico. Delle consonanti
riceve dopo di se nella medesima sillaba la L, e la R, e vi perde
alquanto di suono, come Obbligo, Pubblico, Braccio, Ombra, benchè
colla L, di rado si truovi appresso i Toscani, nè mai in principio
di parola, come pronunzia a loro più strana, salvo alcune voci
Latine, come Blando, Blandimento, ec. Consente avanti di se, in mezzo
di parola, ma in diversa sillaba la L, M, R, S, come Albume, Lembo,
Erba, Usbergo, quantunque si truovi di rado colla S, in mezzo della
parola, e per lo più ne’ verbi composti colla proposizione Dis, come
Disbrigare. Usasi più frequentemente in principio di parola, come
Sbandito, Sbattere. E deesi sempre la S, avanti al B, pronunziar col
suon più sottile, o rimesso, come nella voce Accusa, di che si dice
nella lettera S. Puossi raddoppiar nel mezzo della parola, quando
egli occorre, come Nebbia, Trebbio.

Pure
in Provenzale diciamo noi scambievolmente parecchie voci ora col B, e
ora coll’ V consonante, come serbar, e servar; nirbi, e nirvi;
probar, e provar; proba, e prova; probanza, e provanza, ec. Negli
antichi MSS. si trovano molti vocaboli indifferentemente scritti ora
col B, ed ora col P; e ciò non solamente in fine di parola, come
prop, e prob (vicino L propè) lob, e lop (lupo) gab, e gap (gabbo) e
in mezzo, verbigrazia sebelir, e sepelir (sepellire) Tratt. Simb.
Apost. 5. E fonc crucifficatz, e mortz, e sebellitz sotz Pons Pilat:
e acapar, per acabar (finire) Guid. Cauliacc. 71. Acapat es lo segon
Tractat a Deu gracias: ed altre molte, come tromba e trompa; arribar,
e arripar (arrivare) ec. Ma eziandio sul principio, come planquet per
blanquet (biacca, e bianchetto) Mon. Montau. nel Poema contra la
vanità delle femmine del suo tempo, che per comparir belle
adoperavano il liscio, dipingendosi ‘l viso. C. V. 4. 123. 2.

De
planquet, e de vermeillon

Se
meton tant sobre l’ menton,

Et
en la faz, qe ec.

Di
bianchetto, e di rossetto
Si mettono tanto sovra ‘l mento,
E
nella faccia, che &c.
Boble, e Poble (Popolo) adoperato l’
uno, e l’ altro per più vaghezza, da Fr. Jac. Casul. 18. Digau als
vostres pobles, que mes ama Marchilli senyorejar los bobles rics, que
si lo dit Marchilli se feva ric. E praguer, e braguer (brachiere)
usati parimente tutti e due da Guid. Cauliacc. nella sua Opera di
Cirugia, là dove parla dell’ Ernia, a c. 68., e 69. Similmente gli
antichi Toscani dissero brivilegio, brivilegiare, ec. per privilegio,
privilegiare &c.

Delle
consonanti riceve anche nel nostro Linguaggio dopo di se la L, e la
R, perdendo pure alquanto di suono; e ciò non solo in mezzo della
parola, come semblanza, coblejar (far cobbole) ombra, ombrejar; ma
eziandio nel principio, come blau (turchino) blanc, bras, braga ec.

Ed appresso gli Scrittori Toscani del buon secolo, la trovo
avanti la L, in principio di parola, non solamente nelle
sopraccennate voci Latine Blando, Blandimento, ec. ma in alcune
prette Provenzali, come Blasmare, Blasmo, Blondo, ec.

Consente
pure avanti di se, ma sempre in mezzo di parola, e in diversa sillaba
la L, M, R, S, come albre, fembra, erba, osberg. Sul principio però
non ha mai avanti di se niuna delle consonanti, nè meno la S,
dicendo noi, esbalmar (ciondolare) esbarriar (sparpagliare)
esblanqueít (bianchiccio) esboscassar (abbozzare) esboscassament
(abbozzamento), e così estar, esquivar, e esquifar; espès, esperar,
esperit, e simili con l’ aggiunta della E chiusa, o stretta, per più
dolcezza. Ed indi anche gl’ Italiani ad imitazione nostra, e per lo
stesso motivo vi aggiungono spesse fiate la I, lettera sorella
carnale dell’ E stretto, dicendo istare, ischifare, impresso, ec.
siccome osservò diligentemente il Bembo al primo delle sue Prose,
colle seguenti parole: “Senzachè uso de’ Provenzali peravventura
sia stato lo aggiugnere (aggiungere) la I nel principio di moltissime
voci, comechè essi la E vi ponessero in quella vece, lettera più
acconcia alla lor Lingua in tal uficio, che alla Toscana; si come
sono Istare, Ischifare, Ispesso, Istesso, e delle altre, che dalla S,
a cui alcun’ altra consonante stia dietro, cominciano, come fanno
queste. Il che tuttavia non si fa sempre; ma fassi per lo più,
quando la voce, che dinanzi a queste cotali voci stà, in consonante
finisce; per ischifare in quella guisa l’ asprezza, che ne uscirebbe,
se ciò non si facesse; si come fuggì Dante, che disse,

Non
isperate mai veder lo Cielo,
e il Petrarca, che disse,
Per
iscoprirlo immaginando in parte.
E comechè il dire In Hispagna,
paja dal Latino esser detto, egli non è così; perciocchè quando
questa voce alcuna vocale dinanzi da se ha, Spagna, le più volte, e
non Hispagna si dice &c.”

Sopra
questa medesima lettera è degno di notare il luogo del Barberino
Docum. Amor. fogl. 162.

L’
erbette son tre lettere, che stanno

In
quel, ch’ è poco danno,

Se
gli vien l’ emme per esser la quarta;
Come chi bocca per se forza
squarta:
ove è appellata Be, contuttochè i Fiorentini, e la
maggior parte degli altri popoli della Toscana dicono Bi, Ci, Di, Gi,
Pi, Ti, e non Be, Ce, De, Ge, Pe, Te; e sebbene questa seconda
maniera, cioè Be, Ce, ec. è alla Latina, nientedimeno il Barberino,
il quale molto si compiacque della Lingua Provenzale, come nota l’
Ubaldini nella introduzione alla sua Tavola, o Vocabolario, ad
imitazione di questa nostra Provenzale, e non di quella del Lazio, è
da credere, che disse Be; il che accenna il medesimo Ubaldini, colla
seguente osservazione: “L’ Er be te son

tre
lettere: cioè R. B. T. Di quì sentesi qual pronunzia usasse il
nostro Autore, dicendosi oggi da’ Fiorentini Abbiccì; dove il nostro
direbbe Abbeccè: tale facevano i Latini Abecedarius presso Girolamo,
Agostino, ed altri; de’ Provenzali, Cadenet MS. del Signor Carlo di
Tommasso Strozzi.”

Tres
letras del Abece

Aprendes
plus nous deman
A. M. T. car aitan
Volon dire com am te.
Lo
stesso, dopo dell’ Ubaldini, fu accennato, ed osservato da Carlo Dati
appresso le Origini Italiane del Menagio alla lettera A, e
ultimamente dall’ eruditissimo Girolamo Gigli nel suo Apparato all’
Opere di S. Caterina, alla lettera E, citando, e trascrivendo
amendue, i suddetti versi del Cadenet.

Gli
stessi versi Provenzali furono anche citati, e portati da Francesco
Redi, del testo della libreria di S. Lorenzo di Firenze, nelle sue
Annot. Bac. in Toscan. fogl. 117., benchè ad altro effetto, cioè
per comprovare, che gli antichi Rimatori solevano talvolta scherzar
colle lettere, accennando con esse, nelle cobbole, o stanze il loro
nome, o altra cosa, che più loro fosse andata a grado. Ecco le sue
parole nel citato fogl. 117. “Elia Cadenetto volle anche esso
scherzar colle lettere, onde come si legge nel Testo a penna della
Libreria di S. Lorenzo.”

Tres
letras del a. b. c.
Aprendez plus non deman:

A.
M. T. car aitan
Volon dire com am te.

Ma
già che egli se ne prevalse per questo fine, poteva soggiungervi, e
dar fuori gli altri versi che seguono, o vero tutta la strofe, la
quale nel Testo Vaticano Cod. 3204. car. 99. si legge così.
Tres
letras de labece

Aprendes
plus nous deman
A. M. T. car aitan
Volon dire com am te
Car
ab aitan de clersia
Auriam pro eu e vos
Mas per so ben i
volria
O. e C. mantas sazos
Que si eus disia digatz
Domna
farias majuda
Eu cre que vos seriatz
De dir Oc
apersebuda.
cioè:
Tre lettre dell’ Abbeccè
Apprendete, più
non vi dimando,
A, Emme, Te, perchè altrettanto
Voglion dir
come amo te:
E con altrettanta dottrina
Saremmo assai dotti io,
e voi;
Ma per ciò ben ci vorrei
O, e C, mante fiate
aggiugnere;
Che se io vi dicessi, dite
Donna, fareste mio
ajuto?
Io credo, che voi sareste
Apparecchiata per dir di .

Questo scherzo poetico del Cadenet, per dirlo di passaggio, mi fa
sovvenire de i ternari d’ un Sonetto di Cecco Angelieri Sanese,
contemporaneo di Dante, che incomincia:
Sel cor de Bichina fosse
diamante, appresso la Raccolta de’ Poeti antichi di Monsignor Leone
Allacci, fogl. 204., ne’ quali ternari osservo, che esso Angelieri
furò dal nostro Cadenet simil concetto, ed invenzione, discorrendo
egli così intorno alla sua innamorata Bichina.
Ma s ella un poco
mi stesse audita
Et eo avesse lardire de parlare
Direy come so
sua spene incarnita.
E po gli dirci com eo son sua vita,
Et
altre cose cheo non vo contare,
Parme esser certo chella direbbe
ita.
Ove le voci vita, e ita alludono alle lettere Greche B, e *,
che così s’ appellano, e quì la ita vale sì, usata parimente alla
Latina, da Dant. Inf. 21.
De ‘l nò, per li denar, vi si fa
ita,
cioè per denari si fa del nò sì.
Non lascierò di
notare, che nel Cod. Vatic. 3205. car. 95. si trova la suddetta
stanza scritta diversamente, cioè:
Tres letras de l A. B.
C.
Aprenez plus non deman
A. M. T. qar aitan
Volon dire qom
am te
E ab aitan de clergia
Auria pro entre nos
Pero anc
mais i volria
O. e C. mantas sazos
Qar sieu dizia digatz
Bona
donna fas majuda
Adoncs sai qe seriatz
De dir Oc
aperceubuda.
Ma in quanto alle lezioni, o vero alla diversità
della scrittura delle lettere, cioè Abecè; e A. b. c. nulla v’ è
che dire appo noi, essendo amendue ugualmente buone, dicendosi
constantemente in Provenzale Be, Ce, ec. Laonde non ci è stato d’
uopo di mettere in dubbio, e di questioneggiare, come anno fatto i
Gramatici Italiani, se i nomi del b, c, d, g, p, t, s’ abbiano a
pronunziare be, ce, de, ge, pe, te, come c’ insegnano i Latini
gramatici, o pur bi, ci, di, gi, pi, ti, come costumano gl’ idioti,
siccome propone il Salviati ne’ suoi Avvertimenti volum. I. lib. 3.
cap. I. particel. 2. E per ciò le lezioni d’ alcune copie del Bocc.
Gior. 6. nov. 5. Credo ec. che voi sapeste l’ A, B, C, e gior. 8.
nov. 9. Voi non apparaste miga l’ A. B. C., pare, che non sieno
riputate dal Buommattei al tratt. 3. cap. 5. così ottime, come
quelle de i Testi de’ Deputati del 1573., e del suddetto Salviati,
che anno nominatamente l’ a bi ci. Ma a così fatta questione di nome
ha imposto silenzio il dottissimo Abate Anton Maria Salvini Lettore
di lettere Greche nello Studio di Firenze, il quale nelle sue
eruditissime Note sopra il detto Buommattei, al citato luogo, a car.
31. decide, e risolve, che Bi, Ci, Di, non è profferimento, o suono
di quelle tali consonanti; perciocchè potrebbero dirsi anche Ba, Ca,
Da; Bo, Co, Do; ma è il nome di quelle tali lettere, che dove in
Firenze si nominano Bi, Ci, Di; in Arezzo, per esempio, che pure è
in Toscana, si nominano alla latina Be, Ce, De; 
siccome
nota il Sig. Francesco Redi nel Vocabolario suo Aretino manoscritto
&c.

C.

C.
Lettera, la quale ha molta simiglianza col G. Adoprasi da’ Toscani
per due sorte di suoni; perchè posta innanzi all’ A, O, U, ha il
suono più muto, o rotondo: come Capo, Conca, Cura; e avanti la E, ed
I, si manda fuor più sonante, o aspirata: come Cera, Cibo. Onde per
farle fare il primo suono, le pognamo la H dopo, come Cheto,
Trabocchi. Questo CH, posto davanti all’ I, ottiene due sorte di
suoni, l’ uno più rotondo: come Fianchi, Stecchi, Fiocchi; l’ altro
schiacciato, come Occhi, Orecchi, Chiave; quantunque appo i Poeti,
cotali suoni non impediscan la rima. E per conoscere questa diversità
di suono, sarebbe necessario assegnare a ciascheduno il suo proprio
carattere. Non si pone il C avanti ad altre Consonanti, che alla L, e
R, nella stessa sillaba, e perde alquanto del suo suono; ma alla L,
più rado; come Conclusione, Clero: Crine, Increspato. Ammette avanti
di se nel mezzo della parola, ma in diversa sillaba la L, N, R, S:
come Calca, Ancora, Arco, Tosco; ma la S. gli va avanti, ancor nel
principio; come Scudo, Schermo; e sempre si pronunzia la S innanzi al
C, nel primo modo più comune, come nella voce Casa, di che vedi
nella lettera S. Metessi il C avanti al Q, quando il Q si doverebbe
raddoppiare, come Acqua, Acquisto; conciossiacosachè il Q non sia
altro, che C. Nel mezzo di parola si raddoppia, quando bisogna: come
Stecco, Bocca, Tocca.

Posto
innanzi all’ A, O, U, ha similmente nel Provenzale il suono ritondo,
verbigrazia cap, conca, cura; ma avanti la E, ed I ha lo stesso suono
della S gagliarda, come cera (Lat. Cera), cercar, cisterna, cigala;
le quali voci pronunziamo come se fossero scritte per S, sera,
sercar, sisterna, ec. Onde per fargli fare il primo suono gli poniamo
la u vocale dopo, nel qual caso però adoperiamo la Q in sua vece,
conciossiacosachè il Q, come accenna il Vocabolario, e si vederà a
suo luogo, non sia altro, che ‘l C muto, o rotondo; come nelle voci
quetxo, quet, e quiet, che significano cheto; e que, qui ec. le quali
profferiamo, come se fossero scritte, qet, qe, qi, che anche così
senza la u si truovano sovente negli antichi testi manoscritti. Per
fare poi nella nostra Lingua il suono delle sillabe Toscane Cià, Ce,
Ci, Ciò, Ciù, vedi quel che si noterà nella Lettera X. Delle
consonanti ammette dopo di se nella stessa sillaba, solamente la L, e
la R, come conclusion, e conclusiò, crespat, encrespat. Consente poi
avanti di se la N, R, S, e ciò sempre in diversa sillaba, fuorchè
ne’ monosillabi, come encara (ancóra) arcáda, escusa, anc (anco)
hanc, arc, vesc: e parimente in questo nostro Idioma sempre si
pronunzia la S innanzi al C nel primo modo, cioè gagliardo, di che
vedi nella Lettera S.

I
nostri antichi il raddoppiavano talvolta come peccat, proccurar, ma
oggi diciamo, e scriviamo procurar ec. L’ usiamo però raddoppiato
avanti l’ I, dove bisogna, come decocciò (Lat. decoctio, concoctio)
e avanti l’ A, come acceptar; avvegnachè in cotali voci il secondo c
si pronunzi, come se fosse s, e per questo si scrive talora da alcuni
decocsiò, acseptar. Per ragion della molta simiglianza, che ha col
G, si trovano alquante voci scritte ne’ Codici Provenzali della
Vaticana coll’ uno, e coll’ altro scambievolmente, come cavalcar, e
cavalgar; cavalcadura, e cavalgadura; borg, e borc (borgo), gonfanò,
e confanò (gonfalone) e simili.

Egli
è vero però per non lasciar cosa, che da considerar sia, che
abbiamo ancora un’ altro C, che è più sonante, e forte della S
gagliarda, il quale contrassegniamo con questo carattere ç, chiamato
da noi con molto acconcio nome C trancada, cioè a dire, C infranto,
del quale ce ne serviamo, quando ci occorre, per far perdere il suono
del C duro; imperciocchè siccome queste sillabe Ca, Co, Cu, anno il
suono duro, all’ incontro quest’ altre ça, ço, çu l’ anno
infranto, cioè un poco più sonoro, e gagliardo delle sillabe Sa,
So, Su, verbigrazia alabança (lode) convençut (convinto) ço (ciò)
avvegnachè chè per lo più confondiamo questi caratteri, scrivendo
començar, e comensar; assots, e açots, ec. Questo nostro ç
infranto, per dirlo di passaggio passò da Catalogna nell’ Aragona,
ed indi poi in Castiglia, dove è appellato C con zedilla, ovvero
zedilla, cioè piccola zeta, per ragione di quella codetta fatta a
guisa d’ una piccola zeta; e perchè nella Lingua Castigliana la Z, e
il C chiaro, o sonante anno un medesimo suono, scrivendosi da’
Castigliani indifferentemente zelar, e celar, e simili, perciò s’
adopera nella stessa Lingua in cambio del Z, come çapata, e zapata;
açogue, e azogue ec. che che ne dichino Massimo Trojano, e Argisto
Giuffredi nelle loro osservazioni della suddetta Lingua Castigliana
stampate in Firenze nel 1601. Onde Francesco Sobrino ne’ prolegomeni
del suo Dicionario nuevo de las lenguas Española, y Francesa,
impresso in Brossella nel 1705. Les Espagnols écrivent l’ V au lieu
du B. Ils écrivent ainssi le ç au lieu du Z, e le Z au lieu du ç.

Nell’
Abbiccì, che per tutta l’ Italia adoperano i fanciulli quando
incominciano d’ apparar a leggere, detto in Roma la Santa Croce, per
ragion della effigie della Santiss. † posta in fronte di esso; e in
Firenze, la Croce Santa, anteponendo il sostantivo all’ addiettivo;
vi si vede pure questo carattere ç coll’ altre solite abbreviature
sul fine, così:
ç R* b.’, e il chiamano Con. Ma gli Stampatori
sbagliano usandolo così ç alla dritta; imperciocchè quando
rappresenta il segno, o l’ abbreviatura della sillaba con, si scrive
sempre voltato in questo modo ɔ, come si vede ne’ MSS., e ancora ne’
libri di stampa antica: e questo ɔ è chiamato da noi girar de con,
cioè a dire, che posto così ɔ girato, vale per la sillaba con. Tra
i diversi caratteri, che il Trissino voleva aggiugnere al Toscano
Alfabeto, uno si era questo nostro ç da lui appellato çeta, di che
vedi appresso, alla Z.


D.


D.
Lettera, che ha gran parentela colla T, e perciò molte voci latine,
nel farsi nostrali, hanno mutato il T in D, come più dolce di suono:
Latro, Ladro: Potestas, Podestà: Litus, Lido. Acconsente dopo di se
solamente la R, oltre alle vocali, tanto in principio, quanto in
mezzo della dizione, e nella stessa sillaba, con perdere alquanto di
suono: come Drago, Salamandra. Riceve avanti di se, nel mezzo della
parola, ma in diversa sillaba, la L, N, R, S: come Geldra, Bando,
Verde, Disdicevole. Ma la S, avanti la D, si trova di rado in mezzo
di parola, e quasi sempre ne’ verbi composti dalla particella Dis:
come Disdire. Nel principio si trova più spesso: come Sdegno,
Sdentato; e deesi sempre profferire la S, avanti, nel secondo suono,
e più rimesso, come nella voce Accusa, come si dice nella lettera S.
Raddoppiasi nel mezzo, quando egli occorre: come Freddo, Addurre.

Così
pure in alcune voci Latine nel farsi nostrali, è stato mutato il T,
in D, per ragione dell’ accennata parentela, come latro in ladre:
latrare in ladrar: latrator in ladrador, lladraire. Dopo di se
acconsente parimente nel nostro Provenzale la R, oltre alle vocali,
perdendo alquanto di suono, come dragon, e dragò; salamandra: Avanti
di se riceve similmente le suddette L, N, R, S, come falda, bandejar,
verdura, desdir. Non la raddoppiamo però se non in qualche voce
Latina, come addiciò, addicional.

I
nostri vecchi la scambiarono spesso col Z, trovandosi ne’ Testi
antichi scritto indifferentemente veder, e vezer (vedere) medicar, e
mezicar (medicare) tardar, e tarzar (tardare) ed altre somiglianti,
come osservò diligentemente il Crescimbeni nelle sue eruditissime
Annotazioni sopra le Vite de’ Poeti Provenzali, particolarmente
intorno quella di Guglielmo Adimaro, così: I Provenzali oltre all’
antiporre la N a i nomi propri d’ Uomini &c. spesso scambiavano
la D nella Z. E in quella di Bertrando di Pedaro con queste parole:
E’ costui chiamato dal Nostradama Bertrand de Pezars, o de Pezenat; e
perchè i Provenzali, come altrove abbiamo detto il D facevano Z,
come veder, vezer; medecar, mezecar, e simili; però noi la voce
Pezar, l’ abbiamo tradotta Pedaro, siccome Pezenat, Pedenato:
quantunque alle volte altre simili parole le abbiamo trasportate
colla Z, che si legge nel Testo. E dopo di lui il Gigli Apparat.
Oper. S. Cater. alla particella Et in questa guisa:
La Lingua
Provenzale, Madre della nostra, cambiava spesso il Z col D. E di quì
osservo, che i Toscani per imitare i Provenzali loro Maestri, anno
detto, e adoperato scambievolmente, ardente, e arzente; frondire, e
fronzire; fronduto, e fronzuto; gradire, e grazire; guadare, e
guazare; verdura, e verzura; verdume, e verzume; rinverdire, e
rinverzire; ed altre, come si osserva nel Vocabolario, quantunque in
esso gli Accademici della Crusca non facciano menzione di simile
cambiamento.

E.

E.
Lettera vocale, e ha molta convenienza coll’ I, prendendosi
frequentemente l’ una per l’ altra: Desiderio, Disiderio: Peggiore,
Piggiore. Appo i Toscani ha due suoni, l’ uno più aperto: come
Mensa, Remo; l’ altro più chiuso, e più frequentato da noi: come
Refe, Cena; onde per tor via gli errori richiederebbon vari
caratteri, quantunque cotal suono, appo i Poeti non faccia noja alla
rima.
Similmente nel nostro Idioma, per ragione dell’ accennata
convenienza, e amistà, che ella ha coll’ I, anno usato
scambievolmente i nostri antichi: ociosetatz, e ociositatz; enfern, e
infern, come si legge, tra gli altri MSS. in quello del Tratt. Pecc.
Mort., e sovent, e sovint (sovente) adoperato l’ uno, e l’ altro da
Gio. Mart. 68., e così lealeza, e lialeza; leal, e lial &c. Ha
ancora amistà, e convenienza coll’ A, sì in Provenzale, che in
Toscano, come osservò l’ eruditissimo Francesco Redi nelle sue
Annot. Ditir. a car. 64. colle seguenti parole:
“I nostri più
antichi Scrittori Toscani, in cambio di elemento, dissero sovente
alimento, cangiando la lettera e della prima sillaba in a, come è
chiaro, per gl’ infrascritti esempli &c. Dante da Majano nel
primo de’ suoi Sonetti stampati disse Alena in vece di Elena.

Alena
greca co lo gran plagiere

Guittone
d’ Arezzo nelle Lettere manuscritte usò il verbo Aleggere in vece di
Eleggere &c. Usollo ancora Gio. Villani, e tutt’ e due i
Malespini, ne’ quali si truova Sanatore, Sanato, assempro, assemplo,
con altre simili voci &c. La più bassa plebe di Firenze conserva
alcune poche reliquie di tali arcaismi nelle parole abreo, arrore,
dalfino, sagreto &c. Negli antichi Provenzali si truova spesso
tale amistà, e parentela tra la lettera A, e la E. Nella Vita di
Guidusel del Testo della Libreria di S. Lorenzo si legge Raina per
Reina. Neza de Guillem de Monpeslier, cosina germana de la Raina d’
Aragon. Giuffredi di Tolosa nella Serventese, ch’ ei fece per amore
d’ Alisa Damigella di Valogne, disse molte volte piatat in vece di
pietat.

A
Madompna sens piatat
Nuec, e dia eu clam mercè.
Tralascio
infiniti altri esempli e de’ Toscani, e de’ Provenzali”.

E
così ancora in Provenzale ha gli stessi due suoni, che in Toscano;
l’ uno più aperto, o largo, come aver, saber: e l’ altro più
chiuso, o stretto, e da noi parimente più frequentato, come vermell
(vermiglio) temps, ensems (insieme) conforme insegna, e dimostra il
Rimario Provenzale MS. della suddetta Libreria di S. Lorenzo.


F.


F.
Lettera, la quale, nel pronunziarsi, è assai simile all’ V
consonante, per essere amendue molto aspirate. Riceve dopo di se, nel
mezzo della parola, *e nella stessa sillaba, le consonanti L, e R, e
vi perde alquanto di suono, come Afflitto, Fresco; ma riceve la L
molto più di rado, come suono alquanto malagevole alla nostra
pronunzia. Ammette avanti di se la L, N, R, S, in mezzo della parola,
e in diversa sillaba, come Alfiere, Enfiato, Forfora, Disfatto, ma la
S se le pone avanti molto più frequentemente nel principio, conforme
Sferza, Sforzo, e pronunziasi la S, avanti alla F, nel primo modo, e
più comune, come nella voce Casa, conforme a quello, che si dirà
nella lettera S. Nel mezzo delle dizioni si può raddoppiare, dove fa
mestiere, come Effetto, Buffone.
Il suono della F è quasi lo
stesso di quello dell’ V consonante, per formarsi tutt’ e due con una
medesima percussione di strumenti, cioè battendo il labbro ne’
denti, come osserva il Buommattei Tratt. 3. Cap. 8. Laonde ne’ MSS.
antichi si truovano questi due caratteri adoperati talora l’ uno per
l’ altro, come venestra per fenestra nella seguente strofa d’ un
Poema di Pietro di Corbiacco in lode di nostra Donna Cod. Vat. 3204.
a car. 137.
Dompna Verges pura, e fina

Anz
que fos l’ enfantamenz,
Et apres tot eissamenz,
De Vos trais
sa carn humana
Jesu Crist nostre Salvaire,
Si com ses
fractura faire
Vai, e ven rais que soleilla
Per la venestra
verina.
Donna Vergine pura, e fina
Anzi che fosse il
concepimento,
Ed appresso pur similmente,
Da Voi trasse sua
Carne umana
Gesù Cristo nostro Salvatore,
Sì come senza far
frattura
Va, e viene il raggio, che illumina,
Per la finestra
invetriata.


E
escalvar per escalfar in questo passo di Amerigo di Pingulano del
medesimo Cod. Vat. a car. 40.


Altressì
m’ pren, com fai lo jogador,

Q’
al comensar joga maestrament

A
petit joc, puois s’ escalva perdèn,

Que
l’ fai montar tan, qu’ es en la follor.

Così
m’ avvien com fa lo giucatore,
Che giuoca al cominciar
maestrevolmente,

Piccol
giuoco; e in perdendo poi si scalda,

Che’
l fa montar sì, che è una follia.
E così navrar per nafrar,
onde Tosc. naverare, Franz. navrer; ed altre simili.

Nel
nostro Linguaggio riceve ugualmente dopo di se, e nella stessa
sillaba le consonanti L, e R, come flassada (coperta da letto)
flaúta, e flauta (flauto) fresc, frescura. Avanti di se consente
pure la L, N, R, S, in mezzo della dizione, e in diversa sillaba,
come Alferis (Alfiere) alforja (bisaccia) inflar (gonfiare) forfar
(forfare) desfar, e desfer (disfare) E si raddoppia dove occorre,
come affermar, afficionat, effecte.



G.


G.
Lettera compagna del C, la quale, anch’ ella, ha due suoni diversi,
perchè posta avanti all’ A, O, U, ha il suono più rotondo. come
Gallo, Gota, Gusto; e avanti all’ E, ed I, ha il suono più sottile,
o aspirato: come Gente, Giro; onde per necessità di proprio
carattere, per servircene nel primo suono colla E, e coll’ I,
pogniamo dopo la H: come Gherone, Ghiro. Questo Gh, quando ne seguita
l’ I, ha anch’ egli due suoni, l’ uno più rotondo, e grosso: come
Ghirlanda, Vegghi dal verbo Vedere; l’ altro più sottile, e
schiacciato, il quale, per lo più, avviene, quando all’ I segue un’
altra vocale, come Ghianda, Ghiera, Vegghia:
e a cotali suoni,
per isfuggire errore, sarebbe di bisogno proprio carattere a
ciascheduno. Delle consonanti riceve dopo di se, nella stessa sillaba
la L, N, R; come Negletto, Gloria, Egli, Regno, Sogno, Disegnare,
Ingrato, Gretola; bene è vero, che dopo la L, dove non seguita l’ I,
per esser suono, per sua durezza sfuggito da questa lingua, si truova
di rado. Quando alla L, col G avanti seguita l’ I, in tal caso ha due
suoni, l’ uno più rotondo, e grosso: come Negligente, il quale non è
molto ricevuto da noi; l’ altro più sottile, e schiacciato: come
Giglio, Foglio, e questo è nostro proprio. Aggiunto, come s’ è
detto, il G alla L, e N, gran parte ne perde del suo suono, come
Aglio, Ragna. Consente avanti di se la L, N, R, S, nel mezzo della
parola, e in diversa sillaba: come Volgo, Vanga, Verga, Disgregare,
benchè la S si truovi in mezzo di rado, e per lo più in
composizione, colla preposizione Dis. Ma nel principio di parola, più
frequentemente: come Sgarare; e si pronunzia sempre la S avanti al G,
nel secondo modo, cioè nel suono più rimesso, come nella voce
Accusa. Raddoppiasi questa lettera nelle nostre voci molto spesso:
come Poggio, Oggi, ec.

Pure
nel nostro Linguaggio ha ella due suoni diversi, poichè posta avanti
alle vocali A, O, U, ha il suono muto, o rotondo, o come altri dice,
aspro, come gall, gota, gust; e avanti all’ E, ed I, l’ ha chiaro, e
dolce, come gent, giro: onde per necessità di proprio carattere, per
servircene nel primo suono colla E, e coll’ I, pogniamo dopo, la U
vocale, come nelle voci guerra, guirlanda, le quali si pronunziano,
cioè la prima, come se fosse scritta in Toscano gherra, e l’ altra
del modo, che la scrivono, e la pronunziano gli stessi Toscani, cioè
ghirlanda; imperciocchè le nostre sillabe gue, gui, corrispondono
per l’ appunto, nel valore, e suono delle Toscane ghe, ghi. Posta in
fine di parola dopo delle vocali E, I, U, o del T, ha doppio suono,
cioè parte aspro, e parte soave, come goig, e gaug (gioja, e anche
gaggia) desig, e desitg (desio) ensaig, e ensatg (assaggio) le quali
parole si pronunziano, come se fossero scritte gotx, desitx, ensatx.

Delle
consonanti riceve dopo di se nella stessa sillaba, quelle medesime,
che in Toscano, cioè la L, N, R, come negligent, gloria, gnau (voce
della gatta) gnerro (nome di fazione) ingrat. E aggiunta alla N, gran
parte le fa perdere del suo suono, di che vedi nella lettera N. Il
nostro gl però, sempre ritiene il medesimo suono, che nelle suddette
voci gloria, negligent: Bene è vero, che abbiamo pure il suono
schiacciato del Toscano gl, ma questo suono il facciamo colle due ll,
per esempio, all (aglio, lat. allium) che si pronunzia come in
Toscano il segnacaso articolato agl’, di che vedi nella lettera L.

Ammette
avanti di se nel mezzo della parola, e in diversa sillaba la L, N, R,
S, T, come vulgo, angel, verga, esglay (spavento) desgregar, coratge
(coraggio) e talora anche in una medesima sillaba, particolarmente la
R, e il T, come borg (borgo) ensatg; il che però addiviene di rado,
e per lo più in qualche monosillabo solamente. Non si raddoppia mai
se non in qualche voce, dove stia posta in vece del C, come in
giugglar per giucglar (giullaro) usando noi, in cambio del doppio G,
il tg; di maniera che, dello stesso modo pronunziamo la suddetta
parola coratge come se in Toscano fosse scritta coragge; adoperando i
Toscani, nello scrivere, quel primo g in vece del t, per ragione, che
nella favella loro non si comportano accanto due mute diverse, come
osservò il Buommattei Tratt. 4. cap. 4., 6., e 10.
L’ j lungo ha
lo stesso suono presso noi, che il G chiaro, e soave, come diremo
alla lettera I; onde per più vaghezza della scrittura, e della
stampa, usiamo scambievolmente coratge, e coratje; gatge, e gatje, e
simili.


H.


H.
Non ha appo i Toscani suono veruno particolare, ma se ne servono per
difetto di caratteri, ponendola dopo il C, e G, quando accoppiati
colle lettere E, ed I, vogliono esprimere lo stesso suono, quale si
pronunzierebbe coll’ A, O, U: come Chino, Cheto: Gherone, Ghiro.
Ha
servito questo carattere per tor vi a qualche equivoco, come per
distinguere Hanno verbo, da Anno nome, ed Ho, Hai, Ha verbi, da Ai
articolo, affisso al segno del terzo caso, ed A preposizione, ed O
particella separativa, o avverbiale. Così abbiamo usato anche noi in
questo Vocabolario; non condannando perciò anche gli usi diversi.


anche in Provenzale ha egli suono veruno, servendo solamente, o per
tor via qualche equivoco, come per distinguere Ha verbo, da A
preposizione; o per far mutare di suono la L, come Marselha
(Marsiglia, Città della Provenza) malh (maglio) alh (aglio) e
simili, ove la h altro non denota, se non, che la l si debbe
profferire come il Gl schiacciato de’ Toscani, conforme si dirà
appresso nella lettera L; o pure per far perdere il suono naturale
dell’ N, come senhor, vergonha, di che vedi alla N: la quale
ortografia usa ancora il Portoghese, che scrive baralhar
(bisticciare) apparelhar, trabalhar, talhar, orelha, ovelha (pecora)
abelha (ape, pecchia) apparelho, parelha, olh, ec. e così
acompanhar, banhar, envergonhar, ec. voci tutte proprie del nostro
Provenzale, dal quale, molte eziandio quello Idioma ne tolse, come
sono, fra l’ altre, oltre alle suddette, abonançar, aturar, cuberta,
força, lebre, enveja, envejar (pronunz. envégia, envegiar) mestre,
nu (L. nudus) pardal (L. passer) pedrada (sassata) pedragal
(petricato L. saxetum) Trovador (Poeta) trovar (poetare) viga (trave)
vinagre (vinagro, aceto) volataria (volatío, uccellame) voltar,
volta, e cento più. Del restante parmi, che questo carattere si
doverà cacciare dalle altre voci, per inutile, e del tutto
superfluo, siccome respettivamente anno fatto gl’ Italiani, e i
Franzesi; e scrivere rustic, amic, umil, om ec., e non più rustich
ec.

In
Provenzale il chiamiamo Ach, o Ac, onde poi è stato detto dagl’
Italiani, Acca, come accenna Pascasio Grosippo, o vogliamo dire
Gasparo Scioppio nella sua Gramatica Filosofica a c. 194. della
edizione di Amsterdamo del 1664. così: Ex istis primum dicimus nomen
H literae, fuisse HA, ut à Germanis pronuntiatur; non ACCA Italorum,
neque ACHE Hispanorum; quod illi perinde pronuntiant, ac si Hetruscè
acie, Germanicè aische, Gallicè hache scriptum foret. Nimirum ex
ha, primum factum fuerat ah; quod alii pronuntiarunt ut ach, sicut ex
michi fecerunt mihi. Inde porrò natum est Italicum accha, vel acca.
Undè postea Hispani, & Galli plus etiam literae appellationem
corruperunt.


I.


I.
Lettera vocale, amica dell’ E, prendendosi spesso l’ una per l’
altra, scambievolmente, come Disio, e Desio: Offerire, e Offerere;
Stia, e Stea. S. I. Quando è posta in alcuna voce di qualsivoglia
maniera si sia avanti un’ altra vocale, si prendono quasi sempre
quelle due vocali appo i Toscani, per dittongo, e si pronunziano in
una sillaba sola; come Piano, Fiele, Pioggia, Fiume, la qual
proprietà ottiene ancora l’ U vocale. Pronunziasi nondimeno, alle
volte, per due sillabe, ma avviene più di rado: come Sviato, Fiata,
Chiunque. S. I. Nel nostro idioma, vaghissimo della dolcezza, si
aggiugne frequentemente per isfuggir l’ asprezza della pronunzia, a
tutte le voci comincianti da S, colla consonante appresso, e allora
massimamente, quando la parola antecedente termina in consonante:
come Per ischerzo, Con ispirito.

Lo
stesso scambiamento si truova in Provenzale, come gitar, e getar;
mantinent, e mantenent; lial, e leal. Anzi per la stretta amistà,
che ha coll’ E, vuole accompagnarla in più voci, ponendosele
accanto, benchè non sia d’ uopo, trovandosi ugualmente scritto Pere,
e Peire; destrer, e destrier; cavaler, e cavalier; dret, e dreit;
estret, e estreit; manera, e maniera, e maneira; frontera, frontiera,
e fronteira ec. nelle quali voci, ed altre somiglianti, tutte e due
queste vocali si pronunziano con un solo spingimento di fiato,
facendo dittongo. E quindi è, che i Toscani ad imitazione di nostri
antichi l’ anno aggiunta in più voci, usandosi scambievolmente
panzerone, e panzierone; panzeruola, e panzieruola; parete, e
pariete; prego, e priego; alteramente, e altieramente; altero, e
altiero; beltà, e bieltà; breve, e brieve; brevemente, e
brievemente; brevità, e brievità; concordevolmente, e
concordievolmente; corriere, e corrére; tregua, e triegua ec. Ne’
MSS. del buon secolo de’ medesimi Toscani si truova progienia,
giente, giennaio, ciercare, cienato, diciea, pacie, piacica, ed altre
simili, in vece di progenia, gente, gennajo, cercare, cenato, dicea,
pace, piacea. I, posto avanti l’ A non fa mai dittongo nella Lingua
Provenzale; così solía, avía, diría, sono sempre presso noi
Catalani di tre sillabe.

I
nostri Vecchi l’ adoperarono non solo in vece del G chiaro, facendo
allora la figura di consonante, come coratie, gatie, liie (ligio,
vassallo)

che
così ancora a imitazione de’ nostri l’ usarono i Toscani, come in
ariento per argento, arientato per argentato; ma eziandio del muto, o
rotondo, come in oian, iai, espiia, enianar, preiar, e somiglianti,
in vece di ogan (uguanno) gai (gajo) espiga, enganar, pregar: il che
su accennato dal dottissimo Crescimbeni nella Annot. IX. della Vita
di Rambaldo d’ Oranges. Oggi noi Catalani con più chiara, e distinta
ortografia l’ usiamo solamente nel primo modo, cioè in cambio del G.
chiaro; e per questo uso abbiamo introdotto l’ j lungo, per
contrassegno, che allora è consonante, come coratje, gatje. E così
ancora anno fatto dopo di noi i Toscani, scrivendo Gennajo, gajo ec.
benchè sia presso loro di suono tenue (salvo, quando è posto nel
fine di dizione, come esempj, varj ec. dove vale per due ii,
pronunziandosi

però
esempi, vari ec.) cioè, come il nostro suono dell’ y greco posto tra

due
vocali; in guisa che, dello stesso modo pronunziano Gennajo, come se
da noi fosse scritto Gennayo; il quale y greco, chiamato alla Greca
ipsilon, e Toscanamente Fio, fu usato dagli Scrittori Toscani del
buon secolo in vece dell’ i, come si vede, fra gli altri MSS., nel
Villani dell’ Abate Anton Maria Salvini. Intorno all’ aggiugnere la I
alle voci comincianti da S, colla consonante appresso, vedi quel che
abbiamo notato al B. Questa lettera fu dagli antichi Toscani
adoperata alla Provenzale, in vece delle particelle Ivi, Quivi, Ci,
Vi. L. ibi, illic. Franc. Barb. 265.
Et una scritta i metti
Con
tuoi pietosi detti.

e
car. 302.

Guarda
dal Calzolaro,

Ch’
è ricco, e troppo avaro:

E
da lo Spetiale,

Che
del vender no i cale.

e
345.

Altri
son certe volte,

Che
in otto giorni a la donna diranno,

Che
merito vorranno,

Non
sanno quel che merito è a dire;

Che
inanzi i va servire.

Guido
Guinicelli.

Poi
che n’ ha tratto fuore

Per
la sua forza il Sol ciò che gli è vile,

La
stella i da valore.

Cecco
Angiulieri.

Chi
d’ Amor sente, di mal far no i cale. e altrove, nella Raccolta de’
Poeti Antichi di Monsig. Leone Allacci f. 201.
Che s’ io volesse
y scender non potrei.
Il che fu osservato dall’ Ubaldini Tav.
Docum. Amor. Barber. così:

«I,
per Ivi, riguarda il luogo; alla Provenzale; Sordello:
Ben deu
esser bagordada

Cortz
de gran baron:

E
i deu hom faire gran don,
E qe i sia gens honrada.

E
dopo di lui dal sopraccitato Crescimbeni nella sua Storia della
Chiesa di S. Giovanni avanti Porta Latina, lib. I. cap. 3. dove
spiega alcune voci oscure sparse per entro una certa leggenda del
Santo, scritta da un’ Anonimo Sanese nel secolo XIV., in questa
guisa: “Ine, cioè ivi, dissero i Sanesi antichi; e stimiamo, che
sia un’ accorciamento di line, cioè lì, coll’ accrescimento della
ne menzionata di sopra alla voce ane: trovando noi i per ivi ben due
volte in Francesco da Barberino Doc.
d’ Amore pag. 265., e 345.
Et una scritta i metti: Che inanzi i va servire. E questa maniera è
Provenzale: Sordello:”

E
qe i sia gens honrada.

E
finalmente dal Gigli, nel suo Apparato Op. S. Cat. a c. 107. in
questo modo:

Alcuno
si dava a credere, che la voce ine venisse dal latino in eo loco: Ma
in verità è una voce sorella del line per lì, quine per quì,
quane per quà, e simili, di cui è pieno Dante; e la Santa alla
lett. 225. n. 6. pose none per nò, alla 270. n. 2. ane per ha: non
essendo altro quella terminazione in e, o, ne, che un posamento, che
vuol fare la nostra Pronunzia in quella vocale, e non tagliarsi la
lingua nelle monosillabe accentuate lì, quì, nò &c. E se altri
replicasse, che l’ avverbio ivi non avea bisogno di questo posamento,
sappiasi, che di que’ più antichi tempi dicevasi i. Vedilo in
Francesco da Barberino Docum. 9. fogl. 265.”
Et una scritta i
metti
Con tuoi pietosi detti.

Ed
i Toscani lo presero senz’ altro da’ Provenzali, come può vedersi
fra le Poesie di que’ Poeti raccolte dal Crescimbeni alle Rime di
Blancassetto fogl. 239.

Bem’
plaz lo gai temps de paschor,

Qe
fai foillas è flors venir;

E
plaz me quant auz la bauzor

Dels
ausels qe fan i retentir

Lor
cant.


Ben
di pastura il gajo tempo piacemi,

Che
fa foglie, e fior venire;

E
piacemi quand’ odo la baldoria

Degli
augei, che fann’ ivi risonare

Loro
canto.

Ed
un’ altro esempio vi se ne legge a fogl. 144. nelle Rime di Guglielmo
degli Almaricchi, o Amerighi. Agli esempli Provenzali suddetti
aggiungo di passaggio i seguenti. Ans. Faid. Canz. C. V. 4. 24. t. 2.

Domna
l’ afanz el’ cossir m’ es tan bo,
Com plus i pens e mais i voill
pensar.
Donna, il pensier, e affanno sì mi piace,
Che più
ci penso più ci vò pensare.
E appresso:

Per vos servir fui noiritz,

Si
que totz jorns per usatge

I
tenc los oills, e l’ coratge.

Per
servirvi fui allevato,

Si
che tutto giorno, per usaggio,

Ci
tengo gli (a) ogli, e ‘l coraggio.

Mon.
Montau. C. V. 4. 123. I.

De
Tolsan, ni de Carcassès

Nom’
plaing tan fort, ni d’ Albigès,

Com
d’ altres faz;

En
Catalongna ai totz mos bes
,

Ei soi amatz.

De
i Carcassonesi, e Tolosani,

E
Albigesi, sì forte non mi lagno

Come
degli altri faccio:

In
Catalogna ho tutto il mio bene,

Ed
ivi sono amato.


(a)
Ogli per occhi dissero alla Provenzale gli antichi Rimatori Toscani,
e fra gli altri Cino da Pistoja, Guido Cavalcanti, e Jacopo da
Lentino, come si vederà nel terzo Volume.

L.


L.
Lettera, la quale ammette, dopo di se, ne’ mezzi delle parole, e in

diversa
sillaba tutte le consonanti, dalla N, R, in poi: come Alba, Falcone,
Falda, Volgo, Salma, Alpe, Polso, Salto, Selva, Calza. E in tutti
questi luoghi, i Toscani, nel pronunziarla le fanno, per più
dolcezza, perdere alquanto di suono. Avanti di se, nel mezzo delle
dizioni riceve il B, C, F, G, P, R, S, T: come Obbligo, Concludere,
Conflitto, Ciglio, Esemplo, Parlamento, Slungare, Atleta; il che
sempre fa nella stessa sillaba, salvo, che colla R, colla quale s’
accoppia in sillaba diversa: come Orlato; ma di rado si trova, appo
la nostra lingua, dopo la B, C, F, T, come suono, assai, per sua
durezza, fuggito. Dopo la G, poco è in uso, se però non seguita l’
I: come Giglio, il quale gli fa fare suono più schiacciato, e
sottile, come si dice nella lettera G. Di rado si truova dopo la S, e
anche in principio di parola: come Slegare; ovvero ne’ verbi
composti, colla preposizione Dis, o Mis: come Disleale, Misleale.
Accoppiata, col T avanti, non è suono di questa lingua, ma solo si
usa per le voci forestiere, non divenute ancor nostre affatto: come
Atlante, Atleta. Con tutte queste lettere avanti, perde alquanto di
suono, salvo, che colla R, e colla S, le quali gliele lasciano
mantenere intero. Pronunziasi la S, avanti alla E, nel secondo modo,
cioè con suono sottile, o rimesso, quale è nella voce Musa, come si
dice nella lettera S. Raddoppiasi, dove è necessario ne’ mezzi della
parola: come Anello, Coltello.

Pur
similmente nel nostro Linguaggio ammette dopo di se le medesime
consonanti, che in Toscano, come alba, falcon, e falcò; falda,
vulgo, salmejar (recitar i Salmi) felpa, polsar, saltar, selva,
calza, e calça.
E talora in una medesima sillaba, il che però
solamente addiviene in alcuni monosillabi, come salm, pols, salt. E
così ancora avanti di se nel mezzo della parola, e per lo più nella
stessa sillaba, riceve il B, C, F, G, P, R, S, T; come oblidar,
concloure, conflicte, singlot, exemple, parlament, desleal, ratlla.
Si raddoppia dove fa mestiere: come palla (paglia) medalla (medaglia)
ull, e oill (occhio), e sempre, che è doppio perde il suo propio
suono, e si profferisce, come il Gl schiacciato de’ Toscani, fuorchè
in alcune voci prette Latine, come illustre, illustrar; onde le
nostre sillabe lla, lle, lli, llo, llu; o pure, lha, lhe, lhi, lho,
lhu, che è tutt’ uno, come abbiamo accennato nell’ H, rendono lo
stesso suono, che le Italiane glia, glie, gli ec. la quale ortografia
usarono eziandio gli antichi Toscani, come osservò l’ Ubaldini nella
Tavola al Barberino alla voce Involle, con queste parole: “Era
nulla di meno cosa ordinaria, che la l prima, quando sono queste
lettere raddoppiate si pronunziasse per g in molte voci, il che si
conosce da’ MSS. antichi, e da’ libri anticamente stampati; e ce ne
danno indizio la lingua Franzese, e la Spagnuola, che sin oggi così
scrivono, e pronunziano.”
E l’ Autore delle Osservazioni sopra
alcune voci delle lettere del Beato Don Giovanni dalle Celle Monaco
Vallombrosano, stampate in Firenze nel 1720., a c. 75., così: “I
nostri antichi scrissero molte volte con due LL, in cambio di Gl,
così nel Volgarizzamento di Livio, che fu scritto nel 1326., in un
Dante della Medicea Laurenziana, nel Salustio Catilinario, ed in
altri Testi a penna, si trova scritto mallia, per maglia; battallia,
per battaglia; velliardo, per vegliardo, ed altre simili in gran
numero.”
I nostri non la raddoppiavano mai in principio di
parola, e scriveano lob, o lop, letra, ec. oggi facciamo tutto ‘l
contrario, e diciamo llop, lletra, ec. e così ancora nel fine di
molte parole, come anell, cortell, che gli antichi dissero, e
scrissero anel, cortel.

Ha
parentela coll’ R, usandosi in molte voci l’ una, e l’ altra
indifferentemente, come rossignol, e rossignor; coltel, e cortel;
valvasor, e varvasor; Blancaflor, e Brancaflor (Biancafiore) Porfili,
e Porfiri (Porfirio) albre, e arbre; malgarita, e margarita, siccome
si vedono scritte ne’ Codici Vaticani delle Rime Provenzali, ed in
altri:
E così pure in Toscano, benchè il Vocabolario non ne
faccia menzione, come albore, e arbore; albitrare, e arbitrare;
albitrio, e arbitrio; albuscello, e arbuscello; scilocco, e scirocco;
colcare, e corcare; e fra gli scrittori più antichi, esemplo, e
esempro; oblianza, e obrianza, ed altre, come osservò appieno il
Salviati ne’ suoi Avvertimenti, volum. I. lib. 3. cap. 3. partic. 19.

M.

M. Lettera, sorella della N, prendendosi in cambio di essa, seguitandone B, o P,  per miglior pronunzia: come Empio. Consente similmente in mezzo di parola innanzi di se, e in diversa sillaba la L, R, S: come Alma, Orma, Risma, quantunque la S si trovi di rado in mezzo della parola, e farà per lo più ne’ verbi composti colla preposizione Dis: come Dismettere; ma nel principio è più frequente: come smania, smarrito. Profferiscesi la S, innanzi alla M, nel secondo modo, cioè con sottil suono, e rimesso, come nella voce Rosa, conforme a quello, che si dice nella lettera S. Raddoppiasi nel mezzo della parola, quando egli

occorre: come Femmina, Mamma, ec.

Pur similmente nel nostro Provenzale si prende in cambio della N, seguitandone B, o P, come embellir (imbellire) emborsar (imborsare) embaxada (imbasciata) empobrir (impoverire) empeguntar (impegolare). Consente parimente in mezzo della dizione, avanti di se, e in diversa sillaba, la L, R, S; come almoyna (limosina) almugaver (mugavero) formiga, formatge, esmorsar (far colezione, e la colezione stessa) Si raddoppia, dove è necessario, come semmana (settimana) emmalaltir (ammalare).



N.


N. Lettera di suono simile alla M, la quale si raddoppia, come l’ altre consonanti, dove è mestiere: come Panno, Cenno. Posta dopo la G perde una gran parte del suo suono, e quasi un’ altra lettera ne diventa, e ciò addivien sempre nel mezzo della parola, e nella sillaba stessa: come Agnello. Può forse talora avvenir ciò, in principio di parola, ma molto di rado, e forse una volta, o due solamente: come Gnaffe, Gnau. Riceve dopo di se delle consonanti il C, D, F, G, S, T, U, Z, nel mezzo della parola, ma in diversa sillaba, e mantiene lo ‘ntero suono, come Banco, Banda, Enfiato, Vangelo, Mensa, Vento, Convito, Stanza. Ammette avanti di se in mezzo della parola, e in diversa sillaba la R, S: come Arnie, Disnebbiare, quantunque la S non si trovi mai in mezzo di parola, se non ne verbi composti colla preposizione Dis, ma nel principio più spesso: come Snodare. E sempre si pronunzia la S, come avanti la N, nel suono più sottile, quale nella voce Accusa, come si dice nella lettera S. Nel nostro Idioma parimente si raddoppia, quando bisogna, come conna, cioè cotenna; ennegrir (annerire) ennoblir (nobilitare). E posta dopo la G fa lo stesso effetto, che in Toscano, come Agnel, Agnello; il che similmente addivien sempre nel mezzo del vocabolo, e nella medesima sillaba, fuorchè in Gnau, voce della Gatta, e in Gnerro, nome di fazione, che propriamente vale porcell (porcello) il qual nome, per dir ciò di passaggio, molto strepitoso fu in Catalogna negli andati secoli, per ragione delle due fazioni appellate dels Gnerros, e Cadells, cioè de’ Porcelli, e de’ Cagnuoli: onde Vincenzio Garzia, nel suo Disinganno del Mondo Stanz. 66.

Quant lo Evangeli cantavan 

En la Iglesia antigament,

Los Nobles encontinent

La espasa desembaynavan:

Y ab asso significavan,

Que tenian aparell

De morir, peleant per Ell: 

Mes ja aquella gallardia

Tota sen va vuy en dia

En ser Gnerro, ò ser Cadell. 

cioè:

Quando il Vangelo si cantava

In Chiesa, anticamente,

I Nobili incontinente,

Sfoderavano la spada: 

E così significavano,

Che erano apparecchiati

A morir battagliando per esso: 

Ma già quella gagliardia

Tutta se ne va oggigiorno

In esser Porcello, o esser Cagnuolo. 

E forse alludendo alle medesime fazioni, disse Fazio degli Uberti nel suo Dittamondo.

Ben vò che ponga a quel, ch’ or dico, cura;

Solo per un Cagnuol, ch’ è una beffe,

Si mosse guerra, e sdegno, ch’ ancor dura.

Ma ritornando al nostro proposito, egli è ben vero, che noi Catalani, per farle perdere il suono naturale, ci prevalemo del Fio, in cambio del G, mettendolo dopo, di modo che, in vece di scrivere, verbigrazia Espagna, Catalugna ec. scriviamo Espanya, Catalunya, eccettuatene le suddette voci Gnau, e Gnerro: onde appresso noi le sillabe nya, nye, nyi, nyo, nyu, rendono lo stesso suono, che gna, gne, gni, gno, gnu. Ne’ Codici Provenzali della Vaticana, ed in altri libri antichi ho osservato, che anche la H faceva lo stesso sopraccennato offizio del G, scrivendo nha, nhe, nhi, ec. in cambio di gna, gne, gni, come per esempio vergonha, entresenha, senher, companhia, senhor, e simili, per vergogna, entresegna, segner, compagnia, segnor. E così usa ancora il Portughese, che scrive banhar, envergonhar ec., come abbiamo toccato di sopra all’ H. La lingua Castigliana adopera per questo fine, il segno, o titolo sopra la n così, ña, ñe, ñi ec. come España, Cataluña, Señor, Nuñez.

Dopo di se riceve in Provenzale, nel mezzo della parola, e in diversa sillaba tutte le consonanti, che in Toscano, come banca, banda, inflat (gonfiato, enfiato) evangeli, mensonha, e mensogna, e mensonya; convent, convit, estanza; e anche talora in una stessa sillaba, il che però solo addiviene nelle monosillabe, come banc, vent, guant ec. Ammette in oltre la R in diversa sillaba, come nelle voci onrar, onrat, onranza; ma il P lo rifiuta sempre sì in Provenzale, che in Toscano, non ostante di ritrovarsi in un Leggendario di alcune Vite di Santi, MSS. della Libreria Chigi, Inperatore, tenpo, tenpestoso; e in un Codice intitolato Libro d’ Amore, ch’ è in podere del Dottore Niccolò Bargiacchi da Fiorenza, Chanpagna per Campagna, o Ciampagna: Onde il Gigli nel suo Apparato all’ Opere di Santa Caterina da Siena, fogl.138., dimostrava credere, che tale ortografia di scrivere tenpo, tenpestoso, e simili, fosse venuta dal Provenzale.

Avanti di se ammette la R, in mezzo della parola, sì in una medesima sillaba, che in diversa, come carn, arna (tarlo) arnès (arnese). Ammette pure avanti di se la S, ma solamente in diversa sillaba, come desnuar (snodare) e non mai in principio di parola per fuggire l’ asprezza, che ne renderebbe, come è stato detto alla lettera B: onde appresso i Poeti Provenzali non si truova scritto snel per isnel, cioè sello, e isnello; ma sempre coll’ i, componendo sillaba coll’ s, compitando così: is-nel.

Gli antichi nostri frodavano sovente questo carattere, o il suo segno, o titolo, col quale si suol supplire per esso, e scrivevano verbigrazia ses per sens, o ses (e con virgulilla, sens) (senza) us per us (u con virgulilla, uns) (uno) bes per bes (e con virgulilla, bens) (beni) come si vede ne’ Codici Provenzali, e respettivamente ancora ne’ Codici Toscani, come nella voce cocordia per concordia, osservata da’ Deputati del 73. nelle loro dottissime Annotazioni, sopra la correzione del Decamerone, a car. 94. Fosse ciò poi, o per vezzo proprio de’ copiatori, o per dimenticanza di far quel segno, o per uso, o abuso, che si abbia a dire di quei tempi, sarebbe ora un voler indovinare. Egli è però ben vero, per non lasciar cosa, che da considerar sia, che si vede questa lettera frodata, o lasciata tal volta a bello studio, per esempio cascus per cascuns nel seguente passo d’ un Documento di Arn. Marav. Cod. Vat. 3204. 35. 1. 

Razos es, e mesura 

Mentr’ om el segle dura, 

Qe aprenda cascus 

De cels qui sabon plus. 

Ragion è, e misura 

Mentr’ uom nel mondo vive, 

Che ciascuno appari 

Da coloro, che sanno più. 

così pesa per pensa in quest’ altro, di Piet. Card. nel citato Cod. a car. 149. terg. colonn. 1.



E que vos en par

De ric hom quant pesa 

En gran tort a far, 

Et en pauca despesa, 

Et en petit donar,

E de tolre non sessa.

E che ve ne pare

Di ricco uomo, quando pensa

In fare gran torto,

E in poca spesa,

E in piccolo donare, 

E di togliere non cessa. 

Ed in oltre, che molti nomi si adoperano bene, ora coll’ N, e ora senza, come lasciò avvertito Ramondo Vitale nella sua Arte della Poesia Provenzale, Testo a penna della Libreria Laurenziana, colle seguenti parole: Per aver mais d’ entendemen vos vuoil dir, qe paraulas i a don hom pot far doas rimas, com leal, talen, vilan, canson, fin, qe pot hom ben dir si vol, liau, talau, vilà, cansò, fi; aisi trobam qe o an menat li trobador; mas los primiers, so es leal, talen &c. son li plus dreg, cioè: Per aver più di cognizione, vi voglio dire, che vi sono delle parole, delle quali si possono far due rime, come leal (liale) talen (talento) vilan (villano) cansò (canzone) fin (fine) che uom può ben dire, se vuole, liau, talan, vilà, cansò, fi: così troviamo, che anno fatto i Poeti; ma i primi, cioè leal, talent (talen, sin t) &c. sono più dritti, o più acconci. Il che non fu osservato dal Crescimbeni nel raccorre, ch’ ei fece i Codici delle Rime de’ medesimi Trovatori; posciacchè altrimenti non avrebbe detto all’ Annotazione II. della Vita di Ramondo Giordano, che il Tassoni Consid. Petr. cart. 19. lo chiama Raimondo Jorda (leggi Jordà) forse perchè nel testo, ch’ ei vide, mancava la tilde, o segno della N, sopra l’ ultima sillaba, cioè Jordá. Onde il dottissimo Anton Maria Salvini ne’ suoi Discorsi Accademici part. 2. fogl. 419.: “Da tene adunque, in Provenzale ten, e senza l’ ultima n, la quale in moltissime loro voci lasciavano, te si è fatto, te, che non togli, propriamente, ma tieni significa.” E quindi è, che ancora i Toscani usano moltissimi nomi, ora colla N, e ora senza, come angonia, e agonia; conscienza, e coscienza; instanza, e istanza ec. come si vede nel Vocabolario.

All’ incontro poi i medesimi antichi la mettevano, dove non faceva mestiere, e scriveano sengnor, per segnor; congnat, per cognat; vingna, per vigna, e simiglianti il che si vide ancora presso i Toscani, e fra gli altri in Buonaccorso Pitti nella sua Cronica. La scambiavano poi in alcune voci, coll’ Erre, come morgía per mongía (monacato, monachía) morge per monge (monaco) canorgia per canongia (canonicato) mersonga per mensonga (menzogna). Anche i Toscani, come disorrare, per disonrare; orranza per onranza; orrato per onrato.


O.


O. Lettera vocale, che ha gran parentela coll’ U, usandosi in molte voci medesime, l’ una, come l’ altra, dicendosi Sorge, e Surge, Coltivare, e Cultivare, Agricoltura, e Agricultura; Fosse, e Fusse. Ha appo di noi due diversi suoni, siccome l’ E: l’ uno più aperto, come Botta, l’ altro

più chiuso, e più frequentato in questo linguaggio, siccome Botte: onde, per fuggir la mala pronunzia, sarebbon necessari due distinti caratteri, quantunque detta diversità di suono, appo i Poeti non impedisca la Rima. Petr. Canzon. 8. E l’ accorte parole, Rade nel Mondo, o sole. Dove nella penultima sillaba di Parole, l’ O si pronunzia aperto, e in quella di Sole chiuso.

La medesima affinità, che ha in Toscano coll’ U vocale, ha nel nostro Provenzale; usandosi indifferentemente coltivar, e cultivar; agricoltor, agricultor; orinar, e urinar; obrir, e ubrir; sofrir, e sufrir, ed altre simili, che si potranno osservare ne’ passi degli antichi Scrittori Provenzali dell’ età d’ oro. E così ancora appo di noi ha gli stessi due suoni, che ha in Toscano, cioè l’ uno più aperto, o largo, come botas (stivali) e l’ altro più chiuso, o stretto, verbigrazia bota, cioè botte, il quale è viepiù frequente eziandio nel nostro linguaggio, siccome diffusamente insegna il Rimario Provenzale MS. della preziosa Libreria di S. Lorenzo.


P.


P. Lettera, assai simile al B, e all’ V consonante, colla quale molte voci si pronunziano scambievolmente: come Coperta, Coverta: Soprano, Sovrano. Consente dopo di se, delle consonanti, nella medesima sillaba, la L, e R, e ne perde alquanto di suono: come Placare, Applicazione, Prato, Ginepro; quantunque colla L più di rado si truovi. Nel mezzo della parola, ma in diversa sillaba, ammette avanti di se la L, M, R, S: come Alpe, Tempo, Corpo, Aspido; benchè la S gli si ponga avanti ancora nel principio di dizione: come Spada, Spinta. La S avanti al P, si profferisce nel modo più comune, cioè col suono più intenso, quale è nella voce Casa, di che vedi nella lettera S.

Per ragione della somiglianza, che il P, nel pronunziarsi, ha col B, si  trovano ne’ Codici antichi scritte molte voci indifferentemente coll’ una, e coll’ altra di queste lettere, sì in Provenzale, che in Toscano, di che vedi nel B.

Delle consonanti ammette pure nel Provenzale, dopo di se, e in una medesima sillaba la L, e R, perdendo alquanto di suono, come placar, aplicaciò, prat, prec ec.

Nel mezzo della parola, ma in diversa sillaba consente eziandio avanti  di se le suddette lettere L, M, R, S, come culpar, colpejar (colpeggiare) temporal, tempestat, despit (dispetto) corporal, senza comprendervi però alcune monosillabe, come asp (aspo) colp (colpo) corp (corvo) temps (tempo).

La S non se gli pone mai avanti nel principio di dizione, dicendo noi con più dolcezza, espasa, especieria, ec. e così estar, esquivar, ec. e non star, ec. come osservò il Cardinal Bembo nelle sue Prose, e si è dimostrato nella suddetta lettera B.


Q.

Q. Lettera, appo i Toscani non serve, se non per C, quando è posta con una vocale appresso, davanti all’ U, perchè lo stesso è dir Quocere, che Cuocere: Quojo, che Cuojo; ma però non è inutile affatto, potendo servire, per qualche contrassegno, siccome la H. Onde seguitando l’ uso già introdotto, posiamo usarla in luogo del C, quando, colla vocale appresso, anteposta all’ U, il tutto si debbe profferir per dittongo, cioè in una sillaba sola: come Acqua, Questo, Quattro. All’ incontro adoperare il C, quando all’ U seguendone altra vocale, s’ ha da pronunziar per due sillabe: come Cui pronome di due sillabe, a differenza di Quì avverbio d’ una sillaba sola: Taccuino di quattro sillabe, e non Tacquino di tre: Essendo la stessa, che C, ottiene anche le stesse proprietà, salvo, che dovendosi raddoppiare, il C gli si pone avanti, in sua vece: come Acqua, Acquisto.

Sì in Provenzale, che in Toscano, ha il suono del C muto, o rotondo; onde ne’ Codici MSS. delle Rime Provenzali si osservano scambievolmente scritte parecchie voci ora col C, e ora col Q, per esempio com, e qom; car, e qar; cor, e qor. Serve però talora, eziandio nel nostro Linguaggio, per qualche contrassegno, siccome l’ H; verbigrazia nella voce quina, che vale cinquina, dove si debbe adoperare sempre il Q, e non il C, a differenza di cuina, o cuyna, cioè cucina; imperciocchè in quina, la quale si pronunzia, come se fosse scritta in Italiano china, non si sente il suono dell’ u, essendo quel qu lo stesso, che in Toscano il ch; ma sì in cuina, la quale benchè sia pure di due sillabe, come quina, la prima di esse sillabe si profferisce per l’ appunto, come il pronome cui, che appo noi è monosillabo. Veggasi quel che abbiamo rinvergato nella lettera C.


R.


R. Lettera di suono aspro, e nelle voci, dove è raddoppiata, e frequentata, denota sempremai rigidezza. Consente dopo di se tutte le consonanti nel mezzo della parola, in diversa sillaba: come Garbo, Barca, Perdono, Forfora, Organo, Orlo, Arme, Ornare, Serpe, Tarquinio, Verso, Corte, Nervo, Sferza; e in tutti questi luoghi ritiene il suo intero suono. Ammette avanti di se nel principio, e nel mezzo della parola, e nella stessa sillaba, la B, C, D, F, G, P, T, V, e fa perder loro alquanto di suono: come Braccio, Ambra, Crusca, Increspato, Drago, Androne, Fragola, Refriggerio, Grato, Agro, Prato, Rappresaglia, Trave, Intrecciato, Cavretto, Sovrano; ma l’ V è quasi sempre in mezzo della parola. Nel principio della parola riceve ancora la S, come Sradicare, e la S si pronunzia nel suono più rimesso, quale nella voce Accusa, di che alla lettera S. Raddoppiasi nel mezzo della parola frequentemente, come Carro, ec.

Nel Provenzale consente eziandio dopo di se tutte le consonanti, il che addiviene sempre in diversa sillaba, fuorchè in alcuni pochi monosillabi, come garbell (crivello) barb (barbo) barca, perdonança, forfaitura (forfattura, furfanteria) orga, orla, arma, ornar, serpejar (serpeggiare) serp, arquejar (archeggiare) arquet (archetto) vers, versejar, cort, cortejar, nervi, guerxo, ec.

E così pure avanti di se ammette le medesime consonanti, che in Toscano, trattane la S, come brasa, bras, ambra, cresta, encrespat, dragò, e dragon, fragilitat, fresc, refrigeri, gratar, grat, agre, presa, prat, trav, treva, e tregua, ovrir: Ma l’ V è di rado, e solamente si troverà in qualche vocabolo, dove stia posto in vece del B, come nel suddetto ovrir, per obrir. Ha poi parentela colla L, sì in Toscano, che in Provenzale, benchè il Vocabolario non ne faccia menzione, di che vedi alla lettera L. Si raddoppia, dov’ è necessario, come carro, carretta, correr; e così raddoppiata si profferisce con più asprezza. 



S.


S. Lettera di suon vemente, come la R. Posta in composizione co’ suoi primitivi, ha forza molte volte di privativo: come Calzare, Scalzare: Montare, Smontare. Alle volte d’ accrescitivo: come Porco, Sporco: Munto, Smunto. Alle volte di frequentativo: come Battere, Sbattere. Alle volte non opera nulla, valendo lo stesso Campare, Scampare: Bandito, Sbandito: Beffare, Sbeffare. Appo di noi ha due vari suoni: il primo più gagliardo, e a noi più familiare: come Casa, Asse, Spirito. 

L’ altro più sottile, o rimesso, usato più di rado: come Sposa, Rosa, Accusa, Sdentato, Svenato. In questo secondo suono non si raddoppia giammai, nè anche si pone in principio della parola, se non quando, immediatamente ne segue una consonante: come Smeraldo, Sdentato, ec. Consente dopo di se, nel principio della parola, tutte le consonanti, salvo la Z. Nel mezzo della parola, e in diversa sillaba, riceve dopo di se le medesime consonanti, ma più malagevolmente, e per lo più in composizione, colla preposizione Dis, o Mis: come Disdetta, Misleale; ma col G, P, T, s’ accoppia frequentemente, senza difficoltà: come Tasca, Cespuglio, Presto. Quando è posta avanti al C, F, P, T, si dee pronunziare nel primo modo, cioè col suon più gagliardo: come Scala, Sforzo, Vespa, Studio, Cesto; ma avanti al B, D, G, L, M, N, R, V, si pronunzia col suono più sottile, o rimesso: come Sbarrare, Sdegno, Sguardo, Slegare, Smania, Snello, Sradicare, e Sventura. Avanti di se ammette la L, N, R, in mezzo della dizione, e in diversa sillaba: come Falso, Mensa, Orso. Raddoppiasi nel mezzo della parola, come l’ altre consonanti, dove lo ricerca il bisogno.

In Provenzale ha parimente due suoni, il primo più forte, e chiaro, simile al sigma greco, usato comunemente quando è posta tra una vocale, e una consonante, come consentiment, consiensia, aspi: e così pure quando è posta in principio di parola, come saber, segnor, o senyor. L’ altro più sottile, o rimesso, come il suono del zita de i Greci, il qual suono adoperiamo allorchè è situata fra due vocali, come casa, rosa. In questo secondo suono non si raddoppia giammai, imperciocchè essendo doppia, sempre si pronunzia gagliardamente in qualunque modo sia collocata, come possessiò, ove tutte le quattro ss sono di suono chiaro, e gagliardo.

Consente dopo di se tutte le consonanti, il che sempre addiviene in diversa sillaba, trattone qualche monosillabo come vesc (veschio, vischio) fresc (fresco). Avanti di se ammette, delle consonanti, eziandio la L, N, R, come falsedat, fals, constipaciò, ensems (insieme) ors (orso) arsenit (arsenico) arsò (arcione). Il nostro Linguaggio vaghissimo della dolcezza, non ammette niuna parola, che incominci per S colla consonante appresso; onde per isfuggire l’ asprezza della nunzia, diciamo, estudi, estar, espòs, e simili, come è stato detto alla lettera B. I più antichi Scrittori del buon tempo, sì Prosatori, che Poeti, l’ aggiugnevano nel caso retto del numero del meno della maggior parte de’ nomi masculini; e così diceano, e declinavano: lo Reis, o lo Reys, del Rei, al Rei; lo noms, del nom, al nom. Ed all’ incontro la toglivano via dal primo caso del numero del più della maggior parte de’ medesimi nomi maschili, nel qual primo caso degli stessi nomi, che non consentivano la s, adoperavano l’ articolo li in vece di los (e ill ancora, particolarmente i Rimatori, e per lo più precedendo vocale) e così declinavano li Rey, dels Reys, als Reys: li nom, del noms, als noms, come insegna l’ Autore della Gramatica Provenzale nella Real Libreria di MSS. di S. Lorenzo di Firenze, là dove egli dice: Li cas son seis: Nominatius, Genitius, Datius, Acusatius, Vocatius, Ablatius. 

Lo Nominatius se conois per lo, si com: Lo Reis es venguts. Genitius per de, si cum: Aquest destrier es del Rei. Datius per a, si com: Mena lo destrier al Rei. Acusatius per lo, si cum: Eu vei lo Rey armat. E non se pot conosser, ni triar (scernere, distinguere) l’ acusatius del nominatiu, sinò que per çò, que l’ nominatius singulars quan es masculís vol S en la fi; e li altri cas nol’ volen. E l’ nominatius plurals nol’ vol; e tuit li autre cas volenlo en lo plural. Però lo vocatius deu semblar lo nominatiu en totas la dizios, que fenissen in ors, e en las altras ditions quev’s (queu’s) dirè aici: Deus, Reys, francs (franco, libero) pros (prode) bos, cavaliers, cançòs ec. Però de la regla on fo dit dessùs, que l’ nominatius cas no vol S en la fi quan es pluralis numeri, voil traire fors (eccettuare) tots los feminis, que non es dit mas solamen dels masculis, e del neutris (che non si è parlato, che de’ maschili, e de i neutri) que son semblan el plural per totz locs, si tot es contra gramatica (contuttochè sia contra la regola della Lingua Latina) E lai on fo dit del nominatiu singular que vol S per tot a la fi, voilh traire fors totz aquels que fenissen en aire, si cum Emparaire, amaire: E en eire, si cum Peire ec. E en ire, si cum traire (traditore) consentire (consenziente, consentitore) ec. Mas albires (osservatore, guardatore, stimatore) vol S, e consires (pensoso, travagliato, consiroso) e desires (desideroso, desiroso) E de la regla del nominatiu singular qe vol S a la fi voilh ancara traire fors alpestre, ec. e tots los ajectius neutris quan son pausat sens sustantiu, si cum: Mal m’ es, greu m’ es, fer m’ es, esqiu m’ es, estranh m’ es qu’ el aja dit mal de mi. E voilh en traire fors encara dels pronoms alcus, si cum: Eu, tu, el qui, aquel, ilh, cel, aicel, aquest, nostre, vostre, que no volon S en la fi, e son del nominatiu singular. Lo stesso dice, ed insegna Raimondo Vidale nella sua Arte della Poesia Provenzale, MS. della suddetta Libreria; e si vede, per darne quì qualche esempio de’ nostri Poeti, dagli appresso versi, o passi: Bertr. Born. 161. 2.

E l’ Reis Felips en Mar poja, 

Ab altres Reis, qu’ ab tal esforz vendràn (la e con virgulilla).

E il Re Filippo in Mar poggia (monta sulla nave, s’ imbarca) 

Con altri Re, che vengono in soccorso. E 163. t. 2.

Puois als Barons enoja, e lur pesa 

D’ aquesta patz, qu’ han feta li dui Rei, 

Farai Canson tal, que, quant er apresa 

A cazaun sarà tart que guerrei. 

Poi a’ Baroni annoja, e lor dispiace 

Questa pace, ch’ anno fatta i due Re, 

Farò Canzone tal, ch’ essendo intesa 

Ambi vorranno tosto guerreggiare. 

Piet. Carav. C. V. 4. 27. t. 1. 

Molt es bona terra Espagna, 

E ill Rei, qe Seignor ne son, 

Dolz, e franc, e car, e bon, 

E de cortesa compagna. 

Buonissima terra è la Spagna, 

E i Re, che Signori ne sono, 

Dolci, e franchi, e cari, e buoni 

E di cortesa compagna. 

Piet. Vid. C. V. 4. 29. t. 2. 

Als (a) quatre Reis d’ Espagna està molt mal

Car no volon aver paz entre lor,

Car altramen ill son de gran valor,

Adreg, e franc, e cortès, e leial.

(a) Als quatre Reys d’ Espagna: cioè al Re di Castiglia, al Re di Aragona, al Re di Portogallo, e al Re di Navarra.

A i quattro Re di Spagna stà assai male 

Che non vogliono aver pace fra loro,

Che altramente egli sono valorosi

Cortesi, e leali, e franchi, e accostumati.

Ans. Faid. C. V. 4. 24. 1.

Per queu’s son tuit obedien

Li cortès, e ill bon, e ill valen.

Perchè tutti vi sono ubbidienti

Li cortesi li buoni, e li valenti.

E 26. 2.

Lo jorn qu’ Amors me fes doptàn venir

Vers la bella, don us cortès semblans

Dels seus bels oills m’ intrèt ius el coratge,

Si qe anc puois nom’ puesc voltar aillors,

Adoncs saubì que l’ oill m’ eron messatge

D’ Amor; e al cor me venc fret, e calors,

Jois, e consirs, ardimens, e paors.  

Il dì ch’ Amor mi fe venir dottando

Verso la bella, onde un cortese sguardo

De’ suoi begl’ occhi intrò dentro ‘l mio core,

Sì, ch’ anco poi voltar non posso altrove,

Adunque seppi, che gli occhi eran messaggi

D’ Amor; e al cor, freddo, e calor mi venne;

Pensiero, e (a) gioi; paura, ed ardimento.

(a) Gioi, che vale allegrezza, giubilo, e simili, dissero Provenzalmente gli antichi Rimatori Toscani, siccome fu osservato e dal Bembo nelle sue Prose, e dal Buommattei tratt. 7. cap. 18. a car. 115. ediz. Firenze 1714., ed ivi dal Salvini alla postill. marginal., e finalmente, per tacer degli altri, dal Crescimbeni nella annot. 2. sopra la Vita d’ Ugo di S. Cesario, e in quella di Pietro di Blai; e se ne leggono molti esempli nella Raccolta de’ Poeti di Monsig. Leone Allacci, particolarmente a car. 508., e 517., e ne’ Comentar. Istor. Volgar. Poes. del suddetto Crescimbeni.


T.

T. Lettera di suono simile al D, e molte voci si dicono coll’ una, e coll’ altra: come Etate, Etade: Potere, Podere: Lito, Lido. Consente dopo di se la L, e R, col perdere alquanto di suono, ma la L malagevolmente, perchè non è suono di questa lingua, nè la riceve, se non in quelle voci, le quali non son fatte interamente nostrali: come Atleta, Atlante. Colla R fa miglior suono, e più usitato, tanto nel principio della parola, quanto nel mezzo: come Trave, Scaltro. Riceve, avanti di se, in mezzo della parola, in diversa sillaba, la L, N, R, S: come Alto, Punta, Orto, Asta. In principio di dizione riceve la S: come Storia, Studio, e si pronunzia la S nel primo suono, quale nella voce Casa, come nella lettera S abbiam detto. Raddoppiasi nel mezzo della parola, siccome l’ altre consonanti: come Atto, Petto, ec.

Lo stesso osservo nella nostra Lingua, trattone quello del raddoppiarsi, e quello ancora di ricevere la S in principio di parola; dicendo noi estudi, estar, e simili, coll’ aggiunta dell’ E per ischifare in questa guisa l’ asprezza, che ne uscirebbe nel profferire studi, star, come è stato avvertito nelle lettere B, e S. Osservo in oltre, che i nostri antichi lo scambiavano col Z in molte voci, trovandosi scritto indifferentemente meteis, e mezeis (medesimo) fortor, e forzor; mut, e muz; dret, é drez; mot, e moz, trametès, e tramezès: il qual cambiamento passò anche nella Toscana, come si vede dal Vocabolario, dove registrano gli Accademici della Crusca, antivenire, e anzivenire; ammortare, e ammorzare; fortore, e forzore; pontare, e ponzare. I medesimi antichi altresì, molto volentieri lo frodavano nelle voci finienti in nt nel singolare, e in nts nel plurale; e ciò facevano per più dolcezza di suono, scrivendo tan, pensamen, entendimens, in vece di tant, pensament, entendiments; ed in fatti nello scolpire le dette parole, ed altre simili, poco, o nulla facciamo sentire il suo suono; e così fanno ancora i Franzesi. Vedi del suo nome quelche abbiamo rinvergato

nella lettera B.


U.


U. Lettera vocale, e tal’ or lettera consonante. Quando è vocale ha gran familiarità coll’ o chiuso, dicendosi molte voci coll’ uno, e coll’ altro, scambievolmente: Sorge, Surge: Agricoltura, Agricultura. Quando gli segue appresso un’ altra vocale, quasi sempre tutte e due si pronunziano per dittongo, cioè in una sillaba sola, come ancora addiviene all’ I: Sguardo, Quercia, Guida, Fuoco. Bene è vero, che quando gli seguita appresso l’ o, son sempre una sillaba sola, ma seguendo una dell’ altre vocali, tal’ or son due: Persuaso, Ruina, Consueto. Precedendogli il G, C, o Q, fa sempre dittongo, ed è pure una sola sillaba: Guerra, Guida, Guado, Quatto, Quercia, Quitanza. 

L’ V consonante è assai differente di suono dall’ U vocale, però ricerca differente carattere, essendo molto simile al nostro B, e al ß greco. 

Da alcuni è detto aspirato del B; onde molte voci, or coll’ uno si dicono indifferentemente, or coll’ altro: Servare, Serbare: Nervo, Nerbo: Voce, Boce. Riceve dopo di se la R nella stessa sillaba, e in mezzo della dizione, ma con molto perdimento di suono: Dovreste, Cavretto, Sovrano. Avanti di se, nel mezzo della parola, e in diversa sillaba, consente la L, N, R, S: Malva, Convito, Serva, Disviato, benchè la S si truovi di rado nel mezzo della parola, è per lo più, e ne verbi composti, colla preposizion Dis, o Mis; ma sì ben nel principio molto frequente: Svenire, Svariare, Svinare. Deesi pronunziar la S, avanti all’ V consonante, col suono sottile, o rimesso, quale nella voce Accusa, secondo che si dice nella lettera S. Raddoppiasi come l’ altre consonanti, nel mezzo della parola: Avvivare, Ravvolto.

Tutte le suddette qualità, che intorno all’ U s’ osservano nella Lingua Toscana, si considerano eziandio nella Provenzale, fuorchè l’ ultima del raddoppiarsi, come si può vedere da quelche abbiamo notato di sopra nelle lettere B, F, O, P. Quando però è vocale, e che gli preceda il g, seguitandogli appresso o l’ e, o l’ i, allora non si pronunzia affatto, e solo serve per dimostrare, che il g è di suono muto, come guerra, guixols (cicerchie) e simiglianti, che si profferiscono da noi, come se da’ Toscani fosse scritto gherra, ghisciols, di modo, che, le nostre sillabe Gue, Gui, corrispondono al Gh rotondo de’ medesimi Toscani, di che vedi nella lettera G.



X.


X. Nella nostra lingua non ha luogo, perchè nel mezzo della parola ci serviamo, in quel cambio di due SS: come Alexander Alessandro: e alle volte d’ una S sola, come Exemplum Esemplo. Non può alla nostra lingua servire à nulla, se non se forse, per profferire que’ pochi nomi forestieri, che cominciano da cotal lettera, come Xanto, per non avere a dir Santo, o veramente, per iscrivere alcune parole latine, usate da’ nostri Autori: come Exabrupto, Exproposito.

Benchè questo carattere non abbia luogo nell’ Idioma Toscano, come nota il Vocabolario, contuttociò se ne servirono gli antichi Toscani, trovandosi ne’ MSS., exemplo, per esemplo, e simili; il che osservò il Salviati, allorchè disse ne’ suoi Avvertimenti: Lo X hanno i moderni huomini nel volgar nostro, come dalla pronunzia, così dirittamente scacciato dalla scrittura, come troppo aspro, e discordante dalla natura delle nostre parole. Quantunque poi seguiti a dire: Ed anche nelle scritture del miglior secolo rade volte si vede usato da chi la nostra lingua parlava naturalmente; ma fu più tosto usanza de’ letterati. 

Nel nostro Provenzale però l’ adoperiamo per due sorte di suoni; perchè posto in voci tolte dal Lazio, e che abbiano la preposizione latina ex, come exemple, exili, ha lo stesso suono, che avea presso i Latini, cioè quello del cs, quantunque non sia in questa parte necessario, poichè si potrebbe scrivere ecsemple, ecsili, pronunziando la s nel medesimo suono di quella della voce rosa; siccome potevano eziandio i medesimi Latini scrivere così, cioè ecsemplum, ecsilium, in cambio di exemplum, exilium. Onde Quintiliano al lib. I. cap. 4. 

Et nostrarum X littera ultima est, qua tamen carere potuimus, quae non quaesissemus. Nell’ altre voci poi, ha egli il suono del C chiaro, e sonante, di maniera che, le nostre sillabe Xa, Xe, Xi, Xo, Xu, si profferiscono come le Toscane Cià, Ce, Ci, Ciò, Ciù.

Egli è ben vero, che pure nelle nostre scritture del miglior tempo rade volte si vede usato, come si osserva nel leggere i Codici Provenzali della Libreria Vaticana, conciossiachè gli antichi Scrittori adoperavano per lo più in sua vece le lettere, o la sillaba is, e scrivevano eisemple, laisar (lasciare). E dico per lo più, perchè ancora laxar, e laixar ho trovato tre, o quattro volte nel Cod. Vat. 3208., particolarmente a car. 112., e 128. e così exemple talora, come si vede nel Tratt. Virt. a c. 170. Si truova ancora usato qualche volta lo x in vece dell’ s, verbigrazia ricx per rics, come apparisce nel Cod. 3206. della medesima Vaticana, a c. 57.;e braxa per brasa (brace) a car. 73., e Marxella per Marsella, come Folquet de Marxella, che si legge nel medesimo Codice 3206., e dexinflats per desinflats (cioè sgonfiati) in Guid. Cauliacc. Cirug. a c. 113. E di quì si rende in parte manifesto, che l’ ortografia di quei tempi era varia molto, e incostante, come abbiamo avvertito altrove.


Z.


Z. Lettera di suono molto gagliardo, e assai in uso, appo i Toscani: ha due suoni diversi, o forse più, secondo gli accoppiamenti dell’ altre lettere, colle quali ell’ è collocata, ma due sono i più principali, e più conosciuti: il primo più intenso, e gagliardo, da alcuni detto aspro, e più simigliante al primo, che abbiamo assegnato alla lettera S, e a noi più frequente: come Prezzo, Carezze: Zana, Zio: l’ altro più sottile, e rimesso, chiamato da altri rozzo da noi meno usato, e più simile al secondo suono della S: come Rezzo, Orzo, Zanzara, Zelo; onde per fuggir la mala pronunzia, carattere differente le si vorrebbe. Posta la Z davanti all’ I, alla qual seguiti altra vocale, vi fuchi disse non raddoppiarsi giammai, e sempre profferirsi col primo suono detto di sopra: come Letizia, Astuzia, Azione, Orazione, Invocazione. Vi ha pure

chi continuo si ferve di questo carattere raddoppiato, scrivendo Letizzia, Annunzzio. Molto in somma ne è stato detto da nostri Gramatici. A noi parendo, che in alcun luogo si profferisca più semplice, e pura di suono, altrove con maggior émpito, e forza, così appunto, come l’ altre consonanti, abbiamo usato nel primo caso usar la z scempia, nella seconda maniera porla doppia, come giusto l’ altre lettere consonanti, scrivendo Vizio, Carrozziere, ec. Dopo di se non riceve niuna delle altre consonanti, nè in principio, nè in mezzo della parola. Avanti di se, in mezzo di dizione, e in diversa sillaba, consente la L, N, R: come Balzo, Lenza, Scherzo. Raddoppiasi nel mezzo delle parole, come tutte l’ altre consonanti, benchè differenza grande di suono non si senta dal pronunziarla doppia, o scempia, essendo, come s’ è detto di suono gagliardo. Ma se per via di riprova si converta la Z in S, come lettera sua propinqua, e come l’ usano in alcuni luoghi di Toscana, si troverà, che dove la Z dee andar doppia, la S farà doppia come Palazzo, Palasso: Piassa, Piazza, e dove la Z dee ire scempia, ancora si troverà la S scempia: come Letizia, Letisia: Orazio, Orasio: Fabrizio, Fabrisio: però con questa regola la Z andrà sempre scempia, dove, convertita in S si troverà una sola S, il che addiviene, quasi sempre, che alla Z seguita l’ I, che allato abbia la vocale: Pur vi ha chi scempia pone la Z in altre poche, cioè in quelle voci, le quali hanno la penultima sillaba breve, e nell’ ultima la Z: come Poliza, Obizo, Previza: perciocchè, convertita la Z in S, si dirà Previsa, Polisa, Obiso, ec. Le quali voci, nella nostra lingua, oltre a’ nomi propri, non arrivano forse al numero di tre.

Nel Provenzale ha solamente il suono sottile, o rimesso, ed è il medesimo del secondo, che abbiamo assegnato alla S, cioè come quello della s di rosa, e della ultima s di esposa; verbigrazia zel, zelos, zelador, azul (azzurro) azanya (prodezza) che così ancora con questo suono pronunziano la Greca *gr oggidì i Gramatici Greci, in riguardo di ciò, che di essa, e della sua dolcezza sopra tutte l’ altre lettere, scrisse Quintiliano. Alla zeta di questo suono chiama il Salviati ne’ suoi Avvertimenti, Z semplice, per differenziarla dall’ altre, che da esso lui sono appellate, cioè l’ aspra, come in Zoppo; la sottile come in Letizia; e la rozza, come in Zaffiro. Ecco le sue parole, al lib. 3. cap. I. particell. 11 (o 2). Delle zete, l’ aspra, e la rozza composte lettere sono, ma non doppie, sì come pur ora abbiam detto: ma la semplice, nè doppia, nè composta, e per questo di semplice le abbiamo dato il nome. Questa da’ nostri si reputa per S, e col segno della S, poichè non ha propria figura, e distinta, la scriviamo tutti comunemente. 

Il suono di essa si sente in rosa, nome di fiore, in esemplo, e nella fin di sposa, e mille altre. Chiamanla alcuni S dolce, per distinguerla dalla propria S, che si pronunzia in rosa, che deriva da rodere, in sarei, in pensoso, in cassone, e infiniti di questo genere: la qual lettera è strepitosa, ed ha assai del fischiante. Ma a noi sembra, che quella prima, molto più, che della S, della natura sia partefice della Z, e di Z più che di S il nome se le convenga: ec. Onde Benedetto Buommattei Tratt. 3. cap. 16. “Il Cavalier Salviati, huomo in questa facoltà versatissimo; assegna quattro suoni alla Z. Aspro; Rozzo; Sottile; e Semplice. Semplice chiama egli quel suono, che si sente in questo secondo carattere di Esempio; e nel quarto di Sposa. Egli ha ragione, perchè in vero ella ha più suono di Zeta, che di Esse: ma noi, che non curiamo altro che introdurre ad una certa cognizione praticabile; l’ abbiam voluta nominare Esse: poichè con S, e non con Z si segna. Sottile dice quella Z, che si sente in Letizia; Diligenzia; Dovizia, il suon della quale è tanto simile a quell’ dell’ Aspra, ch’ io non giudico bene il distinguerla in questo luogo; come benissimo tengo l’ averla egli distinta in quello. Due pertanto diciamo noi esser le Z, e per multiplicar manco termini, che si può, la dividiamo in Gagliarda, e Rimessa, racchiudendo sotto la gagliarda, e l’ Aspra, e la Sottile: e per rimessa intendo la Rozza. Gagliardo suono pertanto si sente, che anno tutte queste Z di Zazzera; di Mazze; di Pazzi; di Zezzo; di Zucchero; di Mestizia, e di Giudizio. Rimesso si sente in queste di Zafferano; Zeffiro; Razzi; Zotico; e Mezzule. Tra la gagliarda, e la rimessa è tanto sensibil differenza, ch’ io non perderei tempo a provarlo: atteso che la gagliarda si forma appuntando la lingua a’ denti; come per formare il T, e fischiando come a profferir l’ S. Onde meritamente questa Z si dice composta di T, e di S, dico della S gagliarda. La Z rimessa si forma con batter la lingua ne’ denti, come quando si vuol pronunziare il D, e poi con aggiugnervi il fischio della S rimessa.”

Ne’ MSS. Provenzali della Vaticana, ed in altri, si vede adoperata non solamente per l’ una, e l’ altra S, e per lo C infranto, come in vece dell’ Esse gagliarda, Canzò per Cansò; in luogo del C infranto, come zo per ço (ciò) Ma eziandio in cambio del C duro; e del D; e del G; e del T, trovandosi indifferentemente scritto: cantar, zantar; cambra, zambra: e tardar, tarzar; veder, vezer: e gent, zent (gente) e meteis, mezeis (medesimo) dret, drez (diritto) e somiglianti.

E quindi è, che nelle Scritture del buon secolo della Lingua Toscana si truova pure scambievolmente usato da’ Toscani, a imitazione de’ Provenzali, come in parte si è dimostrato di sopra alla lettera D; bersaglio, berzaglio: solfa, zolfa: solfo, zolfo. E ardente, arzente: gradire, grazire: verdura, verzura. E pontare, ponzare: fortore, forzore; antivenire, anzivenire: ammorzare, ammortare. E così impetrazione, impetragione: incantazione, incantagione: e zente per gente: zambra per cambra, o camera: zo per ciò, ec.

Fra i diversi caratteri, che il Cavalier Gio. Giorgio Trissino Vicentino intentò d’ aggiugnere all’ Alfabeto Italiano, per distinguere, e rappresentare la pronunzia delle parole, come apparisce da’ suoi Dubbj Gramaticali stampati in Vicenza l’ anno 1549., particolarmente dal Dubb. 2. Se avendo la pronunzia Italiana bisogno di nuove lettere, di quante, e quali ne ha di bisogno; uno si fu questo ç, chiamato da noi C trancada (cioè C infranto, come abbiam detto alla lettera C) col quale volle accennare la pronunzia, o il suono della Z rimessa. Adunque (dice egli nel citato Dub. 2.) ritrovandosi nell’ Alphabeto questi dui characteri Z ç, l’ uno de li quali si dimanda Zea, e l’ altro çeta, potremo assignare questa Charactere çeta a lo elemento più ottuso, e simile al G sì nel majuscolo, come nel corsivo; scrivendo çenit, çoilo, meço, e gli altri simili elementi. L’ altro poi, che è il Zea assegnaremo al più acuto, o kiaro elemento, cioè a quello che è simile al C Lombardo, come zuccaro, zazara, avezo, e simili. Veggasi però su questo affare dell’ aggiugnimento di nuovi caratteri, quel ch’ è stato rinvergato nella Prefazione al num. LVI.

(Sigue en Catalogo)

La Crusca Provenzale di Antonio Bastero, 1723. Franc Catalan Provenzal.

La Crusca Provenzale di Antonio Bastero, 1723. Franc Catalan Provenzal.

La Crusca Provenzale di Antonio Bastero

Volume Primo

La Crusca Provenzale di Antonio Bastero

https://books.google.de/books/about/La_Crusca_provenzale_ovvero_Le_voci_fras.html?id=Nrf6-eWExjUC&redir_esc=y

(Editor: Ramón Guimerá Lorente. Notas al pie al final.)

Che l’ antico Provenzale, per lo più sia scurissimo, &c. lo dico per prova, avendoci fatti studi non ordinari nella Libreria de MSS. di S. Lorenzo del Serenissimo Gran Duca mio Signore, nella quale se ne conservano due Raccolte, e una di queste antichissima in carta pecora; e ho veduto, che non ostante questa difficultà d’ intendere, e in alcuni Autori di loro impossibilità, sarebbe cosa utilissima per le origini, e proprietà della Lingua Toscana, il dargli fuora tali quali egli sono, con farvi attorno quelle osservazioni, che si potessero. ANTON MAR. SALVIN. Nelle sue Considerazioni Critiche intorno al Trattato Della Perfetta Poesia Italiana ristampato in Venezia nel presente Anno 1724. insieme colle suddette Considerazioni, Lib. 2. Cap. 9.

LA 

CRUSCA PROVENZALE

OVVERO, 

LE VOCI, FRASI, FORME, E MANIERE DI DIRE, 

che la gentilissima, e celebre lingua toscana ha 

preso dalla Provenzale; arricchite, e illustrate, 

e difese con motivi, con autorità, 

e con esempi. 

AGGIUNTEVI 

alcune memorie, o notizie istoriche intorno agli antichi Poeti 

Provenzali Padri della Poesia Volgare, particolarmente 

circa alcuni di quelli, tra gli altri molti, che furono 

di Nazione Catalana, cavate da’ MSS. Vaticani

Laurenziani, e altronde. 

OPERA

DI DON ANTONIO BASTERO

Nobile Barcellonese, Dottor in Filosofia, e nell’ una, e l’ altra Legge, 

Canonico, e Sagrestano Maggiore della Cattedrale di Girona,

ed esaminatore Sinodale della medesima Diocesi, detto

fra gli Arcadi IPERIDE BACCHICO. 

VOLUME PRIMO.

IN ROMA, MDCCXXIV.

Nella Stamperia di Antonio de’ Rossi, nella Strada del Seminario Romano,

vicino alla Rotonda.

CON LIZENZA DE SUPERIORE. 

Noi infrascritti spezialmente Deputati, avendo a tenore delle Leggi d’ Arcadia riveduta un’ Opera del Sig. Don Antonio Bastero, detto tra gli Arcadi Iperide Bacchico, intitolata La Crusca Provenzale &c. giudichiamo, che l’ Autore nell’ impressione di essa possa valersi del Nome Pastorale, e dell’ Insegna del nostro Comune.

Semiro Acidonio P. A. Deputato. 

Mireo Rofeatico P. A. Deputato. 

Eugildo Scilleo P. A. Deputato. 

Attesa la suddetta Relazione, in vigor delle facoltà comunicate alla nostra Adunanza dal Reverendiss. P. Maestro del Sac. Palazzo Apostolico, si concede licenza al suddetto Iperide Bacchico di valersi nell’ Impressione della mentovata sua Opera del Nome, e dell’ Insegna suddetti. Dato in Collegio d’ Arcadia &c. Al 1. dopo il xx. di Posideone Cadente, l’ Anno III. dell’ Olimpiade DCXXV. ab A. I. Olimp. IX. Anno II.

Alfesibeo Cario Custode Generale d’ Arcadia.

Loco + del Sigillo Cust.

Nisalgo Diagoneo Sottocustode.


IMPRIMATUR,

Si videbitur Reverendissimo Patri Magistro Sacri Palatii Apostolici.

N. Baccarius Episc. Bojanen. Vicesgerens.

Librum, cui Titulus: La Crusca Provenzale &c. Auctore D. D. Antonio Bastero Patritio Barcinonense, integrè, & accuratè perlegi, nihilque in eo inveni, quod vel Sanctae Fidei Catholicae puritati, vel bonis moribus adversetur: quinimò illum utpote rarâ, ac singulari eruditione refertum, & Litterariae Reipublicae non modicè utilem, ac proficuum, publicâ luce dignissimum censeo hac die 28. Decembris 1723. 

Philippus Hortentius de Fabris Eminentissimi D. Cardinalis Salerni à Secretis.

IMPRIMATUR.

Fr. Gregorius Selleri Ordinis Praedicatorum Sac. Palatii Apostolici Magister.


PREFAZIONE.

Lo stesso animo, e la medesima mente, che nel compilare il Vocabolario Toscano ebbe l’ Accademia della Crusca, la quale fino dal principio della sua erezione, altro non ha avuto per fine, che l’ universal beneficio, e la gloria, e l’ eternità del suo gentilissimo Idioma, secondochè ella manifestamente dichiara nel Proemio di quella incomparabile Opera, e fece palese a tutto ‘ l Mondo, il dottissimo Bastiano de’ Rossi (1: Nella sua Lettera Dedicatoria del primo Vocabolario della Crusca stampato in Venezia 1612.) cognominato l’ Inferigno; quella appunto in riguardo alla mia Lingua Provenzale, ho avuta io nella presente Compilazione delle voci, frasi, e forme di dire, che la Toscana ha tolto dalla stessa Provenzale: Imperocchè essendom’ indirizzato nell’ anno 1710. verso l’ alma Città, ù siede il Successor del maggior Piero, per difendere ‘ l dritto d’ una certa fondazione nominata la limosina del pane della Chiesa di Girona; stabilita sotto la protezione, e dipendenza del Sagrestano Maggiore di quella Cattedrale; e avendo quivi a poco a poco gustata la dolcezza della Italiana favella, ed intese le sue belle locuzioni, ne rimasi talmente invaghito, che proccurai di ricercare, e diligentemente osservare tutte le sue proprietà, e fattezze, e d’ introdurmi per entro i fuoi più ricchi gabinetti, col pensiero di farne alcun registro, non solo per mio genio, ed ammaestramento, ma per per darne particolarmente un faggio a’ miei Compatriotti, col mezzo d’ una Gramatica, e d’ un Dizionario per uso de’ medesimi: E tanto più me se ne accese il desiderio, quanto che rifletteva, che noi Catalani non abbiamo alcuna Gramatica, o Dizionario di questa Lingua, spiegata nel nostro Volgare; ma in questa materia, vaglia il vero, confesso, che siamo stati troppo trascurati, imperciocchè (quel che è peggio) nè pure abbiamo alcuna sorte di libri, o Autori, che per via di regole gramaticali, o altramenti ci ‘ nsegnino a ben parlare la nostra propia, e naturale, se non se ‘ l Donatus Provincialis, o chiunque sotto tal nome, e titolo, alludendo a quel Donato, ch’ alla prim’ arte degnò poner mano scrisse la breve, ed antica Gramatica Provenzale, o Catalana, ch’ è tutt’ uno, che manoscritta si conserva nella Libreria Medicea Laurenziana, e in Santa Maria del Fiore di Firenze, della quale fanno menzione, e si vagliono della sua autorità i primi Letterati d’ Italia (2). 

II. Non così certamente addiviene egli appresso quasi tutte l’ altre Nazioni del Mondo. Qual Nazione si troverà, che non proccuri di conservare, ed abbellire la sua natía favella, siccome ognuno per diritto di Patria è obbligato, con prescriverne le regole, e i precetti, e registrarne per alfabeto tutte le voci, e maniere di dire? E che non proccuri altresì, che non le manchi delle Gramatiche opportune, e proprie per apprendere le forastiere più nobili, ed erudite? Forse non se ne troverà alcuna eccettuatane la Catalogna. E per non allontanarmi dalla medesima Lingua Italiana, o per meglio dire Toscana, fra le Nazioni, e i popoli più riguardevoli dell’ Europa, ci dovrebbono servire di stimolo i Castigliani, e tutti quegli Spagnuoli, che sin dalle fascie cominciano ad apparare la Castigliana, succhiandola, come suol dirsi, col latte materno, i quali, per questo fine di apprendere l’ idioma Toscano anno un Lorenzo Franciosini Fiorentino; siccome anche i Francesi, i quali pel fine medesimo anno Cesare Odini, e il Veneroni; tralasciando di far menzione degli Autori, che ne anno scritte latinamente le regole, come sono il Lapini, stampato in Firenze appresso i Giunti, nel 1574., Gio. Battista Coiro impresso in Colonia, nel 1642., il soprammentovato Franciosini, nel suo compendio facis linguae Italicae, pubblicato in Roma; ed altri.

III. In seguito poi delle sopraccennate diligenze, incominciai a far le mie osservazioni dall’ abbicì delle sopraddette Gramatiche, e di altre della medesima Lingua, spiegate nella Franzese, intorno alla quale aveva io già fatto particolare studio, alcuni anni prima. Ed essendomi avveduto dopo averle lette, e ben considerate, che elleno altro non erano, ch’ embrioni, per così dire, senza capo, e senza coda, ed in molte cose mancanti, fatte per lo più da persone solite a girare per le Corti, e Cittadi grandi, col titolo di Maestri di Lingue, per procacciarsi così il vitto, benchè per altro, di non poco utile sieno, posciachè colle loro gramaticali lezioni ci aprono la strada da pervenirne poi mediante lo studio alla più perfetta cognizione: Alzai però la vela della mia navicella per prendere di nuovo lingua, e pratica ne’ banchi, e nelle scanzie de’ Librai a Pasquino, ove incontrai alcuni de’ più esperti nocchieri per la ‘ ntrapresa navigazione, come il Buommattei, il Pergamini, il Cinonio, il Salviati, ed altri; e per isfuggire gli scogli degli errori, mi prevalsi incontinente de’ loro avvertimenti, e trattati, e del Ragionamento, e Catalogo delle opere più eccellenti, che intorno alle principali arti, e facoltà sono state scritte in Toscano, l’ uno, e l’ altro composto dal dottissimo Monsignor Giusto Fontanini. Ed in fatti colla guida de’ suddetti Autori, e veri Maestri, cominciai a disegnare la premeditata Gramatica per uso della mia Nazione, e degl’ intendenti della Lingua Catalana, e tutto ‘ l tempo che avanzava alle mie importanti occupazioni attenenti alla lite allora vertente nella Sagra Romana Ruota sopra l’ accennata elemosina di Girona, l’ impiegava nel lavoro dell’ opera medesima; nella quale poi, dopo averne abbozzati alquanti capitoli, volendo anche discorrere, e trattare dell’ origine della stessa Italiana favella; e perciò desiderando scoprire, e accumulare altre notizie, oltre a quelle da’ suddetti Autori dimostrate, rivolsi l’ occhio al mentovato Catalogo, e presa nota degli Scrittori, che anno trattato della materia, andai alla Libreria Casanattense; e per mezzo delle Prose del Cardinal Bembo, e coll’ Ercolano di Benedetto Varchi, che furono i primi libri, che lessi in quella Libreria, vidi, ed intesi, come la Lingua Toscana era in gran parte composta della Provenzale (3), e quasi di due Madri figliuola, cioè della Latina, e di essa Provenzale 

(4); e che gli antichi Provenzali Poeti, altrimenti con più acconcio nome Trovatori appellati, dal trovare il tropo, o la maniera del canto, furono i Padri delle Rime volgari, ei Maestri, che insegnarono il poetare agl’ Italiani (5): Il che anche più chiaramente compresi nel progresso de’ miei studi, da altri non men autorevoli Scrittori sì Spagnuoli (6), che Provenzali (7), e Franzesi (8); oltre alla famosa schiera degl’ Italiani, che dall’ eruditissimo Crescimbeni furono annoverati, ed illustrati nella sua Istoria, ed Origine della Volgar Poesia (9), per maggiormente autenticare la verissima opinione del Cardinal Bembo, e di tanti altri valentuomini circa la medesima Origine, e per rintuzzar la soverchia libertà di quelli, che portati più dalla volontà di contraddire, che dalla ragione, si lusingano di mantenere opinione contraria, come altamente prorompe parlando di simili contraddittori, esso Crescimbeni ne’ suoi gravissimi, e celebri Comentari della detta sua Istoria (10: Nella Introduzione del Volum. 2. part. I.).

IV. E riflettendo, che la Lingua Provenzale, è la stessa appunto, che la mia materna Catalana, come attestano parecchi Autori (11); e può conoscere ognuno, confrontando le parole, le maniere, i modi di dire, e lo stile delle nostre antiche Costituzioni di Catalogna, esistenti nella Biblioteca Barberina, cogli antichi Statuti di Provenza, che si trovano nella Libreria Casanattense; e come anche più agevolmente riconoscerà il Lettore dalla lettera, che per questo effetto ho estratta dalla Storia, e Cronica di Provenza di Cesare di Nostradama (12: Part. 6. fogl. 606. e 626.), scritta da Renato d’ Angiò Re di Napoli il decimosesto, e Conte di Provenza il ventunesimo nell’ anno 1468. en son bon, & franc Catalan Provenzal, come dice l’ istesso Nostradama (13: Nel luogo citat. car. 626.), a Giovanni d’ Angiò intitolato Duca di Calavria suo figlio primogenito, e Generale dell’ Armata Franzese, e Provenzale, che allora si trovava ne’ confini di Catalogna; (benchè nel detto anno, anzi ventisei anni prima, fosse già il suddetto Conte scaduto dalla Reggia di Napoli, avendo prevaluto il partito, e il valore delle armi de i Catalani, e degli Aragonesi contro degli Angioini, ed essendo in essa rimasto trionfante, e coronato sino dal 1442. il Re Alfonso il II (N. E: V), d’ Aragona, e il I. di Napoli (14 – Scipione Mazzella nel suo Catalogo de’ Re di Napoli, Angioini, Aragonesi, Castigliani, ed Austriaci. -, cognominato il Magnanimo) la qual lettera ho qui trascritta con la medesima ortografia, che nella predetta Istoria si legge del seguente tenore; Illustrissimo, e carissimo Duch, primogenit, Governador, e Loctenent general nostre: Nos com saben (sabeu) en los dies passats avens consideratiò als bons servicis, e merits del noble, e amat conseiller nostre Mossen Barthomeu Gary, l’ y donam perpetualment en feu honorat segon costum de Cathalunia, per à el, e à sos fils emperò mascles de legitim matrimoni procreadòs lo Viscomtat de Bas, que ez prop las montanyas de Ampurdà, e certs castels, e altres coses que tenia en las parts de Ozona Joan de Cabrera, à nos inobedient, e rebelle, segon aquestes, e altres coses largament poreu veure en unas lettras patens à vous, e à altres dressades lou dia present dades. 

E perque ez nostra ferma volontat, e intentiò, que lod. Moss. Borthomeu dè, aya, e consequesca la possessiò libera del dit Viscomtat, Castelz, e altres coses per nos à el donades, axi prest com vinguen à nostra obediensa, vos encarregam que axi ho façau executar per effecte, e per res non aya falla, com axi proceesca de nostra pensa: E sia illustrissimo, e carissimo Primogenit, e Loctenent general nostre la Santa Trinitat vostra garda. Dadas en lo nostre Castel de Bauge à xxix. del mes d’ Abril de l’ ani Mcccclxviij. 

E trasportandola poi in Franzese il medesimo Cesare di Nostradama vi fa la seguente riflessione: Çette lettre de ce bon pere a son cher fils, qui ne têmoigne moins l’ amitié grande qu’ il luy portoit, que l’ antiquité, & l’ excellence de nôtre Vulgaire voire la conformité qu’ il a avec le langage qu’ on usoit du temps de Charles le Chauve, pour preuve que les Provençaux ont êté les premiers qui ont donné langue au reste des Gaules &c. sonne en François ces mêmes paroles &c.


V. Il che anche attesta il mio Salvin, che ha tante lingue in bocca, Lettore di Lettere Greche nello Studio di Fiorenza, ed intendentissimo di tutte le lingue nobili, e principali, sì vive, che morte; imperocchè, essendo stato interrogato dal Crescimbeni, intorno ‘ l valore, o significato della nobilissima, ed antichissima particella Provenzale En, che si trova accanto i nomi propi, come lo Rey en Jacme, lo Rey en Pere; o della N in sua vece, e per accorciamento, attaccata co i nomi, che da vocale incominciano, come lo Rey Nanfos, Narnald, Naymeric, Nug, e simili, per confermazione della sua risposta, la quale fu, che non vale altro, che Don, e che tanto era in Provenzale il dire Narnald, Naimeric, Nug, quanto Don Arnaldo, Don Amerigo, e Don Ugo: siccome a i nomi propri femminili si aggiungeva la particella Na, come Namaria, Donna Maria, e simili, come si noterà appieno alla voce Nabisso; si prevalse de’ nostri libri Catalani, e spezialmente d’ un prezioso manoscritto, che si conserva appo ‘ l medesimo accennato Abate Anton Maria Salvini, intitolato: Istories, e conquestes del Reyalme d’ Aragò, e Principat de Cathalunya compilades per lo honorable Mossen Pere Thomich Cavaller, les quals tramet al Reverent Archabisbe de Zaragoça (15: Presso il Crescimben. Comentar. Istor. Volgar. Poes. Volum. 2. par. I. car. 28. e 61.). 


VI. E riflettendo inoltre, che la Contea di Catalogna, ha dato più tosto questa nostra lingua alla Provenza, che da essa Provenza ricevutala, siccome l’ ha donata a i Regni di Valenza, Majorca, Minorca, Sardigna (16), Murzia (17), ed altri (18): Si perchè i nostri Conti di Barzellona furono per lungo tempo sovrani del Contado di Provenza (19), sotto ‘ l comando de’ quali cominciarono in essa Contea a fiorire i Poeti (20), e nel medesimo tempo, quei popoli, colla pratica, e soggiorno della Corte Catalana pulirono il lor dialetto, e di nobili, e cortigiani abbigliamenti a uso di Barcellona, il resero molto vago, e dovizioso (21); ed all’ incontro finita in quella Contea la descendenza de l’ alta stirpe d’ Aragone antica, ovvero de’ Serenissimi Conti Catalani, per morte del quinto, ed ultimo Ramondo Beringhieri, e succeduti ad essi gli Angioini, cominciò a declinare in quelle parti la poesia (22); anzi la stessa lingua, estinto che fu in Provenza il Real sangue di Catalogna, e sottratto per così dire, il latte, che la nutriva, venne a poco a poco mancando, e dileguandosi da quelle Contrade, come affermano Filippo, e Jacopo Giunti (23). E come anche per l’ autorità del sopra nominato Cesare di Nostradama, il quale parlando nella sua citata Istoria di Provenza (24: Part. 5. fogl. 540.), della carica di Veguer (cioè Bargello) della Città di Marsiglia, la qual carica, come egli dice, se souloit donner par grand honneur à des plus êlevez Gentilommes & mieux qualifiez du païs, che così pure si praticava in Barcellona mia Patria, e nell’ altre Città del Principato negli andati secoli; dopo aver addotta la formula del giuramento, che in Lingua Provenzale, o vero Catalana prestava esso Veguer nel suo nuovo ingresso in detto posto, in presenza de i Consoli della Città costringendolo ad osservare gli antichi loro statuti, e privilegi, la qual formula trascrive à fin qu’ on voye (dice egli) avec quelles protestations, & ceremonies ils estoient anciennement receus en cête charge, soggiunge immediatamente queste parole: 

Ce sont les sermens, & les protestations &c. & le ramage (il linguaggio, o dialetto) demi Cathelan (è tutto Catalano bello, e buono; ma scorretto, ed infranzesito) & paradvanture celuy-là même dont nos premiers Gaulois ont puisé leurs langues, locutions, & vocables. E per quest’ altra di Antonio Ruffi nella sua Storia della Città di Marsiglia (25: Lib. 10. cap. 4. fogl. 445. ediz. 1642., e tom. 2. lib. 13. cap. 4. fogl. 331. ediz. 1696.), ove riferisce, che au commencement du douzieme siécle les Marseillois commencerent d’ abâtardir leur idiome (a pulire, più tosto, non a imbastardire) par le commerce qu’ ils eurent avec les peuples maritimes, si bien, qu’ il se fit un grand mélange des mots Catalans. Quindi è, che determinai di andare raccogliendo, giusta ogni mia possa, tutte le voci Provenzali che potessi rintracciare usate dagl’ Italiani, e di farne un alfabeto per inferirlo nella Gramatica.


VII. Per la qual cosa poi, tenendo ben a mente quello, ch’ aveva letto nelle mentovate Prose del Bembo, cioè, che de’ Rimatori Provenzali se ne leggono per chi vuole molti, da’ quali si vede, che anno apparate, e tolte molte cose gli antichi Toscani, e appresso: Fu adunque la Provenzale favella estimata, e operata grandemente, siccome tuttavia veder si può, che più di cento suoi Poeti si leggono, ed hogli già letti io, adoperai ogni diligenza per leggere, e scoprire dalle tenebre dell’ obblivione i componimenti di questi antichi Maestri, e Padri della Volgar Poesia; e il primo passo, che perciò diedi, fu alla Libreria Angelica, ove avendo domandato al dottissimo P. Fr. Basilio Resseghieri, Custode di essa, se per ventura vi fossero alcune Rime in Provenzale, mi rispose, che in uno de’ Volumi de i Comentari del Crescimbeni intorno alla Istoria della Poesia Volgare, ce n’ erano alcune; e conseguentemente dopo aver egli guardato l’ Indice de’ libri, mi porse in mano il prezioso Volume delle Vite de’ più celebri Poeti Provenzali, altrimente intitolato: Comentari del Canonico (ora Arciprete) Gio. Mario Crescimbeni Custode d’ Arcadia intorno alla sua Istoria della Volgar Poesia. Volume secondo, contenente l’ ampliazione del secondo libro dell’ Istoria, mediante le Vite, i giudizi, e i faggi de’ Poeti Provenzali, che furono PADRI DELLA DETTA POESIA VOLGARE, e pubblicato d’ ordine della Generale Adunanza d’ Arcadia in Roma 1710. e dappoi nel 1722. ristampato con varie correzioni, e molte ampliazioni fattevi dal medesimo Autore; ed immediatamente dopo, che ‘ l suddetto P. Resseghieri ebbe fatto ‘ l solito segno da serrare la libreria, feci diligenza per provvedermi del detto libro, del quale mi favorì lo stesso Autore mio riveritissimo Padrone Gio. Mario Crescimbeni Arciprete dignissimo della Basilica di S. Maria in Cosmedin, Accademico Intronato, e della Crusca, e di tutti i Collegi letterari Italiani, e di molti di là da’ monti degnamente laureato (26) Custode, ed uno de’ primi Padri d’ Arcadia, per la cui fondazione, propagamento, e difesa, siccome della più insigne Compagnia di Letterati, che da più secoli siasi raccolta, e per l’ immortalità, che ha data a tanti illustri nomi d’ Arti liberali, di Scienze, e di Scienziati, merita, che al suo infaticabile ingegno sia alzato in ogni Città aperta al commercio dell’ Italiane lettere un monumento. Cavata, ch’ ebbi da questa ricca miniera del mentovato, e non mai abbastanza lodato Crescimbeni, tutta la sostanza; e presa nota de’ Codici manoscritti delle Rime Provenzali in detto Volume allegati; e degli Autori parimente in esso citati; ed indi poi fatto lo spoglio delle Considerazioni del Tassoni sopra le Rime del Petrarca, del Vocabolario, o della Tavola dell’ Ubaldini al Barberino, e delle Annotazioni del Redi al suo Bacco in Toscana, vidi, che la raccolta delle Voci Provenzali cresceva, e di giorno in giorno notabilmente aumentavasi, e perciò altro luogo, e sito da quello, dove io aveva determinato collocarla, richiedeva. Laonde mi risolsi a farne un libro distinto, e di per se, con addurre sotto ciascheduna delle voci Provenzali, uno, o più esempli, sì de’ suddetti Maestri, e Padri della Poesia Volgare, che de’ Prosatori antichi, e tutte l’ autorità, che a mio uopo potessi ritrovare, con ribattere quelle, che mi fossero contrarie; onde sin d’ allora, che feci la nuova scoperta del suddetto tesoro, abbandonai la principiata Gramatica, di cui è rimasto un embrione, non senza speranza però, che possa un giorno uscire alla luce.


VIII. Così dunque, sull’ accennato progetto, e coll’ istesso motivo che ebbe l’ Accademia della Crusca nel porre nel suo Vocabolario al rincontro di alcuni vocaboli le voci greche, il qual motivo, altro non fu, che per agevolare con queste la dichiarazione di quelli, come avvertono gli Accademici (27); incominciai di bel nuovo ad operare con somma applicazione, e con acceso desiderio di giungerne a fine, colla speranza, che ciò farebbe caro alla mia Patria, e che me ne saperebbero grado non solo tutti quegli, che s’ interessano nella gloria della lingua Provenzale, ma eziandio gl’ Italiani, posciachè questi col mezzo degli esempli de’ Poeti, e scrittori Provenzali, posti accanto de’ Toscani, verrebbero più agevolmente in conoscimento della loro sonora, e per tutto ‘ l mondo rinomata favella; siccome in un certo modo considerarono gli stessi Accademici nell’ ultima compilazione del loro Vocabolario, dove tra le molte voci, che non furono registrate nelle antecedenti edizioni, vi aggiunsero questa: Plusori, col Provenzale accanto, che è Pluzors (28); e siccome altresì pubblicamente ammonisce alla suddetta Accademia, il dottissimo Abate Anton Maria Salvini nella sua Lezione fatta Per l’ apertura della generale Adunanza dell’ anno 1704., in parlando della nuova Crusca, che è per istamparsi, in questa guisa (29): Come tutte le lingue figliuole sono dell’ umano intelletto, e che queste secondano certi comuni movimenti dell’ animo, il confronto della nostra colle erudite lingue, e colle volgari vicine, di quanto avvantaggio non riuscirebbe egli per internarsi nella cognizione delle cose medesime, delle quali le parole sono immagini vive, ed impronte? E in quella Sopra la nuova edizione del Vocabolario (30): 

Il confronto di nostra Lingua coll’ erudite lingue, e co i volgari d’ Europa infinitamente cresce il diletto, e ‘ l frutto insieme. Soggiungendo (31): Non obbliai (dice egli) i Poeti Provenzali, che dallo inventare le parole, e la musica, Trovatori con acconcio nome chiamavano, i quali, come de’ Poeti Greci dice appresso Cicerone Antonio, sembrano con altro linguaggio aver parlato; così è egli strano, e a intendersi oggi duro, e malagevole. E per quelli in alcuna guisa intendere, il vecchio Gaulese, o Francesco idioma, curiosamente investigai, tutto per accattar lume, onde la nostra cara favella ne’ suoi principii, e progressi si rimirasse, ed illustrasse.


IX. E tanto più il sopraddetto motivo, che ebbero quegli Accademici di accoppiare le voci volgari, con le greche, m’ indusse a far l’ istesso del Toscano col Provenzale, quanto che la Lingua Toscana non si può ben intendere, senza l’ intelligenza della Provenzale, come lasciò scritto il sopra citato Benedetto Varchi in parlando del Cardinal Bembo (32): 

E perciò la bella, ed egregia Città di Firenze, donde presero le lor leggiadre maniere gli Scrittori di primo grido, de’ quali tutti ella fu Madre, o nudrice (33), intenta sempre a far lume agli studiosi della Toscana favella, insegnando il suo stesso Fiorentino parlare all’ Italia, che così, cioè Lingua Fiorentina, innanzi alle celebri controversie di nome su questo affare, dicevasi, conserva sino da’ tempi antichi nelle sue pubbliche, e private librerie, fra gli altri preziosi manoscritti, non solo la Gramatica Provenzale altra volta mentovata, ma eziandio il Glossario, l’ Onomastico, e ‘ l Rimario della medesima Lingua, de’ quali mss. si sono prevaluti l’ Ubaldini per dichiarazione delle voci del suo Vocabolario alle Rime di Francesco Barberini (34), il Redi per intelligenza, e comento del suo famoso Ditirambo titolato Bacco in Toscana (35), e il Salvini nelle sue Sposizioni sopra ‘ l Petrarca (36).


X. In questo stato, che quasi posso dire, che non avea fatto altro, che ‘ l solo disegno della macchina, fui costretto ad interromperne, e tralasciarne il lavoro, perciocchè s’ aveva da risolvere in Ruota la sopraccennata mia causa della elemosina del pane di Girona; ma all’ incontro poi, ottenuta in essa Causa, Sentenza, e Decreto favorevole, secondo ‘l tenore delle Sacre Ruotali Decisioni nella medesima pubblicate, e così difinita, e con somma mia quiete, e contentezza gloriosamente del tutto terminata; nel mentre che stava attendendo un’ altro decreto, cioè, quello della, molt’ anni, (a: Qui diu desiderata, spiega, e comenta il Vocabolario in questo passo di Dant. Purg. 10. alla voce Lacrimato) lacrimata pace, ebbi più agio di ripigliare, tutto lieto, e vittorioso l’ incominciato lavoro, e di spogliare le più famose librerie di Roma, ed altre d’ Italia, con tanto mio genio, e soddisfazione, che la dolcezza, che sentiva nel cavare dalle inesauste miniere di nostra Lingua le più fine, e le più riposte ricchezze per arricchirne, ed illustrarne quella de’ Toscani sua cara sorella, e quasi figliuola, e rendere per così fatto modo la medesima nostra diletta la Provenzale, gloriosissima, ed immortale, mi fece gittar dietro le spalle ogni altra cosa, che potesse cagionarmi disgusto, ed amarezza. Laonde dopo molti anni di studio, e d’ una inestimabile fatica, ecco finalmente, che ho ridotta l’ Opera a quel segno, che per me si è potuto il migliore, col mio Libro, che oggi con questo primo Volume (giacchè non ho tutto ‘l comodo per dar fuori a un tratto gli altri Volumi che seguono) incomincio ad esporre alla pubblica censura delle Accademie, e Letterarie Radunanze d’ Italia, e spezialmente di quella della Crusca, la quale, in questa materia di Lingua, ne ha sopra tutte l’ altre la sovranità, e suprema giurisdizione; e lo presento ai discreti, ed amorevoli Lettori in particolare, che supplico a voler degnarsi d’ accoglierlo sotto la loro protezione, e difesa; il che tanto più mi riprometto, quanto che trattandosi qui dell’ eccellenze, e qualità della Lingua Provenzale, e della Italiana, o di quella di Oc, e di quella di Sì, che così sono ottimamente appellate dall’ incomparabile Dante (37), onde prese la Gaule Narbonese il nome di Lenga d’ oc (38), che i Franzesi appellano malamente coll’ articolo maschile, le Languedoc; sotto le quali viene compresa la maggiore, e più bella parte d’ Europa, per conseguenza essendovi quasi tutti generalmente interessati, (potendo io dire, e in verità affermare, che non vi ho cosa particolare di mio, che ugualmente non sia loro) tocca a tutti e per obbligo, e per giustizia il difenderlo, come cosa propria, e naturale, e ritenerne perpetua, e generosa protezione, sì per quello che appartiene al Provenzale, come al Toscano, in quella maniera appunto, che sollecita, ed amorosa madre, ricca di doppia prole, con vie maggior cura, e tenero affetto l’ alimenta, e nodrisce.


XI. Quasi tutte le voci, e forme di dire, che per entro ‘l Libro ho annoverate, e registrate le ho cavate dal Vocabolario degli Accademici della Crusca, il quale in tutto ‘l corso del mio lavoro, ho avuto sempre davanti agli occhi, e non me lo son tolto mai di mano; riportando la sua medesima spiegazione, e dichiarazione de’ significati, e così anche ‘l Latino, come si legge in esso Vocabolario; e il medesimo ho fatto pure intorno al Greco, allorchè ho conosciuto, che la voce Provenzale sia dalla Greca originata, o che n’ abbia dependenza. Vi ho inseriti, o posti ancora molti degli esempli Toscani, acciocchè il Lettore possa più comodamente confrontargli con quelli dei Provenzali; e si veda, che da questi anno anche spesse fiate tolti i Rimatori, e Prosatori Toscani molti concetti, e molte invenzioni, come osservarono in parte il Bembo (39), l’ Equicola (40), il Bouche (41), il Paschieri (42), il Pittoni (43) i Nostradami (44), ed in particolare Gasparo Scuolano colle seguenti parole (45): “No se puede dexar entre renglones, que se pagaron tanto los Italianos de esta poetica invenzion y estilo de los Lemosines, que no solo les cogieron el arte, y metro, però aun las mesmas rimas traduzian en su lengua Italiana. Cien años antes que floreciesse el Petrarca, es à saber, el año mil doscientos y cinquenta, viviò en nuestra Ciudad un Cavallero famoso Poeta llamado Mossen Jordi, criado en la Corte del Rey Don Jayme el Conquistador; el qual con mucha gala usò de Sonetos, Sextiles, Terceroles, y Octavas rimas en Lengua Valenciana Lemosina. Y viniendo despues al Mundo el Petrarca, en el año de mil trescientos, y ventisiete, que se enamorò de madama Laura, llamandole su estrella al mayor lauro que Poeta vulgar ha podido conseguir, se valiò de las Obras deste insigne Valenciano, vendiendolas al Mundo por suyas en lengua Italiana. Pudiera dar por testigos à muchas de ellas, però contentareme con sola esta.

El Petrarca dice:

Pace non trovo, e non ho da far guerra;

E volo sopra ‘l Cielo, e giaccio in terra;

E nulla stringo, e tutto ‘l Mondo abbraccio;

Ed ho in odio me stesso, ed amo altrui:

S’ amor non è, che dunque è quel, ch’ io sento?

Mossen Jordi dixo:

E non he pau, e no tinc quim’ querreig;

Vol sobre l’ Cel, e nom’ movi de terra, 

E no estrench res, e tot lo Mon abràs;

Oy he de mi, e vull a altri gran be:

Si no es Amor, donchs açò que serà?

que traduzidos en Castellano quieren dezir: 

No tengo paz, y nadie me haze guerra;

Voy por los Cielos, sin dexar el suelo; 

Nada recojo, y todo el Mundo abraço;

A mi mesmo aborrezco, y amo a otri:

Y si esto no es Amor, que es lo que siento? 

El modo como pudieron llegar las Obras de Mossen Jordi Cavallero Valenciano a las manos del Petrarca, lo escrive nuestro Antonio Beuter en la Epistola proemial de su Coronica; donde dize, que hallandose en Gascuña con Don Jayme Colona Obispo de Lumbierri, en tiempo del Papa Juan XXIII. como llegasse à las rayzes de los Pyrineos (segun se comprehende de los Comentarios de Alexandro Vellutello en la Vida que escriviò del Petrarca) pudieron venir a sus codiciosos ojos, como tentados de aquel manjar, las rimas del dicho Cavallero, que ya entonces corrian por Cataluña, y Gascuña con grande renombre de su Autor; y entonces le desentrañò el estilo, las agudezas, ternuras, y conceptos, passandolo todo a su proposito, y Lengua.


XII. E qui di passaggio mi sia permesso il soggiugnere, e avvertire, che i primi tre versi de i cinque sopra trascritti del Petrarca sono del primo quadernario del Sonetto 103. part. I., che appunto incomincia Pace non trovo, ec. del qual Sonetto confessa Alessandro Tassoni nelle sue Considerazioni sopra le Rime di esso Petrarca, non ostante ‘l suo genio sempremai critico, ed alla censura inclinato, che non senza ragione vien lodato, ed ammirato da’ begli ‘ngegni; e il quarto, cioè Ed ho in odio me stesso ec. è del primo ternario del medesimo Sonetto; e il quinto S’ Amor non è ec. è principio del Sonetto 101. della suddetta parte prima, intorno al quale attesta parimente l’ istesso Tassoni, che senza alcun dubbio è ottimo. E di quì, allo ‘ncontro, può avvertire il Lettore, come ingiustamente, ed a gran torto dice esso Tassoni nella Prefazione delle predette sue Considerazioni, che ha proccurato liberar, 

sopra tutto l’ Autore da varie opposizioni, e calunnie di Scrittori diversi, tra le quali questa è la prima: Ch’ egli rubasse molte invenzioni, e concetti ad altri Poeti Toscani, e Provenzali, ch’ erano stati prima di lui; e che avendo lette la maggior parte dell’ Opere de’ Poeti Provenzali, nè solamente furto alcuno di rilievo non ho trovato: ma nè anche (son per dire) cosa degna, che un’ ingegno, come quello del Petrarca se n’ invaghisse; così son elle per lo più scarse al peso, e di quà dal segno della mediocrità. Giacchè egli voleva liberar il Petrarca, come dice di simili opposizioni, potea prevalersi per la difesa, ed apologia, senza biasimare l’ Opere di quei nostri Maestri, e Padri della Poesia volgare, dell’ autorità del Bembo, il quale intorno a questo nostro proposito così lasciò scritto (46): Ne solamente molte voci, come si vede, o pure alquanti modi del dire presero dalla Provenza i Toscani; anzi essi ancora molte figure del parlare, molte sentenze, molti argomenti di Canzoni, molti versi medesimi le furarono; e più ne furaron quelli, che’ maggiori stati sono, e miglior Poeti reputati. Il che agevolmente vederà, chiunque le Provenzali rime piglierà fatica di leggere. Ed indi l’ eruditissimo Abate Anton Maria Salvini, allorachè dimostrando, che per arrivare alla perfezione, ed all’ eccellenza nell’ arti, e nelle scienze, niuna strada vi ha più facile, nè più spedita, che l’ imitazione degli ottimi autori, che è quella, che vi conduce dirittamente, disse in lode dello stesso Petrarca (47): Non pure la Latina Lingua affatto perduta, ricondusse a novella vigorosa vita, ma nel Toscano Idioma molto osservò, e molto prese dagli antichi rimatori Provenzali.


XIII. In somma ritornando al Testo del suddetto Vocabolario, egli è stato il primo fondamento, e la principale base del mio Libro; e perciò solamente, l’ ho intitolato col nome della Crusca Provenzale; protestandomi però, che non pretendo con simil titolo, arrogarmi nella mia Lingua, il singolar privilegio, che intorno all’ Idioma Toscano gode l’ Accademia della Crusca, più d’ un secolo fa, cioè di abburattare, e cernere dalla crusca la farina degli Autori, che a questo fine di mano in mano se le presentano innanzi, posciachè, se ciò mi fosse lecito, (benchè col solo nome della Crusca, così assolutamente detto, s’ intenda in materia di Lingua, l’ istesso Vocabolario; e quasi si può dire, che questo suo metaforico significato, abbia usurpato il primo luogo al proprio) allora poi, il più bel fiore della Toscana Favella, in vece della Crusca Provenzale l’ avrei intitolato; per essere tutti i vocaboli, e parlari, che dal medesimo Vocabolario degli Accademici della Crusca ho cavati, e che gli Scrittori Toscani del buon secolo con finissima scelta presero dall’ Idioma Provenzale, il più bel fiore cogliendone, come fece, tra gli altri, qual’ ape ingegnosa (48), il Barberino; de’ più leggiadri, e de’ più sonori, e de’ più belli, ch’ abbia la Lingua Toscana, come ci avvertisce il Salviati (49); co i quali, gli stessi Toscani Scrittori, la favella loro, ancora in alcuna parte manchevole, di nuovi abbellimenti, e di nuove preziose ricchezze adornarono, come afferma Tommaso Bonavventuri (50); avendo così ingegnosamente la loro Poesia altresì renduta vaga molto, e ricca, e splendiente, come pubblica lo spesso (stesso) mentovato Anton Maria Salvini nelle sue eloquentissime Toscane Prose (51). 


XIV. Base, e fondamento in secondo luogo, di questo Libro, non meno che chiara fontana della nostra Provenzale Favella, sono stati quegli Autori, che scrissero con ogni purezza, e proprietà di Lingua, come sono comunemente quegli, che scrissero nell’ età d’ oro, che così chiamerò io il tempo in cui ella fioriva, siccome anno fatto alcuni Scrittori Latini, appellando così il tempo della lingua Latina, quando era in fiore (52); e i Toscani, respettivamente, il buon secolo del Volgar loro, quel tempo dal 1300. al 1400., nel quale veramente e si parlò, e si scrisse in Firenze con intera schiettezza, è senza quella varietà, e barbarie, che indusse poi il rimescolamento cogli altri dialetti, e lo studio posto nella Lingua Latina, che indusse per cotal guisa trascuranza della materna, come attestano gli Accademici della Crusca nella Prefazione del predetto Vocabolario.


XV. Questa età d’ oro, o questo tempo della purità, e bellezza del nostro Provenzal Idioma, si debbe contare, incominciando dal principio del Secolo XI., o in quel torno, fino all’ anno 1479., o poco dopo, nel qual’ anno s’ unì la Corona d’ Aragona con quella di Castiglia, per mezzo del parentado del Re d’ Aragona Don Ferdinando II., colla Regina di Castiglia Donna Isabella; imperciocchè in tutto detto spazio, e corso di tempo, e si parlò, e si scrisse in Catalogna (e in Valenza ancora fino dal tempo della sua conquista fatta dal Re Don Giacomo minato Lo Conquistador) senza quella varietà, per non dir barbarie, che introdusse poi a poco a poco il rimescolamento con altre lingue, ed in ispeziale lo studio posto nella Castigliana, che indusse per così fatto modo trascuranza della materna, benchè nel Tuddetto anno dell’ unione, ed alleanza delle due Corone, ancora fosse essa Castigliana rozza molto, e povera, e incolta, come vederemo appresso; onde alcuni, perduto l’ amore alla natural favella, di nuove, e straniere forme di parlare, ed al genio di essa non punto convenevoli la infettarono, ed altri, non istimando se non quel che è forestiero, a scrivere si posero in Castigliano, mettendo in non cale la propria, il che fu chiaramente accennato dal sopraccitato Gasparo Scuolano Annalista del Regno di Valenza con queste parole (53): “Con su hermosura natural se hallava tan adelantada, &c. que si como sus hijos con la agudeza de sus picos la fueron puliendo, y realçando hasta los años de mil quinientos y cinquenta, durára en el passo que llevava, llegára à los quilates mayores que puede la que mas tiene, com (como) lo ha hecho la Castellana de cien años a esta parte, teniendo en los de atràs tan grosseros principios. Però como el Imperio de la Corona de Aragon se passò à la de Castilla, incorporandose las Coronas, parece, que tambien se han querido incorporar las lenguas; tanto, que entrandose la Castellana por los mojones de Valencia, se ha enseñoreado de suerte del gusto de todos, que la natural Valenciana ha ydo afloxando de su vigor, y dexado de passar adelante en la nobleza, à que nuestros passados con tanta gloria suya la havian subido.”


XVI. E poichè ho toccata questa materia attenente all’ Istoria della nostra lingua, voglio far avvertiti i Lettori, particolarmente gl’ Italiani, che sebbene nell’ accennato tempo, cominciò essa ne’ suddetti Stati di Catalogna, e di Valenza, a declinare, e scemar di pregio; ma non coll’ istesso passo che nella Provenza, allora che in essa Contea s’ estinse la regia stirpe Catalana de’ Beringhieri, e in lor vece succederono, o per dir meglio vi si intrussero i Conti Angioini. In Provenza però nel tempo che’ l Cardinal Bembo scrisse le sue Prose, e che’ l Contado era unito col Regno de’ Franzesi, il che addivenne nel 1481. per morte del Conte Carlo d’ Angiò, che ne lasciò erede il Re Luigi XI., già quei popoli in gran parte corrottamente parlavano, come dice lo steso Bembo (54); e poi andò talmente in quelle contrade peggiorando, e di secolo in secolo perdendo il buon linguaggio nativo, che oggidì quasi sicuramente affermare fi può, che sia morto, non che corrotto in bocca de i medesimi popoli, ed altri dell’ Occitania, ed Aquitania: Ma in bocca de i popoli del Principato di Catalogna, e de’ Regni di Valenza, Majorica, Minorica, ed Iviza, sempre si è conservato vivo, e poco meno, che nel suo intero essere, fuorchè in alcuni vocaboli de’ più antichi, a cui ne sono stati sostituiti altri di nuovi, siccome sogliono far sempre tutte le lingue viventi; onde vedemo nelle Città d’ Italia, se ben volemo guardare, da cinquanta anni in quà molti vocaboli essere spenti, e nati, e variati, come disse Dante (55);

—– e ciò conviene (56): 

Che l’ uso de’ mortali è, come fronda 

In ramo, che sen va, ed altra viene. 

Onde Orazio parlando de’ vocaboli antichi, e moderni (57):

Multa renascentur, quae jam cecidere, cadentque 

Quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus, 

Que penes arbitriú est, & vis, & norma loquendi: 

e al medesimo proposito Terenzio Varrone (58): 

Consuetudinem loquendi esse in motu, itaque solere fieri ex meliore deteriorem: Vetustas enim, non pauca depravat, multa tollit.


XVII. Anzi nel Principato di Catalogna sul principio dell’ ultimo trascorso secolo, il nostro rinomatissimo Poeta il Dottor Vincenzio Garzia, e con esso lui Lo Regalo (delizia) de las Musas Don Joan de Boxadòs, e Lo esglay (spavento) d’ Apolo Cordellas, oltre agli altri molti, che in quel tempo fiorirono, come Don Francisco de Ayguaviva, Don Felip de Guimerà, e cento più, de’ quali fa egli menzione (59: Vincenzio Garzia nelle sue Rime a c. 121., e 122.), gli fecero mirabilmente rialzar il volo; onde lo stesso Garzia tra i suoi Sonetti (60: Il Garzia suddetto a car. 3.): 

Gaste (adoperi) qui de las flors de Poesia 

Toyas (mazzi di fiori) vol consagrar als ulls, (occhi) que adora,

Del ric aljofar (piccola perla; ma quì per metaf., Rugiada) que plora l’ Aurora,  

Quant li convinga dir, ques’ fa de dia. 

Si de Abril parla, pinte l’ alegria

Ab que desplega sas catifas (tappeti) Flora, 

O a Filomena, mentre cantant plora, 

De ram en ram, la llengua, que tenia.

A qui s’ diu Isabel, digali Isbella;

Sol, y Estelas als ulls; als llavis (a’ labbri) grana;

Llocs comuns de las Musas de Castella:

Que jo, peraquè sapia Tecla, o Joana, 

Qu’ estic perdut, per tot quant veig en ella, 

Prou tinc (mi basta) de la llanesa (schiettezza, purità) Catalana.

e nelle Cobbole (61: Luogo citato fogl. 122.):

No diu lo Senyor (b) Heredia

Que (c) gongorejo, y sò sol

Lo qui nostra axuta llengua 

La destrempo ab ayguarròs? 

Non dice il Signor Eredia,

Che gongorreggio? e ch’ io solo sono

Colui, che nostra asciutta lingua

Stempero con acqua rosa? 


(b) Heredia: Don Giuseppe Heredia famoso Poeta Castigliano coetaneo del Garzia.


(c) Gongorejo cioè, che scrivo alla maniera di Don Luigi di Gongora, che è il Principe de’ Poeti Castigliani, si per l’ invenzione, come per la purità, e finezza di linguaggio.


E oggi giorno col mezzo della moderna Accademia dels Desconfiats (de’ Diffidati) eretta in Barcellona nel 1700., sotto la protezione di NOSTRA DONNA DI MONSERRATO, per far argine, e difesa alle inondazioni di stravolte locuzioni, che sovrastavano, opponendosi a così precipitoso torrente di nuovi barbari, e stranieri vocaboli, ei suoi legittimi, che dolcissimi, e belli sono, con franco cuore valorosamente riparando, farebbe forse la Lingua Provenzale salita altra volta a quel grado d’ onore, e di gloria, in cui ella salì nell’ età d’ oro, o del gay saber (cioè del gajo savere, o della gaja scienza, che così chiamavano i nostri antichi l’ arte del rimare (62) se non fossero sopraggiunti i travagli, e flagelli delle guerre, che misero il Principato sottosopra, ed in particolare la sua Capitale mia Patria, come è ben noto, ed espresse il letteratissimo Annibale Marchese ne’ due ultimi versi della seguente ottava (63):

E solo immota Barcellona resta 

Incontr’ al campo de l’ irato Ispano: 

Sì sprezza in nostro mar lieve tempesta

Gran nave usa al furor de l’ Oceano: 

Ma scende il Gallo numeroso, e infesta 

Sue mura sì, ch’ ogni contrasto è vano.

Onde al fin, pria che vinta, assorta cade 

Da tempestoso mar di fiamme, e spade. 

XVIII. Circa la qualità degli Scrittori Provenzali, e de i loro componimenti per entro il Libro allegati, avverto, che se ne dà contezza nelle Tavole de’ medesimi, che faranno poste appresso, ove si dà ragguaglio ancora, di vari Codici antichi MSS. Provenzali, massimamente di quelli, che della medesima Lingua ho incontrati nella Biblioteca Vaticana, avendo avuto il bel comodo di spogliarli, per singolar favore compartitomi dal dottissimo Monsignor Michelangelo Majella primo Custode di essa; i quali Codici Vaticani sono i più ricchi arnesi, per così dire, che abbia la guardaroba della nostra Lingua; oltre a quelli preziosi avanzi, che se ne conservano nella Real Libreria Medicea Laurenziana, che, quando mi ritruovava (ritrovava) in Firenze, ebbi parimente il comodo di smidollare, mercè alla gentilezza del suo Bibliotecario l’ eruditissimo Dottor Anton Maria Biscioni. Avverto in oltre, che siccome nel Vocabolario della Crusca non si è osservato di metter sempre nel primo luogo l’ esemplo dello Scrittore, o più autorevole, o più nobile, ma sovente si è collocato per primo, il più acconcio alla dichiarazion della voce, come avvertono gli Accademici nella citata loro Prefazione; così anch’ io ho praticato, seguitando l’ orme impresse da quei valentuomini, senza badare a simile osservazione di nobiltà, e precedenza. Questo bene è stato da me esattamente osservato, di allegar prima i Poeti antichi, che gli Scrittori, o i Poeti moderni; ed in particolare ho posta ogni diligenza in proccurare, che sotto ciascheduna delle voci vi fosse almeno un’ esempio di Scrittore Provenzale più antico de i Toscani citati nel Vocabolario. Egli è però ben vero, che in alcune poche voci mi sono dispensato di usare simile diligenza, o sia, perchè il Vocabolario non vi rinvenga alcun esemplo; o perchè sono già d’ altra parte difese, e per Provenzali autenticate da alcuno degli Scrittori, e letterati di primo grido, e della Lingua Provenzale pratichissimi, come dal gran Bembo, il quale colle sue regole in fiorito stile dettate, alzò primo l’ insegna al bel Toscano parlare; e successivamente da quei gloriosi seguaci, che dietro alla bandiera da esso lui inalborata con bella mostra di mano in mano schierati si vedono, cioè il Varchi, il Tassoni, l’ Ubaldini, il Redi, il Salvini, e il Crescimbeni: o sia pure, perchè sono già per tali confermate dall’ uso, essendomi perciò prevaluto talora di alcuni nobili Scrittori de’ tempi bassi, come del Garzia, e del Fontanella, che così respettivamente anno fatto ancora i mentovati Accademici.


XIX. Sul principio della mia fatica aveva fatto pensiero di trasportare in Toscano tutti gli esempi, o passi degli antichi Poeti Provenzali, che per entro’ l Libro s’ allegano; ma considerando poi, che ciò farebbe soverchia macchina, ho tradotti solamente i più difficili, come, tra gli altri passi, e componimenti, la Sestina, che fece Arnaldo Daniello, il quale fu l’ inventore di questa spezie di Poesia, che ho trascritta sotto la medesima voce Sestina; e così le Cobbole in forma di Dialogo tra Giovanni d’ Albuzon, e Niccoletto di Turino, che ho trasportate alla voce Cobbola; e la Tenzone fra Salvarico di Malleone, Anselmo Faidit, e Ugo della Bacalaria, che parimente ho riportata alla voce Tenzone ec. 

Ma non mi sono obbligato di tradurli in versi, se non dove è tornato bene, acciocchè meglio si conosca la qualità de’ sentimenti passati dalla Provenza, e Catalogna nella Toscana. Quando poi per entro i passi, ed esempli allegati, che non sono stati tradotti, vi ho trovato alcune parole difficili, ed oscure, non ho mancato di spiegarle, con farvi la chiosa Toscana.


XX. Quelle voci, che dalla ingiuria de’ tempi sono state spente, e sbandite della nostra Contea, e che non si trovano, che ne i libri antichi, le ho talora contrasegnate con notarle dopo gli esempli Provenzali, per voci disusate, o vero antiche, e vi ho contrapposte, e rinvergate le moderne. Ma non per tanto pretendo confermare il loro sbandimento; anzi vorrei commendarne l’ uso agli studiosi, ed amatori della nostra Lingua, usandole però con giudizio, e con parsimonia; ben avvertito dal Maestro della Toscana, e Greca eloquenza, e di tutte le principali lingue, allorachè in uno de’ suoi pubblici, e gravissimi Ragionamenti Accademici disse (64): In primo luogo antica dovrebbe essere la favella; nè ciò vi paja crudo, o strano, o Signori, che ben so, che quell’ antico sapientissimamente disse; usa costumi antichi, ma parole del secolo; e Salustio principale Autore della Storia Romana, per le parole, e frasi sue, fu tacciato come affettatore d’ antichità. E Giulio Cesare una disusata parola, e dismessa, disse essere da schifare come scoglio. Voglio dire antica, cioè pura, semplice, monda, netta; quale nel loro tempo usavano i buoni antichi, de’ quali eran proprie virtù, la forza dell’ espressione, la nuda, e schietta proprietà, la breviloquenza; gli arcaismi ancora, o vogliam (vogliamo) dire, l’ antiche voci, e maniere troppo usate, facendo il parlare enimmatico, ma con parca, e sospesa mano, e a tempo, e luogo impiegate, dando maestà al discorso, ed efficacia, in cui all’ antico ben collocato, suole andar dietro un non so che di pellegrino, e di grazioso. E ottimamente i maggiori nostri Accademici ci proposero per idea del parlare gli antichi; poichè essi parlavano col linguaggio del cuore, e i moderni Componimenti possono essere bene più sublimi in parte, e più adorni, ma non già per ventura in universale più toccanti: e altrove (65): tutte le parole si poson dire in suo luogo, e tempo, e col senno; e dagli Accademici della Crusca (66) altresì, che tutte le parole a’ loro luoghi ottimamente si adoperano, e tornan bene, come sovente egli avviene d’ alcuna pittura, che fuori del suo lume non rilieva, e tale ora si mostra sproporzionata, che poi collocata al suo luogo, dà altrui negli occhi, e nella aggiustata veduta non che si mostri, e ben proporzionata, e ben condotta, ma spicca a maraviglia, e campeggia.


XXI. Diversamente usò Pietro di Corbiacco, uno de’ Padri, e Maestri della Poesia volgare, allora che delle più alte materie, e scienze prese altamente a trattare in quel suo veramente aureo Poema titolato il Tesoro, detto Provenzalmente Lo Tresor de Maestre Peire (o Pere) de Corbiac, esistente nella Biblioteca Vaticana (67), che quando a diporto della sua Donna vaghe canzonette compose. Altre voci adoperò Ramondo della Torre da Marsiglia, descrivendo l’ eccellenze della bella, sopra tutte le belle Città Dels Florentins, qu’ om appella Florenza (68), che quando si mise a discorrere delle guerre, che correvano tra i Principi del suo tempo. Con altre frasi, molti de’ nostri Maestri, e Padri della volgar Poesia si misero divinamente a cantare le lodi della BEATISSIMA VERGINE, e fra essi Pietro Guglielmo, e Lanfranco Cicala, che quando i vizi di quella età ne’ loro famosissimi Serventesi presero a rimproverare. Nella Storia di Tirant lo Blanc, che si conserva nella Libreria della Sapienza di Roma, composta dal Cavalier Pietro Giovanni Martorell, uno de’ più chiari lumi della nostra Lingua, con altre forme risponde esso Tirante al Cavalier delle Ville-Erme, suo rivale (69); e con diverso stile scrive alla sua bella ugualmente, e costante Principessa Carmesina (70). Lo stesso Martorelli, non in persona d’ altri, ma per se proprio, con altri modi scrive dalla nobilissima Città di Valenza sua Patria, alla Maestà del Re di Portogallo Don Fernando, dedicandole la suddetta Storia; e con altra maniera parla co’ Lettori nel Proemio della medesima. Laonde, il buon giudicio dello Scrittore, come soggiungono i mentovati Accademici, può solamente scieglier le voci, adattar le locuzioni, accomodar le maniere, all’ occasioni, alle materie, a’ tempi, alle persone; nè vi ha regola si presissa, che possa servir d’ istruzione alle Scritture.


XXII. L’ ortografia degli antichi era pessima, e confusissima, imperocchè, oltre che non adoperavano nè l’ apostrofo, nè la virgola, nè l’ accento, e le lettere maggiori, o majuscole solamente le usavano ne’ capi versi, attaccavano per lo più gli articoli co i nomi, e di due, e tre, e più vocaboli alle volte non ne facevano altro, che uno, unendogli in una sola figura, ed all’ incontro, in due, e tre figure qualche volta un sol vocabolo dividevano; il che reca non poca confusione a chiunque non abbia cognizione dello sregolato scrivere di quei tempi, o che non sia pratico in materia di Lingua; ed è stato cagione di molti sbagli, come appieno dimostrano le Annotazioni, e gli Avvertimenti di tutti coloro, che nel secolo XVI. furono Deputati in Firenze dal Serenissimo Granduca alla correzione del Boccaccio, per ridurlo alla sua vera, ed intera lezione. Onde per agevolare al Lettore l’ intelligenza degli esempi, e de’ passi antichi Provenzali, ho proccurato di ridurli alla più chiara, e distinta ortografia; circa la quale mi sono per lo più conformato con quella, che ritennero gli Accademici Barcellonesi nella impressione delle Rime del nostro Garzia: Ma non per ciò si credano gli amatori della sempremai veneranda antichità, ch’ io abbia voluto in parte alcuna derogare alla fedeltà, e legalità de’ Codici, e testi antichi, perchè altro non vi ho fatto, che aggiungervi le virgole, gli accenti, gli apostrofi, e distaccare gli articoli da i nomi, e cose simili, come si può vedere col rincontro degli stessi originali, mentre che di tutti cito puntualmente i numeri, le carte, le colonne, o altre somiglianti individuazioni, e in ciò mi sono affaticato viepiù, che non anno fatto altri molti in simili allegazioni: Anzi talora ne ho riportati alcuni nell’ istesso modo, che sono scritti ne i testi, senza aggiugnervi (aggiungervi) una virgola, e senza alterarvi la minima cosa, acciocchè possa vedere il curioso Lettore l’ ortografia di quei tempi, come ho fatto nel Componimento di Giuffredo Rudello, che nel presente primo 

Volume ho trascritto, e tradotto in Toscano, sul principio de i Preliminari toccanti la natura, e qualità delle Lettere dell’ Abbiccì Toscano, e Provenzale; siccome anche nella mentovata Sestina di Arnaldo, e nelle sopraddette Gobbole (Cobbole) di Giovanni d’ Albuzon, ed in altri. 


XXIII. Per entro le Storie, e Croniche di Francia stampate in Franzese si truovano molti atti, e frammenti di Scritti Provenzali antichi, i quali sono per lo più storpi, e monstruosi anzi che nò, poichè sembra, che in due lingue dettati, e formati sieno, cioè in Provenzale, e in Franzese, e non già in Provenzale schietto, per essere, come in vero sono la maggior parte malamente infranzesiti, come lo sono altresì quei versi Provenzali di Dante nel Canto XXVI. del Purgatorio, ove introduce il suddetto Daniello a parlare in suo linguaggio Provenzale, come osservarono il Varchi (71), e il Castelvetro (72), e ultimamente l’ eruditissimo Abate Anton Maria Salvini riferito dal Crescimbeni nella seguente Annotazione (73). 

“Ed in questo proposito notisi, che nel Dante della Crusca, come ci ha avvertito il dottissimo Anton Maria Salvini, è posto Jeu suis, per Eu soi, e nella Stampa de’ Giunti di Firenze dell’ anno 1506. questo Provenzale è infranzesito a proposito, con dire cortois in vece di cortès: joyeulx in luogo di jausen; ore in cambio di ara: pleure per plor, e simili. E lo avvertì poi egli stesso nelle sue Prose Toscane (74) così: “Di questi Trovatori, o Poeti (Provenzali) il più famoso fu Arnaldo Daniello fatto parlare in sua lingua da Dante nel Purgatorio: 

Eu soi Arnaut qi plor e vai cantan.

Arnaldo io son, che piango, e vo cantando, che alcuni malamente riformano nel Franzese, dicendo in vece di Eu soi, Je suis. «E di quì è, che’ l Landino, nel suo Comento sopra esso Dante, parlando de’ medesimi versi, nell’ accennato modo infranzesiti (come anno quasi tutti i testi stampati) senza aver egli consultato i buoni, e più sicuri manoscritti, disse: Scrisse questi versi il Poeta (Dante) parte in Lingua Franzese, e parte in Catalana, perchè Arnaldo era dotto nell’ una, e nell’ altra Lingua. Laonde, quando nell’ adoperare i passi, o esempi di simili scritture, vi ho trovate delle parole infranzesite, gli ho ridotti al loro vero dialetto Provenzale, senza renderne conto, nè ragione al Lettore, per altro ben avvertito da quel che intorno a questo proposito lasciò scritto Raimondo Vidal, più secoli sono, nel suo Libro del poetar volgare (75), que tuyt aquel, qe dizon amis per amics, e moi per me &c. tut fallon, qe paraulas son franzesas, e no las deu hom mesclar ab lemosinas cioè: che tutti quelli, che dicono amis per amics, e moi per me &c. tutti fallano, per essere parole della Lingua Franzese, le quali non si debbono mescolare col Provenzale, o Limosino, ch’ è il medesimo. Quando però mi è convenuto rassettare qualche parola de’ Codici MSS. storpia da’ trascrittori, e copiatori di quell’ età, i quali badavano assai più alla bellezza, ed apparenza de’ caratteri, che all’ arte di rettamente scrivere; e che la differenza sia sì notabile, che ne faccia variare il senso, o il significato, o che malagevolmente s’ intenda che cosa voglia dire, in cotal caso ne rendo la ragione, come nel passo del Monaco di Montaudone, che allego alla voce Sonetto, il qual passo, o esempio, per leggersi scorretto ne’ testi, fece prendere sbaglio all’ Ubaldini nella parola Lombarda Mo della sua Tavola al Barberino.


XXIV. Alcuni degli Autori, o Vocabolistari, e comunemente tutti quelli, che non anno avuta molta cognizione della nostra Lingua, si sono creduti, che fosse la medesima, che la Franzese, ed anno scambievolmente presa l’ una per l’ altra, senza farvi differenza; come abbiamo da’ Deputati del 73. i quali parlando nel Proemio delle loro Annotazioni, d’ un certo libretto scritto nel buon secolo della Lingua Toscana, contenente alcuni miracoli della SANTISSIMA VERGINE, dicono così: Per la maggior parte ha sapore essere cavato dal Provenzale, o dal Francesco, che dir si debbia: Che quantunque fra queste lingue fino allora avesse alcuna differenzia (molta, e non alcuna, anzi sono elleno del tutto differenti, come avverte il Salvini 

(76), e Fazio Uberti lo mostri manifestamente, nondimeno secondo l’ uso comune di que’ tempi, abbiamo indifferentemente preso, ed usato questo nome, ed a questa occasione non è stato male avvertirne il Lettore. Onde non rechi maraviglia, se in cotali Vocabolistari, e Glosatori, vi si troveranno alcune voci allegate per Provenzali, che non sono registrate, nè annoverate nel mio Libro, perchè a bella posta le ho rigettate, ed escluse per non essere nostrali.


XXV. E se bene, all’ incontro, ve ne sieno registrate di quelle, che alcuni di tali Autori anno annoverate per Francesche, le quali col Franzese veramente gran somiglianza, ed affinità si vede, che anno, verbigrazia coraggio, naverare ec., e che per conseguenza parrà a più d’ uno, che da quell’ Idioma vago, e leggiadro sieno state tolte piuttosto, che dal Provenzale; Debbo quì generalmente avvertire, che non è cotale somiglianza sì perfetta, e sì uniforme, com’ è quella, che anno col Provenzale, come si dimostrerà a’ loro luoghi: Ed in oltre, che i Franzesi non possono allegare degli esempli, così antichi, come sono quelli de’ nostri Provenzali, giacchè era, come dice il Bembo (77), per tutto il Ponente la favella Provenzale ne’ tempi, ne’ quali ella fiorì, in prezzo, e in istima molta, e tra tutti gli altri idiomi di quelle parti di gran lunga primiera: conciossiacosachè ciascuno o Francese, o Fiamingo, o Guascone, o Borgognone, o altramente di quelle Nazioni, che egli si fosse, il quale bene scrivere, e spezialmente verseggiar volesse; quantunque egli Provenzale non fosse, lo faceva Provenzalmente.


XXVI. Anzi tutte le nostre voci, che anno uniformità, e amistanza col Franzese, le anno certamente i Franzesi tolte dal Provenzale, come afferma Cesare di Nostradama colle sue autorità, che ad altro effetto si sono dedotte, e trascritte di sopra ne’ numeri IV. e VI. E ciò si conferma col riflettere, che nella Corte de i Re di Francia, e generalmente in tutto quel Regno, e si usasse, e si parlasse questa nostra dolce, e gentil favella molti anni prima, che la Franzese, come attestano parecchi Autori di varie Nazioni, particolarmente il Presidente Claudio Fauchet Franzese (78), e dopo di lui il celebre Carlo Du-Fresne della medesima Nazione (abbiano pazienza i Franzesi, se non seguo la moda, per citare, e trascrivere così spesso le loro autorità) ne’ numeri 34. 35. e 36. della Prefazione del suo Glossario agli Scrittori della mezzana, e bassa latinità, col seguente discorso. “At quam Romanam nostri, Limosinam appellavere non modò Itali, sed & Hispani praesertim, apud quos diu in usu fuerit. Ex quo enim exacti ab Hispania Mauri, redactum est potissimum vulgare Idioma ad tres Linguas, Vasconicam, seu Biscainam, quae in Biscaia, Navarra, Guipuscoa, & Alva (Álava, Araba) obtinuit: Castellanam alteram, quae rarioris fuit usus, utpotè barbaris aspersa vocabulis, à quibus tum demùm est purgata, cum ad unicum Principem tota Hispaniarum potestas rediit. Hac autem Lingua usi praesertim Castellani, Toletani, Leonenses, Asturienses, Extremadurenses, & Granatenses. Sed & viguit in Gallicia, Andalucia, Lusitania, ac Aragonia, exteris subinde vocabulis, Arabicis, Francicis, aliisque intermixta. Tertia denique fuit Limosina, cujus usus fuit in Catalania, in Comitatibus Ruscinonensi, &  Ceritanensi, in Aquitania, & Occitania, atque adeò, ut Scriptores Hispani volunt IN IPSA REGUM NOSTRORUM AULA. A Catalania in Valentiae, Maioricae, & Minoricae Regna postea transiit, quod ea ad Barcinonenses Principes perinde spectarint &c. EA QUIPPE LINGUA NITIDA ADEO, FLORIDA, CULTA, AC POLITA HABITA EST, UT NULLA FERE’ EXTITERIT REGIO, IN QUAM NON IMMISSA FUERIT, cum maximè in Principum aulis magno in pretio haberentur Poetae Provinciales, eorumque poemata, ut genio quasi dotata singulari, ubique ferè legerentur. Escolanus, & Boschus de hac Lingua scribentes, ajunt, quod fuit. Tant graciosa, sentenciosa, y dolça, que noy ha llengua que ab mes breus (d) paraulas diga mes alts, y millors conceptes tenint en tot una viva semblança ab sa Mare Llatina. Ella fonc la que donà principi als Versos, y Rimas que s’ usan en Roma (leggi en Romanz, cioè in Romanze, in Volgare) cantant ab ellas ab so 

de consonancias las dissonancias de las passions ab aguts, y dolços pensamens &c.” Subdunt deinde hujus Idiomatis vocabulis crebriùs poëmata sua aspersisse Petrarcham, quod observarunt etiam ejus Interpretes. Raymundus Montanerius qui vixit circa annum 1300. Historiam suam hac Lingua exaravit: & Carbonellus in Chronico, ejusdem Idiomatis Tabulas, variaque acta descripsit. Certè Linguam hanc, Provincialem scilicet, IN REGUM NOSTRORUM PALATIIS PRIMITUS USITATAM, evincunt que (e con rabito) ex ea delibavit Nithardus lib. 3. à quo Romana appellatur, quae haud omnino diversa ab ea, qua utuntur Provinciales nostri: quod facile erit assequi utramque comparanti. Undè rectè, opinor, dixit Vadianus l. de Monast. Germ. Salicam Legem Romanos, hoc est, Provinciales vocare, qui Romana, id est, Provinciali lingua utebantur: Cum Provincialium nomine omnes de Alvernia, & Vasconia, & Gothos Provinciales appellatos autor sit Raymundus de Agiles in Histor. Hierosol. Ut verò res plana fiat, placet Sacramentum Ludovici Regis, cujus meminimus, Romana Lingua descriptum à Nithardo hic proponere. – Cumque Karolus, (inquit) haec eadem verba Romana Lingua perorasset, Lodhuvicus, quoniam major natu erat, prior haec deinde se servaturum testatus est: Pro Deo amor, & pro Christian poblo, & nostro comun salvament dist di en avant, in quant Deus savir, & podir me dunat, si salvare jo cist meon fradre Karlo, & in adjudha, & in cadhuna cosa, si cum om per dreit son fradre salvar dist in ò quid il mi altre si fazed, & ab Ludher nul plaid nunquam prindrai, qui meon vol cist meon fradre Karle in dano sit.” Quae sic Latinis istius saeculi sonant: Pro Dei amore, & pro Christiano populo, & nostro communi salvamento inantea (seu deinceps) in quantum Deus sapere, & posse mihi dederit, salvabo (seu salvum, & incolumen praestabo) hunc meum fratrem Karolum, & in auxilio, & in unaquaque causa (i. re Gall. chose) ut homo per drictum (seu jus) suum fratrem salvare debet, in eo quod ille mihi alter faceret, & cum Lothario nullum placitum unquam capiam, quod mea voluntate huic meo fratri Karolo in damno sit. Sacramentum verò populi Romana pariter Lingua, sic describit idem Nithardus: Si Lodvuigs Sagrament que son fradre Karlo jurat conservat, & Karlus meo sender de sua part non los tanit, si jo returnar non lint pois, ne jo ne nuls cui eo returnar int pois in nulla adjudha contra Lodhuvig nun li juer.” Id est Lingua ejusce aevi Latina, quantum licet assequi: Si Ludovicus sacramentum quod suo fratri Karolo jurat, conservat, & Karolus meus senior ex sua parte non illud tenet, si ego retornare non possim, vel nolim ad eum retornare, in nullo ei auxilio ero contra Ludovicum &c. Atque haec quidem Romana Nithardi, licèt mendis utcumque carere non dubitem, velim Lector conferat cum veteri charta vernacula in Ruthenensi Comitatu, ubi Lingua Lemovicina perinde usurpata sub Ludovico VI. hoc est circa annum 1100. exarata, quam descripsimus ex Tabulario Abbatiae Conchensis, ch. 566., ut Idioma ejusce aevi cum Idiomate aevi Carolini comparet. Ego in Dei nomine, ego Hector, & Pontius de Cambolas, & ego Falcas, daquesta hora ad enant en la Villa de Pradis, home ni femena de las crodes enins non y pendren, ni ly feren, ni ly queeyren, ni son aver no ly tolran, ni fac nou lo faren, ni deforas los crous home, ny femena que sien en la villa sia esta dehors, se per forfactura que faran aquez no no faxian, & aquo no faran tro al Abat, & al Prior, quella villa tenria clamat ò acsem una vice vel duas. Et se els reddezer nos o fazio, que non pressen sobre nostre dreich, & senescian, & o efrangrian fers XIII. dias al so moniment del Abbat, ò de so messatge, ò del Monge, que la vila tenria, o de so messatge, o emenderan aissi o tenren, & o atendren per fe, & senes engan per eis Sants Evangelis. Authores Ademarus Ruthenensis Episcopus, & Odolricus Archidiaconus, & Guillelmus & Azemarus Dauriat, Bac de Petra bruna, Folquenis de Segur, Bernardus qui vocatur Graecus, Bernarz Guirals della Salas, Bernarz de Cannet, Deusdet de Caunat, & Peire de la Vallada, Rainalz lo Monges, & altre molt que ouiro, & que audiro. Regnante Ludovico Rege.


XXVII. Ma contuttociò non creda il lettore, ch’ io sia d’ opinione, che l’ Idioma Toscano non abbia tolte delle parole al Franzese; anzi se non fosse che’ l riferirle farebbe fuori dell’ intenzione del mio Libro, ne potrei annoverare per verità più d’ una cinquantina, come agio per età; a fusone, cioè abondantemente; approccio, arresto per sentenza, o decreto; arrolare, arrolato, barulè, bicocca, ciamberlano, congedo, e congio, convoitoso, usato dagli antichi per cupido, avido; damigella, dilajare, che vuol dir prolungare; fa niente, cioè ozioso; furbo, furbetto, furberia, furbescamente, furbesco, furiere, giovedì, lunedì, martedì, mercoledì, venerdì, e venardì, giubbetto, grè, onde il giuoco della lumagrè, come osservò il Redi (79: Annot. Ditir. a c. 77. ediz. 1691.), insembre, lacchè, lungo per rasente, o accosto; marrone, per una spezie di castagna; mignone, cioè il cucco, il favorito; morso per boccone; morsura, pastone, pennacchio, peri, prenze, e prence, prete, rasojo, riso, per una sorte di biada; ruga, per istrada; ruolo, saggio, per sabio; soja, sugliardo, sur, tabì, toeletta, tusanti, villa per città come in quel verso: Sopra’ l gran fiume d’ Arno, alla gran Villa &c. 


XXVIII. Lo stesso che ho detto in ordine a quelle voci, che anno similitudine, o affinità col Franzese, si debbe parimente intendere rispetto a quelle, che l’ anno col Castigliano, che parimente ho prodotte ne’ loro luoghi dell’ alfabeto, e che parranno più tosto Castigliane, o dalla Lingua Castigliana esser prese, che dalla Provenzale, come cominciare, battaglia, cortesia, cambiare, galoppo, peso, aggradare, riposo, e cento più, le quali anno pure i Castigliani cavate dal fonte Provenzale, come affermò il dottissimo Onorato Bouche nella sua sopra citata Istoria di

Provenza con le seguenti parole (80: Tom. I. lib. 2, cap. 6. fogl. 95.). “Voire c’ est le commun sentiment de plusieurs grands personnages Italiens, comme j’ ay oüi dire à quelques uns d’ iceux en Italie, que la Langue Provençale êtoit la Mere de la Langue Italienne du jourd’huy. Ce que nous pourrions ausi bien dire de la Langue Espagnole de ce tems, qu’ elle soit une fille de la Provençale, d’ où l’ on peut en quelque façon conclurre, que tous les mots qui sont en usage entre ces trois peuples, & qui ne peuvent pas être derivez de quelque racine Grecque, ou Latine ne sont pas tant Espagnols ou Italiens, que Provençaux, comme ceux-cy Italiens Badar, Engagnar, Escarecar, Pulit, Far escomessa &c. & ceux-cy Espagnols Borrar, Despedaçar, Desamparar, Escupir, Flaqueza, Embud (Entonnoir) & plusieurs autres, qu’ on peut remarquer en la lecture des livres composez en ces langues.”


XXIX. Nè serve, che per parte della gentilissima, e fortunata Lingua Castigliana, s’ alleghi l’ asserzione del sempre con lode mentovato Gio. Mario Crescimbeni, il quale in una delle sue annotazioni sopra la Vita d’ Ugo di Lobieri Poeta Provenzale, appellato da Gio. di Nostradama alla Franzese Hugues de Lobieres, asserisce, che (81): “Il cognome di Lobieres è preso da un luogo così detto denominato da i lupi, che in Ispagnuolo, da cui molto prende il Provenzale, si dicono Lobos: così Lobieres, Lupaja, come Cabreres, e Vacqueres, luoghi parimente Provenzali, che vagliono in Italiano Capraja, e Vaccara, dalle Capre, e dalle Vacche.” “Perchè, tralasciando, che sino da’ tempi antichi si dice nella nostra Lingua Lob, e Lop al Lupo, onde l’ Autore del Trattato de’ Peccati Mortali (82): E quant degran esser pastors, els son lobs, e Pietro Tomic (83): Lo Rey (d’ Aragona Don Giovanni) retornant sen en Barcelona caçava davant lo Castel d’ Orriols en lo bosc de Foxà e corrent una loba lo dit Rey morì, e nel Trattato delle Virtù (84): Trobat es estat sovent, que las lobas noirisson los enfans, que trobon gitatz, e los deffendon de las altras bestias, & assò fai sola natura, e nella Vita di Raimondo di Miravalle (85): La Dompna de Carcassès, qe avia nom la loba; così Lobera, e Lobeira (cognome pure di Famiglia esistente nella Città di Girona) che i Toscani chiamano lupaja, onde Buonafede antico Poeta Provenzale appellato Bonafè in una sua Tenzone con Blancasso (86):

Seigner Blancatz, de nuoit à la lumeira

Es plus temsutz, que laire, ne lobeira. 

Signor Blancasso, di notte alla lumiera

Sei più temuto, che ladro, né lupaja.

i Franzesi Louviere; e i Castigliani poi, non avendo vocabolo proprio, ed acconcio, con che appellarla, essendo in questa parte la loro lingua manchevole la esprimono colla parafrasi Guarida de lobos, cioè rifugio, e ricettacolo de’ lupi: Tralasciando dunque, com’ io dissi, queste cose, ed altre, che tornerebbono bene, come farebbe l’ affermare, che l’ accennata voce Guarida l’ anno presa per certo i Castigliani dalla nostra Lingua, onde il Sordello Mantovano, che scrisse in Provenzale (87: Nel citato Codic. Vatican. 3204. a c. 109. terg. colonn. I.)

— car non trob à l’ essida

Ni riba, ni port, ni pont, ni garida.

— poichè non trovo all’ escita

Nè riva, nè porto, nè ponte, nè rifugio.

E l’ Autore del citato Trattato de i Peccati (88: Cod. Vat. 4799. a c. 241.): La quinta branca d’ avaricia es sacrilegi &c. Altra maneira es, quant hom ars, o crema Gleisas, e Moncstiers, o masons de religion; o quant hom trai de Gleisas, o cementeris aquels que i venon a garida: Lasciando dunque tutto questo da parte: Chi poi non vede, che ciò, che nella trascritta annotazione s’ asserisce a favor della Lingua Castigliana, è detto incidentemente? Oltre, che se si tratta de’ tempi bassi della nostra Lingua, ne’ quali, avendosi unite le Corone di Castiglia, e d’ Aragona, parece que tambien se han querido incorporar las lenguas Castigliana, e Catalana, come dice lo Scuolano (89: Nel luogo sopra trascritto al num. XV.), con molto fondamento asseverare si può, che la Provenzale, o vero Catalana prende dalla Castigliana.


XXX. Ben noto è per altro, a tutti i Letterati, che la nostra Lingua, è più antica assai, della Castigliana, poichè fu per tutto il Ponente, tra tutti gli altri Idiomi di quelle parti di gran lunga primiera (90), e così florida, culta, ac polita, ut nulla ferò extiterit Regio, in quam immissa non fuerit (91); e la Castigliana al contrario, mentre fino al 1479. nel quale ad unicum Principem tota Hispaniarum potestas rediit, come dice il Du-Fresne (92) rarioris fuit usus, utpotè barbaris spersa vocabulis. Anzi lo stesso Crescimbeni, parlando sopra questa materia di precedenza, ed antichità fra le lingue volgari, mi disse aver letto in un certo Autore straniero, che in Catalogna incominciò a corrompersi il dialetto latino, che correva in tempo dell’ Imperio de’ Goti. Ed a questo proposito è cosa degna d’ osservare, che in Catalogna pure s’ incominciò l’ uso di trattare le Leggi, e Costituzioni, e tutti gli atti giudiziali in lingua volgare; anzi nel 1412. D. Ferdinando I. Infante di Castiglia, che fu eletto, e dichiarato Re d’ Aragona, e Conte di Barcellona dagli Stati di Catalogna, Aragona, e Valenza congregati in Caspe, per esser morto intestato, e senza successione il Re Don Martino, che fu l’ ultimo Re, e Conte della stirpe de’ Beringhieri; fece in Catalogna una Legge, tra l’ altre, insieme co i tre Stati generali del Principato, cioè l’ Ecclesiastico, il Nobile, e’ l Borghese, o Cittadino, comandando espressamente, che tutte le suddette cose fossero fatte, e trattate nel nostro volgar Catalano, e non in latino, nè in altro straniero linguaggio, come apparisce dal Volume delle nostre Costituzioni esistente nella Biblioteca Barberina, e così fu sempre praticato fino al 1714.; la qual legge, per dirlo di passaggio, pare che indirettamente, e in alcun modo sia stata confermata dalla SANTISSIMA VERGINE NOSTRA DONNA, coll’ occasione d’ un miracolo, che a intercession sua, fece il Beato Fra Salvadore d’ Orta Francescano, di far parlare in Lingua Catalana una Donzella muta di otto anni di Nazione Navarrese, come raccontano i compilatori della Vita di esso Beato Fr. Salvatore, e riferisce il Bollando negli Atti de i Santi (93). E simile uso poi negli altri Stati, e Regni dell’ Europa, non che di Castiglia solo, non incominciò, che cento cinquant’ anni dopo, nella propia lingua naturale di ciascun paese (94). Ma non occorre, che sopra ciò mi affatichi, nè perda più tempo in addurre dell’ altre autorità, e memorie, che mi sono rimase nel Zibaldone, e fra l’ altre, che (95) L’ an 1613. on imprimà à Paris un gros livre in quarto en langue Françoise, qui contient 1030. pages, ayant pour tître: Thresor des Langues de cet univers, contenant les origines, beautez, perfections, decadences, mutations, & ruines des langues, où l’ Autheur Monsieur Claude Duret Bourbonnois en compte jusqu’ à 56. 

& parmy les autres il place la Cathalanne avant l’ Espagnole, & plusieurs autres: mentre che dalle Tavole degli Autori, e de i libri in Provenzale, poste in fronte del mio Vocabolario può il Lettore abbastanza soddisfarsi; conciossiachè i più antichi, che la Castigliana Lingua in questo, od altro giudizio possa produrre, faranno di gran lunga posteriori a molti di quei, che in esse Tavole oggidì compariscono.


XXXI. Ben noto è altresì a tutta la letteraria Repubblica, che i Poeti Provenzali Padri della Poesia Volgare, i quali anno insegnato a tutti il poetar volgare (96), appellati perciò onorevolmente da’ Toscani col titolo di Maestri (97), sono più antichi assai, e di gran lunga primieri, che i Castigliani, come rinvergò Don Niccolò Antonio nella sua famosa Biblioteca degli Autori, e Scrittori Spagnuoli (98); trovandosi, che la Poesia, e Musica Provenzale, la quale, come dice il sopraddetto Salvini (99), fu negli antichi tempi una generale magia, e un’ incanto soavissimo, e affascinamento, per così dire, degli orecchi, e degli animi costumati virtuosi, e gentili, era già in fiore nel Secolo XII. in tempo dell’ Imperadore Federigo I., come abbiamo dalle Storie, e dalle Vite de’ medesimi nella seguente guisa (100); Dappoichè &c. ebbe egli (il suddetto Imperadore Federico I.) ritornata all’ ubbidienza la Città di Milano, che gli si era ribellata &c. ritrovandosi in Turino l’ illustre Ramondo Beringhieri detto il Giovane, Conte di Barcellona, e di Provenza &c. accompagnato da una gran turba di Oratori, e di Poeti Provenzali, e di Gentiluomini della sua Corte, andò a visitarlo &c. Grande accoglienza gli fece l’ Imperadore per la fama, che correva di lui, e de’ suoi fatti &c. il che addivenne l’ anno 1162. &c. Il Conte Ramondo fece da i suoi Poeti recitare molte belle Canzoni in Lingua Provenzale alla presenza dell’ Imperadore, il quale per lo piacere, che ne prese, restando maravigliato delle loro belle, e piacevoli invenzioni, e delle maniere del rimare, fece loro di ricchi doni, e compose a loro imitazione un Madrigale nella stessa Lingua Provenzale. E notò l’ eruditissimo Anton Domenico Norcia con le seguenti parole (101: Ne’ suoi Congres. Litterar. a c. 210. ): Andò poi di tal maniera colà crescendo la fama, e la gloria della Poesia Provenzale, che lo stesso Imperadore Federigo I. non isdegnò d’ applicarvi, e fra i diversi componimenti, che egli fece, trovasi ancora a’ tempi nostri un suo gentilissimo Madrigale.


XXXII. 

All’ incontro la Castigliana cominciò solamente a nascere nel principio del secolo XV. con le Rime di Juan de Mena Cordovese, che morì nell’ anno 1456., e dell’ età sua 45.; e con quelle di Garzilaso de la Vega Toledano, e di Juan Boscan Barzellonese, che ebbe genio di rimare in Castigliano (forse perchè già nel suo tempo erano unite le Corone d’ Aragona, e di Castiglia) i quali furono coetani, e fiorirono in tempo dell’ Imperadore Carlo V., e il nostro Boscano fu il primo, che fece Sonetti, ed altri versi interi, o perfetti d’ undeci sillabe nel medesimo Idioma Castigliano, come notarono Hernando de Hozes (102), e il Redi (103), e si raccoglie da i Proemi, e dall’ Epistole dedicatorie, che si leggono in fronte delle sue Rime. E se bene molti anni prima che fiorisse Giovanni di Mena, cioè nel declinare del secolo XIII., in tempo del Re Alfonso X. di Castiglia cognominato el Sabio, che morì nel 1284. s’ incominciò in quelle parti di Castiglia a verseggiare in volgare, non fu però in volgar Castigliano, come attesta Gonzalo Argote de Molina, Poeta Castigliano anche esso, e celebre antiquario (104): Y si à alguno (por causa de las Coplas de Macias referidas) le pareciere (dice egli) que Macias era Portuguès, estè advertido, que hasta los tiempos del Rey Enrique el Tercero todas las Coplas que se hazian comunemente por la mayor parte, eran en aquella lengua, hasta que despues en tiempo del Rey Don Juan (il II., il quale morì nell’ anno 1454. e del suo regnare, 47.) con la comunicacion de las naciones estrangeras se tratò de este genero de letras con mas curiosidad: Benchè il detto Autore in ciò prenda sbaglio, credendo, che fosse in Portoghese, quando, a dire il vero, il loro poetare era nel dialetto antico di Galizia (simile per altro a quello de’ Portoghesi) il quale è quasi un puro Provenzalismo, come si può vedere, ed osservare in leggendo i faggi delle Rime del sapientissimo ugualmente, ed infelice Re Don Alfonso X. soprammentovato, che si trovano per entro alcuni libri Storici Spagnuoli, ed in particolare presso il suddetto Gonzalo Argote (105: Luog citat. fogl. 136.), e appo i Bollandisti (106: Nel tom. 7. del Mese di Maggio fogl. 310.); i quali Bollandisti, per quello, che appartiene al linguaggio nel verseggiare, non discordan dal mio sentimento, ma sbagliano per altro, nel credere, che la cagione, per la quale il suddetto Re scrisse in quell’ Idioma, e non in Castigliano, fosse, perchè tutto’ l tempo della sua fanciullezza stette, ed abitò in Galizia (107); non sapendo essi, che quel dialetto, quasi Provenzale, era allora in uso nella Corte Castigliana: E si vederebbe, ed osserverebbe assai meglio, e senza scorrezioni, nè stroppiature, dal prezioso, e vagamente miniato Codice in cartapecora delle Rime dello stesso Monarca, che si conserva a S. Lorenzo nello Scoriale nella famosissima Biblioteca del nostro invittissimo Re, e Sovrano FILIPPO V., che Iddio conservi; ove le Poesie vi sono trascritte insieme colla Musica, incominciando a guisa di titolo: 

Don Alfonso de Castela

De Toledo, e de Leon, ec. 

Fezo cantares, e sones

Saborosos de cantar,

Todos de (e) sennas razones,

Com y podedes achar. 

Don Alfonso di Castiglia

Di Toledo, e di Leone, ec. 

Fece canzoni, e suoni

Savorosi da cantare, 

Tutti di serie, e savie ragioni, 

Come quì potete vedere. 

come si legge presso il suddetto Gonzalo. Sicchè fa d’ uopo concludere, come io dissi, che tutte le voci, che nel Provenzale, e nel Castigliano sono le medesime, o anno fra di loro stretta parentela (trattene alcune poche originate dall’ Arabico, e le prette latine, che sono comuni ad ambedue le lingue, ed alcune di moderne, che s’ incominciarono d’ introdurre a poco a poco nel nostro Contado, dopo che ad unicum Principem tota Hispaniarum potestas rediit, come era in tempo de’ Re Gotti) le anno ricevute i Castigliani dalla nostra lingua Provenzale, ovvero Catalana; o per lo meno così si debbe credere, come ci ammonisce l’ eruditissimo Benedetto Varchi Lettor di Lingua Toscana, nel suo Dialogo delle Lingue intitolato l’ Ercolano, dove parlando delle nostre voci, che passarono alla Toscana, e ricercando il Conte Cesare, se farebbe possibile, che i Toscani avessero alcune di coteste stesse voci, non da’ Provenzali preso, ma da quelle medesime Lingue, dalle quali le pigliarono i Provenzali; risponde esso Varchi, che farebbe, e anco, che la Provenza n’ avesse prese alcune dalla Toscana; ma perchè i Rimatori Provenzali furono prima de’ Toscani, perciò si pensa, che essi abbiano dato, e non ricevuto cotali voci.


XXXIII. 

Ma giacchè di sopra ho annoverato, ancora che di passaggio, una buona parte delle voci Franzesi usate da’ Toscani; parmi, che troppo torto farei alla mia Nazione Spagnuola, se prima di passare ad altri preliminari avvertimenti, lasciassi quì di mentovare le voci Castigliane adoperate parimente da’ Toscani, benchè la ricerca, e difesa di queste aspetti propriamente ai Castigliani, siccome a’ Franzesi delle loro. 

Sono elleno dunque le seguenti. Accatarrare, acciacco per iscusa, ovvero malattia finta; aloscia, aorcare, attizzamento, attizzare, avvogado, baja, bizzarro, bizzarria, catarro, catarrale, catarroso, cavo, chicchera, chitarra, e chitarriglia suo diminutivo usato dal Tassoni nella Secchia rapita:

Cantando a l’ improvviso a note grosse 

Sopra una chitarriglia discordata: 

cianceare, cianciatore, ciancioso, ciancione, ciancia, ed indi ciancetta, ciancerella, ciancerulla, e cianciolina; ciccia, cioccolate, cunzia, cunziera, dentro, donde, donno, ovvero don per titolo di onore, Provenzal. en; garbo, cioè avvenenza, o leggiadria, onde garbato, garbatezza, e garbatamente; garretto, incatarrare, lindo, lindezza, majorasco, majorana, molenda, mozzo di camera, pastiglia, piccatiglio, polviglio, puntiglio, raso, per una spezie di drappo di seta; rocca pronunziata coll’ o stretto, scarabattola, scoffina, sgarratare, sussiego, torrione, vainiglia, valigia, valigiato, ed indi svaligiare, e svaligiato; vicino, per cittadino; vigliacco, vigliaccheria, zappa, onde zappare, zappatore, zappatorello, zappetta, e zappettare


XXXIV. 

Molti sono poi gli Autori, che si sono affaticati in ricercare le origini, ed etimologie della Lingua Italiana, o vero delle sue voci, tra i quali si possono annoverare per ordine cronologico, Pierfrancesco Giambullari, Ascanio Persio, Angiolo Monosini, Celso Cittadini, Ottavio Ferrari, ed ultimamente Egidio Menagio; ma io debbo avvertire, che intorno a questa sorte di studio, poco, o nulla mi sono affaticato; perchè il mio scopo solamente è stato di far vedere, e provare, che tutte le voci, che nel mio Libro ho compilate, le anno prese immediatamente gl’ Italiani dalla nostra Lingua Provenzale, o sieno elleno per altro originate dalla Greca, o dalla Latina favella, come veramente sono quasi la maggior parte, o da qualunque altra più antica Lingua. E anche perchè siccome confesso, che in tutte le Lingue, e più nella Toscana che in nessuna dell’ altre, si trovano vocaboli di diversi Idiomi, così niego, che si debbia dar piena fede a cotali Autori; (sono parole del Varchi nel suo Dialogo delle Lingue al quesito VII. parlando di simili etimologici, ed originatori) Prima perchè per una etimologia, la quale sia certa, e vera, se ne ritrovano molte incerte, e false: Poi, perchè coloro, i quali fanno professione di trovare a ciascun nome la sua etimologia, sono bene spesso, non pure agli altri etimologici, ma ancora a se stessi contrari:  oltra che egli non si ritruova voce nessuna in veruna lingua; la quale, o aggiugnendovi, o levandone, o mutandovi, o trasponendovi lettere, come fanno, non possa didursi, o dirivarsi da una qualche voce d’ alcuna lingua: Senza che egli non si può veramente affermare, che un vocabolo, tutto che sia d’ origine greca, e s’ usi in Toscana, sia stato preso da Greci, verbigrazia questa parola Orgoglio è posta tra quelle dagli Autori, che avete nominati, le quali dirivano dal Greco, e nondimeno i Toscani (per quanto giudicare si può) non da i Greci la presero, ma da’ Provenzali. Similmente Parlare, e Bravare, che io dissi di sopra esser venuti di Provenza, anno secondo cotesti medesimi Autori l’ origine greca, e con tutto ciò i Toscani, non dalla Greca lingua, ma dalla Provenzale è verisimile, che gli pigliassero.


XXXV. 

Vero è però, che non per questo ho tralasciato di leggere, e considerare tutte l’ Opere, e le Origini, che da’ suddetti Autori sono state con tanto studio, ed apparato d’ erudizione compilate; sapendo bene, per altro, quanto importi il rintracciare la fonte, e l’ origine delle voci, per bene, e saviamente, a suo proposito impiegarle, come magistralmente m’ insegna il letteratissimo Salvini (108: Anton Mar. Salvin. Pros. Toscan. a c. 215. ); Anzi avendo osservato, che tutti, salvo il Monosini, che rispetto agli altri è il più sicuro, e dall’ Accademia della Crusca in molte delle voci accettato; benchè, per altro, non lasci d’ esser con ragione ripreso da chi ne sa più di lui (109), s’ oppongono alla verissima opinione del Bembo, e del Varchi, e di tanti altri autorevoli Scrittori, intorno alle voci, che la Toscana ha tolte da’ Provenzali; ho stimato essere mio obbligo il raccogliere quì gli argomenti, e le obbiezioni in generale, che fanno i suddetti contraddittori, e dar loro preliminarmente la dovuta soddisfazione, oltre alle risposte, che per entro il mio Libro sotto alcune delle voci si danno, contro alle particolari opposizioni, secondo l’ occorrenza de’ casi.  



XXXVI.

Il Menagio dunque, al quale (benchè sia stato l’ ultimo, che in simile materia abbia scritto) pare, che il primo luogo sia dovuto, così discorre alla voce Augello: Il Bembo nelle Prose, e ‘ l Varchi nell’ Ercolano, vogliono, che sia della Lingua Provenzale. Che che ne sia, chiara cosa è, che s’ origina dal Latino avicellus, diminutivo di avis; siccome uccello, voce, come dicono, antica Toscana. Avis, avicus, avicellus, aucellus, UCCELLO: augellus, AUGELLO. Le Glose antiche: aucellus *. Così da avica fecero oca gli Italiani; pigliando, come far si suole in cotali materie, il genere per la spezie. Avica, auca, oca, oa, Gall. oye. L’ istesse Glose: auca *. Quelle d’ Isidoro: aucella, ortygometra. 

Il Glossario Arabico-Latino – auca anser. S’ inganna il Castelvetro, (che che ne dica egli) il quale nel suo Discorso intitolato: Ragione d’ alcune cose segnate nella Canzone del Caro; ed in quell’ altro intitolato Correzione d’ alcune cose del Dialogo del Varchi, come ancora ne’ suoi Comentari sopra la Poetica d’ Aristotele; conforme all’ opinione di Jacopo Silvio, fa venir la detta voce Italiana oca dalla Greca *, che val l’ istesso; congiungendosi l’ articolo Greco * con quel nome. Ben s’ avvide il Varchi di quest’ errore: (nel qual pure inciampò il Vossio nel Trattato de Vit. Sermonis) ma non seppe già l’ origine di questa voce

oca. Or, derivando ella indubitatamente dal Latino auca, come s’ è veduto, è più verisimile, che gl’ Italiani l’ abbiano presa da’ Latini immediatamente, che da’ Provenzali. Il che s’ intenda parimente per infinite altre voci Italiane, originate altresì dal Latino: le quali pure, e il detto Bembo nelle sue Prose, e il detto Varchi nel suo Ercolano, e i Deputati sopra la correzione del Boccaccio nelle loro Osservazioni sopra il Decamerone, ed il Tassoni nelle sue Considerazioni sopra il Petrarca, voglion, che siano Provenzali. Nè vale il dire; come fanno il Bembo, e’ l Varchi; che i Rimatori Provenzali furono prima de’ Toscani; e che perciò sia da credere, ch’ essi abbiano date, e non ricevute, cotali voci; potendo anche sussistere una lingua, senza che vi sieno de’ Rimatori. Oltre a ciò, cominciò a formarsi la Favella Italiana dalla Latina, gran tempo avanti a que’ Rimatori Provenzali; cioè, circa il tempo dell’ Imperador Giustiniano, come l’ osservò bene Claudio Salmasio al capo quinto delle sue Osservazioni, intorno alla Giurisprudenza de’ Greci, e de’ Romani. Eccovi le sue parole: Scriptae sunt eo tempore Pandectae, quo Lingua Latina, jam in Italicam, quae nunc in usu est, desciverat. Cujus rei fidem facere potest Instrumentum Securitatis Plenariae, conscriptum quintodecimo anno Justinianei Imperii, Ravennae (lo fece stampare in Roma Gabriello Naudeo) in quo pro recto casu, & quarto, passim sextum reperire est. In Itinerario Antonini omnes Urbium appellationes sexto casu enuntiatae leguntur” con quel, che segue. Quasi lo stesso dice il Lipsio al capo 3. del suo Dialogo de recta pronunciatione: là dove intende di provare, che la Favella Italiana abbia più di mille anni: Argumentum mihi ex narratione, quae in Historia Miscella, de rebus sub Mauricio Imperatore gestis ait Paulus Diaconus, in exercitu cùm animans cecidisset, clamante quadam, torna, torna, frater, universas copias in fugam versas ambigua illius vocis: Agnoscis clarè Italicismum in his verbis. Et alterum firmius ab Instrumento, quod Luteciae in Bibliotheca Regis observatur. Transactio eo continetur Stephani Tutoris, cum Gratiano Pupillo, scripta anno Justinianei Imperatoris trigesimo octavo: & scripta hac vulgare Lingua.


XXXVII. 

A questa sì fatta obbiezione soddisfacendo, dico: che le suddette autorità del Salmasio, e del Lipsio fondate ne’ citati strumenti nulla conchiudono contro il mio assunto: Imperocchè, dal leggersi in essi sovente il sesto caso in vece del retto, e del quarto; e dal trovarsi ne’ medesimi, delle parole barbare, altro non si può inferire, se non, che nel tempo dell’ Imperadore Giustiniano, ovvero nel Secolo VI. allora quando in Costantinopoli verso l’ anno 533. fece egli compilare le Leggi Romane in quella forma, che si vedono ne’ Digesti, nel Codice, e nell’ Autentica, era l’ Idioma Latino già alla declinazion traboccante. Posciachè, sebbene in detto tempo è verisimile, che incominciassero a formarsi, o a nascere, per così dire, alcuni Vocaboli della nuova Lingua Italiana, questa però non si formò, o vero non *s*resse comune, ed idiomatica, che fino alla metà del Secolo XIII., o in quel torno, come confiderò bene il Muratori quando disse (110): Nasceva allora, (in tempo del Petrarca) per così dire la Lingua, e la Poesia volgare Italiana, e il celebre Abate Salvini, nella sua eloquentissima Orazione in lode di S. Zanobi Protettore dell’ Accademia della Crusca, nella seguente guisa (111: Pros. Toscan. fogl. 3.): 

Ma per avere a dare un Santo Protettore a una Lingua, che quantunque novellamente nata, pure nell’ origine sua è antichissima, e nel tempo di San Zanobi, era, per così dire, in corpo alla latina, che appresso ben lungo tempo partorire la doveva; il maggior nostro antico Santo parea, che si convenisse; avendo l’ antichità in se, ancor puramente considerata, non so che dell’ autorevole, e del reverendo.


XXXVIII. 

Il che si compruova dall’ osservare, che fino alla declinazione del mentovato secolo XIII., fu ancora in uso nell’ Italia la Lingua Latina, benchè fosse già spirante, e semimorta, come accenna il Buommattei (112: Benedetto Buommat. trat. *7 cap. 3.): 

Questa (cioè la Lingua Toscana, dice egli) sino che durarono le potenze straniere, e grandi, fu sempre in poca stima, nè mai potette salire in alcun grado d’ onore. Ma quando l’ Italia restò liberata da’ barbari, molte Città di essa, scosso il giogo de’ particolari potentati, cominciarono a reggersi a popolo: e perciò dovendosi spesse volte parlare a’ popoli per le comuni bisogne delle Repubbliche: s’ allargò la frequenza de’ parlamenti pubblici: i quali dovendosi fare in quella Lingua, e con que’ vocaboli, che da’ medesimi popoli, a cui si parla, s’ intendono; perchè i Popoli d’ Italia non intendevan più nè la pura Latina, nè la pura barbara, bisognava ch’ e’ si facessero in questa nuova Volgare. Ond’ ella per questo cominciò a uscir delle tenebre, a pigliar piede, e avanzarsi. Perchè dal vedersi, che que’ dicitori, che più regolatamente, e più acconciamente parlavano, eran di tutti gli altri più grati a’ popoli, che gli ascoltavano, e sempre eran da quelli più volentieri esauditi; molti cominciaron con grande studio a considerar le sue Leggi, a distinguer le sue vaghezze, a imparar le sue regole. E il Signor Du-Cange (113: Prefaz. Glossar. Lat. Barbar. num. 37.): 

Inter haec tamen non extincta omninò Latina Lingua, licet in senium quodammodo obierit, con quel, che segue.


XXXIX. 

E più chiaramente lo spiega l’ Autore della Difesa della Lingua Italiana, o vero del Discorso in forma di risposta a una lettera d’ un virtuoso amico; che sia lodevole il trattare le leggi, e le altre facoltà nella Lingua Volgare, in occasione dell’ Opera del Dottor Volgare: con le seguenti parole (114: Num. 20., e 21. fogl. parimente 20., e 21. ediz. Roma 1675.): “Ma perchè in quei tempi (ne’ secoli XII., e XIII.) non era totalmente morta nell’ uso comune; e volgare nell’ Italia la suddetta Lingua Latina, ancorchè fosse spirante, e semimorta, come in gran parte corrotta, e confusa da tante diverse lingue barbare, e forestiere; Ma non erasi ancora resa comune, ed idiomatica la moderna, e corrente Lingua Italiana, la quale fu raffinata dipoi da quel gran miscuglio di tante varie lingue, che in questa Provincia si scorgea: Quindi seguì, che così i primi Glossatori, ed Interpreti delle suddette leggi, come ancora gli altri letterati, i quali in questo medesimo tempo cominciarono a ridurre la Filosofia, e la Teologia, e le altre scienze a forma di facoltà disputativa, e di proposizioni scuolastiche, si valessero di quell’ istessa lingua, nella quale ritrovarono, che fossero le suddette opere antiche, continuandone l’ uso, ancorchè in una forma più corrotta, e più barbara, perchè così richiedea la condizione di quei tempi, ne’ quali quella era la migliore, e la più culta, ed elegante lingua, che vi fusse, conforme si è accennato ancora nel principio dell’ Operetta dello stile. E da ciò apparisce chiaramente, che non fusse un’ 

accurata, ed una misteriosa elezione, il trattare le leggi, e le altre scienze, ed anche gli atti giudiziali, ed i convenzionali, ovvero le ultime volontà nella Lingua Latina, come contradistinta dall’ Italiana, ma che ciò seguì, perchè così portasse la condizione di quei tempi, ne’ quali non era ancora ben ripolita, e fermata la corrente Lingua Italiana, che però fu creduto di parlare tuttavia con la Lingua Latina, ancorchè in qualche parte corrotta; E per conseguenza cessando oggidì questa ragione, non vi si scorge necessità, o ragione alcuna, la quale precisamente obblighi a continuar questo stile. 


XL. 

La Provenzale, all’ incontro, che assai frequente era in Italia, come dice Monsignor Panigarola (115), e particolarmente in Toscana, dove alcuni si posero a scriver Provenzalmente, come rinverga l’ eruditissimo Tommaso Bonavventuri (116); e poco meno che per tutta l’ Europa si sparse, e come si sa fu da’ Toscani studiosamente ne’ primi tempi adoperata, e poi lungamente imitata, secondo attestano Filippo, e Jacopo Giunti (117), e il moderno gran Prosatore Toscano (118), essendo all’ ora (ne’ tempi de i Re di Sicilia) amata, e pregiata, come oggi sono la Greca, e la Latina da noi, conforme afferma Monsignor Vincenzio Borghini (119), era già stabilita, e idiomatica ne’ secoli VIII., e IX., e spezialmente ne’ tempi degl’ Imperadori, Carlo Magno, e Lodovico Pio, e fioriva già ne’ secoli XI., e XII., come si manifesterà appresso, e si vederà appieno dalle sopraccennate Tavole de’ libri, e degli Autori citati per entro l’ Opera.


XLI. 

Ben conobbe però lo stesso Menagio la forza, e l’ autorità incontrastabile del Bembo, e degli altri sopra nominati, poichè dopo il suo discorso, ed argomento nella maniera sopra trascritta, così egli immediatamente, e quasi correggendosi di ciò, che prima avea affermato, seguita, e prende a dire: “Non nego però, che non si trovino delle voci Italiane, originate dal Latino, le quali cavarono gl’ Italiani da’ Provenzali. Ed in questo proposito parmi molto ragionevole il sentimento de i detti Deputati sopra la correzione del Boccaccio, di cui tali sono le parole. E poichè siamo in questa materia, aggiungiamo, che Monsignor Bembo confiderò questa dimestichezza della Lingua nostra con la Provenzale molto bene, e come volentieri i Nostri presero delle lor voci, e nominonne alcune: E colui, che in questi ultimi tempi ha cerco di abbattere questa sua verissima opinione (intendono del Castelvetro) ha avuto il torto. Nè vale a dire, per dare esempio di una, che il Dottare sia preso dal Dubitare Latino, che, a ristringersi al vero, è una sofisticheria; e non impedisce quel, che dice il Bembo; perchè dal Latino cavarono i nostri Dubitare, e Dubbiare, e non Dottare: e Dubbio, e non Dotto, o Dotta; e così gli altri di questo verbo; Ma quello presero i Provenzali da’ Latini accomodandolo all’ uso loro, e da loro poi i nostri; e vennero queste voci nella nostra Lingua, come forestiere di Francia (cioè dalla Provenza) e non da Roma, e sebbene ci furono in que’ tempi volentier vedute, se ne son pur poi tornate a casa loro (cioè le suddette, dottare, dotto, e dotta, come antiche, e disusate) dove quell’ altre, (cioè dubitare, dubbiare, e dubbio) venute da luogo più vicino, ci sono oggi, per la lunghezza del tempo divenute Cittadine.


XLII. 

Onde conchiuderò, che dello stesso modo, che i suddetti Deputati nelle loro eruditissime Annotazioni sopra alcuni luoghi del Decamerone di M. Giovanni Boccacci, confutarono, e ribattettero la Giunta fatta da Lodovico Castelvetro alle dette Prose del Bembo, in ordine a questo affare delle Voci Provenzali; confermando, ed autenticando colla suddetta loro autorità, che si legge a car. 110. di esse Annotazioni stampate in Firenze nel 1574., la verissima oppinione di quel celebre Porporato, con espressa dichiarazione, che colui, che in questi ultimi tempi ha cerco di abbatterla, ha avuto il torto, come dimostrano coll’ esempio della suddetta voce Dottare, senza molte altre tali, che, come dicono appresso a car. III., ne potremmo addurre a confermazione del vero; ed in difesa, se bisognasse, del considerato discorso di quel Signore, che è troppo più, che non si credette costui, in tutto quel, che egli scrisse, sentito, ed accorto, e degno per la sua bontà, e per li favori fatti da lui alle lettere, di restar sempre nelle menti degli Studiosi, con santa, ed amorevolissima memoria: Così parimente l’ Accademia della Crusca coll’ esemplo della voce Gente, addiettivo, rintuzzò il Menagio intorno ad alcune voci, che questo Originario Franzese, contraddicendo alla verissima openione del Cardinal Bembo, e del Varchi, e del Redi, e di tanti altri, non voleva, che fossero state prese dal Provenzale: Imperocchè se bene esso Menagio nelle sue Origini, alla voce Gentile in significato di Nobile, dopo aver riferita una bellissima, ed eruditissima osservazione del mentovato Redi, colla quale si dimostra, che essa Gentil voce, è la suddetta Gente furono tolte da’ Provenzali, disse: «Io quant’ a me credo di certo, che gl’ Italiani, e i Francesi, siccome i Provenzali, abbiano presa direttamente da’ Latini, e questa voce Gente, e quella di Gentile. Veggansi le nostre Origini della Lingua Francese, alla voce gentilhomme. Trovasi gens, per nobiltà di sangue, appresso Orazio lib. 2. Satira 5. &c.» 

E sebbene, altresì, nella lettera dedicatoria, che da Parigi in data de’ 20. Febbraio 1669. scrisse alla predetta Accademia, posta in fronte delle medesime sue Origini ristampate in Genevra nel 1685., disse: “Preso dall’ Accademia due anni sono lo stesso disegno (di comporre un Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana) scrissero le SS. VV. Illustrissime al Signor Alessandro Segni lor degnissimo Accademico, che allora si trovava in Parigi, mi domandasse da parte di essa le mie Origini Italiane, acciocchè ella ne registrasse nella sua Raccolta quelle, 

che le ne paressero degne. Per ubbidirle, subito le compilai. E per risparmiare alle SS.VV. Illustrissime la fatica di leggere il mio carattere, ne feci stampare a mie spese un centinaio d’ esemplari; la maggior parte de’ quali mando all’ Accademia &c. Mi fo a credere, che le SS. VV. Illustrissime incontreranno in questa mia Opera alcune cose dotte, erudite, e recondite. Anzi son sicuro, che ne troveranno assaissime, imperciocchè oltre all’ Etimologie de’ più pregiati Scrittori Italiani da me in essa in gran numero riferite, dopo aver l’ Accademia vostra, ad altro occupata, lasciato il pensiero dell’ Etimologico; i Signori Carlo Dati, Francesco Redi, e Valerio Chimentelli, tre suoi valorosi Accademici, con somma cortesia me ne participarono quante ne avevano &c.” “Le quali origini furono lette, e considerate dall’ Accademia, come appare dalla risposta di Carlo Dati fatta all’ istesso Menagio, posta parimente al principio di esse: Contuttociò la suddetta Accademia della Crusca, sommo Tribunale della Toscana Favella, nell’ ultima compilazione del suo Vocabolario nuovamente corretto, ed accresciuto, stampato nel 1691., fra le molte voci, che non furono registrate nella compilazione del 1612., nè in quella del 1623., vi aggiunse, e vi registrò la sopraddetta di Gente. Add. col Rescritto di esser Voce venuta dal Provenzale.


XLIII. Con la medesima autorità de’ suddetti Deputati, si può rispondere ad Ottavio Ferrari, la cui obbiezione consiste nel dire, che essendo le Lingue Italiana, e Provenzale nate dalla Latina, ed essendo altresì la Provenza, o vero la Gallia Narbonese la prima Provincia della Francia, che i Romani fecero tributaria, chiamandosi perciò col nome di Provenza, non si debbe credere, che l’ Idioma Italiano abbia tolte delle parole dal Provenzale; come si legge nella Prefazione delle sue Origini impresse in Padova nel 1676. Ma gli rispose già Carlo Du-Fresne Signor Du-Cange col seguente Discorso (120: Prefaz. Glossar. Lat. Barbar. num. 16.): «Quot denique Catalonia, ac Aragonensis tractus, ipsaque Italia à Provincialibus nostris voces accepit? Tametsi non desunt, in quibus est Octavius Ferrarius vir plurimùm eruditus, qui Bembum carpant, quod voces, quarum origo, ajunt illi, acumen ejus effugerat, Gallis Provincialibus adscripserit, cùm tamen nemo ignoret eam Galliae partem, idest Narbonensem, ideò Provincialem appellatam, quod prima ex Gallicis Imperio Romano subjecta, & in Provinciam redacta fuerit. Quod sanè, etsi verum sit, non ideò tamen sequitur Provincialia Idiomata non accepisse Catalanos, & Italos, cùm quae hodie servant, non pro Hispanicis, vel Italicis à probatis Scriptoribus habeantur, tametsi Hispanica, & Italica Lingua, perinde ac Provincialis, Latinae origines suas debeat, cum, ut ait S. Hieronymus in Math. Cap. 26. unaquaeque Provincia, & Regio habeat proprietates suas.» Con quel, che segue.


XLIV. 

Avvertendo però, che io non concorro con esso Du-Fresne allorchè dice, che la Catalogna abbia dalla Provenza ricevuto il Linguaggio, perchè più tosto il contrario si debbe credere, ed affermare, come ho dimostrato di sopra nel numero VI. Nè meno concorro nell’ affermare, che per essere stato il Nerbonese (Narbonese) il primo Paese, che i Romani conquistarono nella Francia, sia stato perciò appellato col nome generale, ed assoluto di Provincia senza aggiunta d’ altra parola, talmentechè, in dicendo Provincia s’ intendeva sempre la Provinzia, o il Paese Narbonese; onde è rimasto il nome di Provenza in cambio di Provinzia, si come voce di quel fine, che amato era molto dalla Provenza (121: Bemb. Pros. I.); ma bensì parce qu’ il a êté le plus considerable, & le plus chery, pour sa dignité, & pour les raretez qui s’ y trouvent, êtant reputé, & estimé par les Romains, une vraye Italie, comme dit Pline au livre 3. chap. 4. – agrorum cultu, virorum, morumque dignatione, amplitudine opum, nulli Provinciarum postferenda, breviterque Italia veriùs, quàm Provincia — parlant de la Gaule Narbonoise, à la difference de la Gaule citerieure, en la Lombardie, qui joüissoit du droit de Latium, come rinvergò il dottissimo Onorato Bouche (122: Nella Istor. di Provenz. tom. I. lib. I. §.7.).

Del restante, alla trascritta autorità di S. Girolamo di cui si prevale esso Du-Fresne, si può aggiungere la seguente di Francesco di Mezeray Istoriografo del Regno di Francia, la quale è più acconcia, e torna meglio (123) La langue naturelle des François estoit la Tudesque, ou Germanique: les Austrasiens, au moins les plus proches du Rhin, la garderent tousjours, & l’ ont encore, mais fort alterée. Les plus êloignez de ce fleuve en deçà, & les Neustriens la quisterent peu à peu pour prendre celle du peuple Gaulois, qui estoit la Romanique, ou Romanciere, autrement appellée la Latine rustique, laquelle s’ êtoit engendrée de la rouïlle, & de la corruption de la Langue Romane, ou Latine, diversement torduë, & contournée selon le genie des nations, & selon les idiomes des diverses provinces, tant pour l’ inflexion, & pour la signification des mots, que pour l’ air, & pour la phrase. 


XLV. 

Il Persio poi nel suo Discorso, intorno alla conformità della Lingua Italiana con le più nobili antiche lingue, e principalmente con la Greca, stampato in Venezia, e in Bologna nel 1592., avvegnachè espressamente non contraddica al sentimento del Bembo, del Varchi, che scrissero prima di lui; ben si riconosce però la sua contraria opinione dal seguente ragionamento (124: A cart. 8., c. 9)

“Siccome chiara cosa è, che la nostra Lingua Italiana per la più parte trae l’ origine sua dalla Latina, così quanto al rimanente onde ella si derivi, cioè da quante lingue, e quali riconoscer debba tante sue voci, e maniere di parlare con molti accidenti, che dalla Latina grandemente si allontanano, egli non apparisce ancora ben manifesto. Tuttavia si sono 

molti ingegnati di farci credere, che quanto di lei non ha del Latino, sia quasi tutto o Longobardo, o d’ altro barbaro idioma. Alcuni de’ quali a me non porgono gran fatto maraviglia, perciocchè non avendo essi d’ altre Lingue notizia, che della materna, e della Latina, somigliano alcun tale geografo, il quale nella descrizione ch’ ei facesse della terra, parti di essa più remote, e meno da lui conosciute ce le rappresentasse per salvatiche, e solo da fiere abitate, assicurato dalla lontananza di quelle, di non potere essere così agevolmente d’ error convinto: 

Ma ben mi maraviglio io di coloro, li quali facendo professione di bene intendere la Greca favella, anno nondimeno voluto aver per ricevute quasi tutte le parole, ed altre particolarità di questa Lingua, che a loro non parevano Latine, da ogni altra men nobile, e più nuova, che dalla Greca ec. E pure essendo essi Italiani pareva, che dovessero ingegnarsi di trovare, e presso che fingere alla nostra Lingua più nobile origine, che si potesse, per non traviare dal loro proprio, anzi dal comune costume degli Uomini d’ innalzare le lor proprie cose, siccome 

a ciascuno suol dettare l’ amor di se stesso.” 

Contuttociò non annoverando egli nell’ accennato discorso, che quaranta parole originate dalla Lingua Greca; ed alcune, dalla Latina; 

e due, o tre dall’ Ebrea, senza far menzione in verun conto de’ Provenzali; e per conseguenza non essendovi cosa, che meriti risposta, lo lasciamo da parte, senza ricercar altro, essendo questa tutta la sostanza del contenuto sotto quel vago, e spazioso titolo della Conformità della Lingua Italiana con le più nobili antiche lingue.


XLVI. 

Il Giambullari poi, Accademico Fiorentino, nel libro, che nell’ anno 1549. diede in Firenze alla luce, intitolato. Origine della Lingua Fiorentina, altrimenti il Gello, composto in forma di dialogo, vuole primieramente far credere altrui, che la suddetta Lingua abbia più dependenza, o sia più tosto originata, e formata dall’ Aramea, o Ebrea, che da qualsivoglia dell’ altre; e poi niega, che la medesima Toscana favella, o Fiorentina come allora dicevasi, abbia tolte delle parole alla Provenzale, con questo argomento (125: A cart. 127.): E si come ci addussero questi soldati (intende de i Tedeschi, e Goti) la lingua, o per dir meglio, le voci Todesche (: tedesche), così ci vennero ancora le Franzesi dagli Angioini, per que’ tanti Carli, e Roberti di Napoli, che impoverirono questa Città. E se voi forse mi diceste, che la Provenzale non è la Lingua Franzese, vi risponderò io, non solamente che costoro farono Franzesi, e non Provenzali: Ma che, o la Provenza, come vera Provincia Romana, donde ella si acquistò quel nome, parlava Latino, ma corrottamente; ed in questo caso non ci bisogna, come si dice, andare in oringa, per quello che abbiamo in casa: o ella parlava, come il resto della Francia, da alcune poche voci infuora, che per se stesse non fanno lingua; e così la possiamo giustamente chiamar Franzese più tosto, che Provenzale: o ella parlava un mescuglio sì fatto, che vi si riconosceva il Latino, e ‘l Franzese: e in qualunque di questi modi, se e’ si rende a ciascuno il suo, piglieremo il Latino di Roma, e di Francia tutto il resto.


XLVII. 

Per soddisfare a questo argomento di Messer Giambullari, concederò volentieri, che nella nostra Lingua Provenzale vi si riconosca la Latina, anzi affermerò, che tenint en tot una viva semblanza ab sa Mare Llatina, come osservano i nostri Autori (126: Presso il Signor Du Cange Prefaz. Glossar. Lat. Barbar. num. 35.), sia ella veramente la figlia primogenita di essa Latina: Ma non per ciò ne segue, che la Toscana, che è la figliuola più picciola, sì, ma (sia detto con buona pace e de’ Castigliani, e de’ Franzesi) la più bella, e leggiadra di tutte l’ altre sue sorelle, non abbia infinite parole tolte alla suddetta primogenita sua cara Maestra, e sorella maggiore, benchè dal Latino molte di cotali parole sieno originate, avendole prima i Provenzali prese, ed accommodate all’ uso loro, e da essi poi derivate ne i Toscani, come ottimamente rispondono al Castelvetro quei del 73. coll’ esempio del verbo Dottare, accennato di sopra ne’ numeri XLI., e XLII. in risponendo al Menagio. Che poi nella Lingua Provenzale vi si riconosca la Franzese, è falso, anzi al contrario la Francese è quella, in cui si riconosce la Provenzale, per esser questa più antica di quella; conciossiachè molto prima si parlò per tutt’ l Regno di Francia la Provenzale, che la Franzese, come si è dimostrato ne i numeri XXV., e XXVI., e si manifesterà ancora appresso colla autorità del Presidente Claudio Fauchet Franzese


XLVIII. 

Nega in oltre questo Fiorentino Accademico, che i nostri Provenzali Poeti sieno stati prima degl’ Italiani, col seguente discorso (127: A cart. 132.): Come può la Provenza aver trovato i versi, è le rime? che quando ben non si fossero vedute prima ne’ Greci, e ne’ Latini, (non si tratta delle rime o vero della Poesia Greca, nè Latina, ma della Volgare) dove oggi ancora le veggiamo; elle erano pure in Italia nella Corte de’ Re di Napoli, se non prima, nel medesimo tempo almeno, che in Provenza. Conciossia che Arnaldo, e gli altri famosi dicitori Provenzali furono col Conte Ramondo Beringhieri suocero di quel Carlo d’ Angiò, che occupando il Regno di Napoli, uccise il buon Re Manfredi figliuolo di Federigo II. Per lo che agevolmente pare da conchiudere, che Federigo predetto, fosse più tosto più antico del Conte Ramondo, che più moderno: E di Federigo ci sono pure stampate alcune Canzoni, non Provenzali già, ma Siciliane, o Italiane; come sono quelle ancora di Jacopo da Lentino, di Guido Giudice Messinese, del Re Enzo, di Pietro delle Vigne, di Bindo Bonichi da Siena, e del nostro Lapo Gianni; le quali tutte, se non sono più antiche, sono almeno della medesima età che le Provenzali.




XLIX. 

Intorno a così fatto ragionamento, debbo avvertire, che vi furono cinque Conti di Provenza dello stesso real cognome de i Beringhieri, e del medesimo nome di Ramondo; e questo Raimondo di cui parla il Giambullari, coetaneo dell’ Imperatore Federigo II. fu il quinto, ed ultimo, il quale morì nel 1245. come apparisce dalle Vite de’ Poeti Provenzali, cioè dalla XXVIII., che è quella appunto di esso Conte Raimondo; e meglio assai dalla Storia della Città di Aix, composta dal Dottor Giovanni Scolastico Pittoni, sotto’ l Capitolo intitolato (128): Raimond Berenguier V. du nom, dernier de la Maison de Barcellone, & ses quatre filles; onde l’ impareggiabile Dante (129): 

Quattro figlie ebbe, e ciascuna Reina

Ramondo Berlinghieri, e ciò gli fece 

Romeo persona umile, e peregrina: 

Ma però Arnaldo Daniello, e gli altri famosi dicitori Provenzali, come Giuffredo Rudello, appellato dal Petrarca Provenzalmente Giaufre Rudel, Piero di Vernigo, Elia di Bargiolo, Guglielmo di San Desiderio, Guglielmo Adimaro, ed altri, fiorirono più di cent’ anni prima del suddetto Ramondo suocero di Carlo d’ Angiò Re di Napoli, e Conte di Provenza; cioè, nel tempo, e prima ancora, dell’ Imperatore Federigo I., Poeta Provenzale anche esso, e di Ramondo Beringhieri il III. rispetto alla Contea di Provenza, e il IV. rispetto a quella di Barzellona, che fu padre d’ Alfonso I. Re d’ Aragona (N. E. el II como rey de Aragón, el I como conde de Barcelona), e morì nel 1162., come si è veduto di sopra nel num. xxxj., ed apparisce dalla predetta Istoria della Città d’ Aix (130), e dall’ epitome della genealogia de i Conti di Barzellona posto in fronte de i Volumi delle Costituzioni, e Leggi di Catalogna.


L. 

Nel rimanente, il voler provare, che la Lingua Toscana, o qualunque altra delle volgari, sia composta ed originata dall’ Aramea, ovvero Ebrea, è una temerità, per non dir pazzia, ed è lo stesso che ‘l voler fabbricar castella nell’ aria, come dice appunto l’ eruditissimo Atanasio

Chirchieri della celebre Compagnia di Gesù nella sua famosissima Torre di Babelle, il quale essendo stato interrogato dall’ Imperatore Ferdinando III. Utrum radices linguarum reperiri queant ad universalem quamdam linguam constituendam, siccome alcuni begli spiriti del suo tempo, si persuadettero, così rispose, e lasciò scritto (131: Lib. 3. part. 3. cap. 7. fogl. 218.) “Utique Caesareo perculsus imperio, ut laudabilis Caesaris curiositati quovis modo satisfacerem, à primis principiis propositum mihi dubium, singulari studio, & diligentia adhibita enodandum censui. Sed vix dum coeperam, cum ecce, ut verum fatear, idem mihi accidisse videtur, quod typothetae, qui plura librorum folia, compositione peracta, jam typis praelo destinata in promptu habet. Verùm nescio quo casu dissolutis ligaminibus typi sparsim per terram dissipati, nullum prorsus veri sensus vestigium relinquunt, neque ad pristinam formam prototypi jam perditi reduci queunt. Pari prorsus modo accidit in infinita illa propè linguarum, & idiomatum multitudine, & varietate, quae ab origine mundi hucusque ob inaccessam antiquitatis vetustatem, ob tot imperiorum mutationes, tot populorum diversorum commixtionem, inter tot denique rerum humanarum vicissitudines, & corruptelas expositae fuerunt, ut proindè minimè fieri posse existimem, aut fundamentum omnibus linguis commune reperiri posse, credam. Quot enim in lingua Chaldaïca, Syriaca, Arabica, & AEthiopica verba occurrunt, quae nullam prorsus ad primariam linguam, quam nos Hebraeam esse determinamus, (exceptis iis, quae ab ea demanarunt) similitudinem obtinentem totoque, ut ajunt coelo differunt? Quis rogo vel unicum verbum in lingua Hebraea ceterisque reperiet, quod ad linguam Graecam, ne dicam Latinam aliquam affinitatem habeat? Si verò nonnullae voces occurrerint, quae tametsi quoad sonum quamdam similitudinem polliceantur, illae significatione tamen prorsus contrarium exhibeant. Hacitaque diligentia praemissa, & combinatoriae artis amussi applicata, dico temerarium, ne dicam stolidum corum esse tentamentum, qui in hoc negotio adeò arduo, & viribus humanis superiori aliquid se praestare posse praesumptuosius credunt. Desinant itaque hujusmodi imperiti rerum indagatores piscari in aëre ranas, quae sine alis volare censent. Sisyphi saxum volvant, atque inutili labore revolvant, omnemque humanam in hisce explorandis industriam, vanam, irritamque se comperturos certò sibi persuadeant. Horum numero jungi possunt omnes ii, qui linguam Germanicam, aut quamvis aliam ex Hebraicis verbis, vocibusque constitutam demonstrare se posse existimant. Quos inter meritò primum locum obtinet Goropius Becanus, qui Belgicam linguam libro integro primaevam illam, veramque Hebraeorum linguam, aut saltem mediatè ab ea derivatam conatur demonstrare; miratus sum equidem 

virum caeteroquin eruditissimum, in re adeò ludicra, tot bonos dies, horasque consumpsisse. Quis enim nescit, in omnibus penè linguis nonnullas voces, Hebraeis quoad sonum similes reperiri, quarum tamen genuinam significationem ut exprimat, dici vix potest, quàm violenter, quàm coactè, ut quoad sensum Hebraeae respondeant, detorquere conetur. Et certè mihi persuadeo virum judicio pollentem 

difficultates occurrentes non potuisse non praevidisse. Ut proinde ne ejus existimationi nonnullo praejudicio esse videar, eum non tam veritate convictum, id sensisse, quàm ingenii luxuriantis aestu abreptum ad sagacitatem, subtilitatemque ingenii ostentandum, similia 

effutiisse arbitrer.


LI. 

Resta per ultimo Celso Cittadini, il quale scrisse tra gli altri, e diede alla luce due Trattati; l’ uno intitolato: Della vera Origine, e del Processo, e Nome della Volgar Lingua; e l’ altro: Dell’ Origine della Toscana Favella; a’ quali aggiunse le Note sopra le Prose di Pietro Bembo. Nel primo vuol dar ad intendere, che essa volgar Lingua Toscana, colla quale si parlò nel suo tempo, e si parla oggi, sia stata sempre da antico tempo adoperata in Italia, e spezialmente nel Lazio, sino da’ suoi primi abitatori sotto Jano, e Saturno; con quelle parole (132: Cap. 2.): che per ogni tempo, e prima, e poi, furono in Roma due sorte di lingue. L’ una rozza, e mezzo barbara, la quale era propria del volgo, cioè de’ Romani, e de’ Forestieri idioti, o vogliamo dir, della gente bassa, e de’ contadini senza lettere; i cui modi di dire, e le cui voci erano rifiutate dagli Scrittori, e da’ dicitori nobili; e fuor che le passioni di esse principalmente, e per la maggior parte sono rimaste nelle bocche degl’ Italiani Uomini senza distinzione di viltà, o di nobiltà: laonde ancor’ al presente linguaggio è rimasto il nome antico, cioè volgare, siccome convenevolissimo; poichè principalmente la Lingua Latina antica del volgo s’ è conservata fra noi; e di questa sorte di Lingua non avemo esempio alcuno di rilievo in iscritto, ma solamente se ne trovano così fatte reliquie in alcune iscrizioni, o titoli di statue, o di edifizi, e in alcuni epitaffi di sepolcri di que’ tempi; ed oltre a ciò v’ è la testimonianza di più Autori, che ella ci fosse, come a’ suoi luoghi verrem mostrando. E l’ altra coltivata dall’ arte, e pura Latina, la quale era propria degli scrittori, e de’ dicitori nobili, e letterati.


LII. 

Fra le inscrizioni da lui accennate, e in esso suo Processo della vera origine della Volgar Lingua prodotte, per provare, che con la Lingua, che si parla oggi in Roma, si parlava già in tempo degli antichi Romani, la principale, e di più rilievo si è la seguente della Colonna, che fu nel Romano Foro innalzata a Cajo Duillio Console nell’ anno 496. dopo l’ edificazione di detta Città, per la vittoria, che riportò dell’ Armata navale de’ Cartaginesi, come si legge nel Campidoglio.

EXEMET. LECIONES. MACISTRATOS.

EXFOCIONT.

PUCNANDOD. CEPET. NAVEBOS.

CONSOL. PRIMOS.

ORNAVET. DICTADORED. OLOROM.

ALTOD. MARID.

TRIRESMOS. CAPTOM. NAVALED.

PRAEDAD. POPLOM.

CARTACINIENSIS. 

La testimonianza de più Autori, che pel medesimo fine egli allega, è questa (133: Cap. 19.): “Nel Concilio Turonense celebrato sotto Carlo Magno si trova scritto, fra l’ altre cose: Visum est unanimitati nostrae, ut quilibet Episcopus habeat homilias continentes necessarias admonitiones, quibus subjecti erudiantur, id est, fide catholica, prout capere possint de perpetua retributione bonorum, & de aeterna damnatione malorum, de resurrectione quoque futura, & ultimo judicio, & quibus operibus possit promereri beata vita, quibusve excludi: & ut easdem homilias quisque apertè transferre studeat in rusticam, & idioticam Romanam Linguam, qua faciliùs cuncti possint intelligere, quae dicuntur.” Ove si vede, che quel Concilio intende espressamente della Lingua Volgare, la qual chiama, non barbara, per esser tutti Cittadini Romani, e Cristiani; ma chiamala, rustica, come la chiamavano anco i Romani fino al tempo d’ Augusto: onde appo Varrone, lib. I. de Lin. Lat. si legge: In pluribus verbeis A ante E alii ponunt, alii non, ut quod partim dicunt, Scaeptrum, partim dicunt Sceptrum, alii faenus, alii fenus: sic faenisicia, & fenisicia, à quo rustici, Pappum Mesum, non Maesum, à quo Lucilius scribit: Caecilius praetor ne rusticu sias. Onde Festo dice: Orata genus piscis à colore auri dicta, quod rustici aurum, orum: ut auriculas, oriculas:” come diciam noi ora volgarmente, oro, ed orecchie ec.


LIII. 

Il motivo fondato nelle iscrizioni antiche de’ Romani, non merita risposta, lasciando al giudizio del Lettore, il risolvere, se il Linguaggio, che si parla oggi, sia il medesimo che quello della suddetta inscrizione della Colonna, che fu dirizzata a Cajo. Quello però, ch’ io ho letto, ed osservato in Roma intorno a questo proposito si è, che la iscrizione, che si suol mettere alle porte delle case, che sono da affittare, è in Lingua Latina pura, che, in vece di dire Appigionasi, come si vede, e s’ usa in Firenze, dice a lettere di scatola, e di carattere gotico, Est locanda: onde da simile memoria, o anticaglia, che per succession di tempo, e di mano in mano ivi è rimasta, chiaramente apparisce, che essa Latina Lingua, avvegnachè non tutti i Romani la usassero colla medesima purità, ed energia di Cicerone, e di altri nobili dicitori, e letterati, era la unica, e la volgare, che gli stessi Romani, nel

comun parlare, ed in tutte le loro bisogne adoperavano; siccome ancora oggigiorno l’ inclito Senato, e Popolo Romano, o vero l’ Eccellentissimo suo Magistrato, ne’ suoi pubblici ragionamenti l’ adopera, e a tutto suo podere, e per amore, e per diritto di patria la mantiene, e conserva.

LIV. 

Circa poi alla prodotta testimonianza di più Autori, debbo giustamente avvertire, che la lingua di cui intende parlare quel Concilio celebrato in Francia in tempo di Carlo Magno, è appunto la nostra Provenzale, la quale fu in quei tempi appellata Romana rustica; onde il nostro Giaufre Rudel, ch’ usò la vela, e il remo 

A cercar la sua morte (134: Petrarc. Trionf. Amor cap. 4.),

antichissimo Poeta Provenzale, che fioriva circa l’ anno 1100., disse in uno de i suoi leggiadrissimi Componimenti (135: Cod. Vatic. 3205. a c. 102. terg.):

En es breu de pergamina. 

Tramet lovers qe cantam.

En plana lengua Romana. 

Anugo l brun ec. 

In questo Breve di pergamena

Trametto il Verso, che cantiamo

In piana Lingua Romana 

A Don Ugo il Bruno.


E ciò si comprova colla testimonianza di parecchi Autori, ed in particolare del Bouche (136), che dice così: Les originaires du Païs (intende della Provenza) ont puis apres introduit un nouveau langage different du Celtique ancien; lequel nouveau langage n’ êtoit point vraysemblablement d’ autre sorte, que Nithard au livre 3. parlant du mutuel serment que les Enfans de l’ Empereur Louis le Debonnaire firent au siecle IX. environ l’ an 842. nomme Romain, que quelques uns disent, qu’ il êtoit le vray langage Provenzal de ce siecle là, pour la grande conformité de paroles, qui se trouve en l’ un, & en l’ autre; c’ est ainsi que parle Nithard, qui vivoit en ce temps, qui êtoit parent de ces Rois, con quel che segue. E del Paschieri nelle sue Ricerche della Francia (benchè egli sbagli, prendendo la Lingua Franzese, per la Romana Rustica, poichè in tempo di Carlo Magno non era ancora nata essa Franzese, come si raccoglie da quel che è stato didotto di sopra nel numero XXVI., e si vederà appieno coll’ autorità del Fouchet, che s’ addurrà in appresso; essendo allora la sola Provenzale, ovvero la suddetta Romana Rustica, quella, che si usava per tutto ‘l Regno di Francia) il quale così lasciò scritto (137): «Sous ce mot de Romanus, on entend parler du Gaulois. De là vint aussi qu’ on apella Roman nôtre nouveau langage. Vray que pource qu’ il êtoit corrompu du vray Romain, je trouve un passage où on l’ appelle Rustique Roman. Au Concile tenu en la Ville d’ Arles (Arlés) l’ an 851. article dixseptiéme l’ on comand aux Ecclesiastiques de faire Homilies contenans toutes instructions qui appartienent à l’ edification de nôtre Foy. Et easdem Homilias quisque transferre studeat in Rusticam Romanam, aut Theodoscam, quò faciliùs cuncti possint intelligere quae dicuntur.” C’ estoit qu’ il vouloit qu’ on translatast ces Homilies en la Langue Franzoise, ou Germanique, que les Italiens apellent encores aujourd’huy Tudesque; par ce que nous commandions lors à l’ Allemagne, ainsi qu’ à la France. Depuis par un long succez de tems parler Roman n’ estoit autre chose que ce que nous disons parler François.


LV. 

E meglio assai, e più concludentemente si convince con l’ autorità di Claudio Fauchet, che fiorì, e scrisse nel secolo decimosesto (138): 

“Vray è, que nos Roys ayans leur Royaume estendu jusque dans la Germanie, & Pepin êtant venu des Ducs d’ Austrasie; la Cour de France êtoit durant les deux premieres familles hantée de deux sortes de gens parlans divers langages; à sçavoir ceux de deçà la riviere de Meuse, Gaulois-Romain, ceux de delà (vers, & outre le Rhin) Theusch, ou si voulez parler plus modernement, Thiois. &c. Qui peut être la cause pourquoy ceux qui du temps de cest Empereur vivoyent de là la Meuse estoyent estimez parler Theutonic, ou François Thiois; & ceux de deçà Romain, pource qu’ on appelloit ce quartier où nous demeurons, France-Romaine. Et suivant celà au Concile tenu à Tours l’ an 812. il est porté par le xvij. article, Quilibet Episcopus habeat Homilias &c. Et easdem quisque apertè traducere studeat in Rusticam

Romanam Linguam, & Theotiscam” c’ est à dire, en Langue Romande, & Thioise. Ceste Langue Romande n’ estoit pas la pure Latine, ains Gauloise corrompue par la longue possession, & seigneurie des Romains; que la plus part des hommes abitans de puis la dicte riviere de Meuse jusques aux monts des Alpes, & des Pyrenées parloient. ec. Et qu’ ainsi ne soit, qu’ on entendoit il y a DCCC. ans, que parler Rustic Romain fut le langage commun des abitans de deçà Meuse; il ne faut que lire ce qu’ a escrit Nitard en son Histoire de la discorde des Enfans de l’ Empereur Louis le Debonnaire, advenue en l’ an Dcccxlj. Car faisant mention de Louis Roi de Germanie; & de Charles le Chauve son frere Roi de France Westrienne ou Occidentale (c’ est à dire de ce qui est entre Meuse, & Loire) il dit, que les deux Rois voulans asseurer ceux qui les avoient suivis, que cête alliance seroit perpetuelle, ils parlent chacun aux gens de son pair (c’ est le mot don le dit Nitard use) à sçavoir Louis Roi de Germanie aux François Westriens, qui suivoient le dit Charles, en Langue Romaine, c’ est à dire, la Rustique; & Charles à ceux de Louis, qui estoient Austrasiens, Alemans, Saxons, & autres abitans delà le Rhin, en Langue Theutonique, qui est la Theotisque du dit Concile de Tours; ou comme j’ ay dit, Thioise. Les paroles du Serment que Louis fit en Langue Romaine furent telles, ainsi que je les ay prises d’ un livre êcrit il y a plus de cinq cens ans. Pro don amor & pro xpian poblo & nostro commun salvament dist di en anant inquant Deus savir & podir me dunat si salvareio cist meon fradre Karlo & in adiudha in cadhuna cosa si com hom per dreit son fradre salvar distino quid il un altre si faret. Et abludher (ab Ludher : Luther : Lotario) nul plaid nunquam prindrai que meon vol cist meon fradre Karle in danno fit.”

Et le peuple de Westrie respond en mesme langage. Si Loduvigs sagrament que son frade (fradre) Karle jurat conservat & Karlus meo sendr’ de sua part ñ lo stanit: Si io returnar non lint pois ne io ne nuls cui co returnar int pois in nulla adiudha contra Lodhuvig non li iuer.” 

Or ne peut-on dire que la langue de ces sermens, laquelle Nitard appelle Romaine, soit vrayement Romaine, (j’ entens Latine) MAIS PLUTOT PAREILLE A’ CELLE DONT USENT A’ PRESENT LES PROVENZAUX, CATALANS, ET CEUX DE LANGUEDOC. Et il appert par les livres composés en Langue Latine du temps de Charles le Chauve, qu’ il y a grande difference entre ce serment, & ce qu’ ils tenoient lors pour Latin. Il faut donc necessairement conclurre, que cête Langue Romaine entendue par les soldats du Roi Charles le Chauve, estoit cête rustique Romaine en laquelle Charles le Grand vouloit que les Omelies prêchées aux Eglises fussent translatées, à fin d’ être entendues par les simples gens, comme leur langue maternelle, aux sermons; ainsi qu’ il est aisé à deviner, ou juger. Il reste maintenant sçavoir, pourquoy cête Langue Romaine Rustique a êté chassée outre Loire, delà le Rône, & la Garonne? Ce que je librement ne pouvoir asseurer par têmoignages certains: Car qui seroit cêlui-la tant hardi, de seulement promettre pouvoir tiré la verité d’ un si profond abisme que celui où l’ ignorance, & nonchalance de sept ou huit cens ans l’ a precipitée? 


LVI. Nell’ altro Trattato poi, che fa il sopraddetto Celso Cittadini dell’ Origini della Toscana favella, oltre che egli già confessa sul bel principio, cioè nel capitolo primo, che la nostra Lingua concorsse alla formazione di quella; altro in quest’ opera non ha egli preteso di fare, che l’ ordinare alcuni precetti pel regolamento della pronunzia larga, e stretta, così nella E, come nell’ O; cioè per conoscere dove queste vocali vanno pronunziate aperte, e dove chiuse: Ma cotali precetti sono si sregolati, e confusi, che ha piuttosto illaqueate le coscienze de’  buoni Gramatici, osservatori scrupolosi del ben parlare, come disse, e criticò mirabilmente il suo concittadino Gigli (139); dell’ istesso modo per l’ appunto, che pretesero di fare, quei, che sul principio del secolo XVI., i caratteri Greci co i nostri pel medesimo fine mescolarono; ed in questi giorni volle fare altresì, il mentovato Gigli (140), senza badare agli avvertimenti, che il letteratissimo Abate Anton Maria Salvini, Maestro del ben parlare diede alcuni anni prima, su questo affare medesimo, agli amatori della Toscana pronunzia nella seguente guisa (141) “Il Signor Ottaviano Parissi Volterrano affezionatissimo tra gli altri agli studi di Lingua Toscana, mi diceva, che facilmente si potean distinguere nella scrittura i diversi suoni delle vocali; facendo per esempio, che l’ E significasse l’ e aperta: l’ e significasse l’ e stretta: l’ o con un punto in mezzo fusse l’ o aperto: senza, l’ o stretto. Già l’ v consonante si è posta in uso distinta dall’ u vocale. E così con poco, e senza far novità di caratteri si arricchiva la lingua di queste distinzioni. I caratteri Greci, mescolati co’ nostri, come voleva introdurre il Trissino, scordano nell’ architettura, e non fanno buona mischianza; oltre che l’ e (e más pequeña) per l’ e aperta non fu bene appropriata, essendo per altro, più nel valore all’ e stretta somigliante. Ci è lo Spatafora Siciliano, che ha fatto un Vocabolario come di Prosodia, co’ suoi accenti, e distinzioni di suoni; ma nè egli, nè il Trissino Vicentino per tutto sono sicuri, e non rappresentano sempre la legittima Toscana pronunzia.


LVII. 

Le Note poi, che ‘ l medesimo Cittadini scrisse sopra le Prose del Bembo, le quali il suddetto Gigli fece stampar in Roma presso Antonio de’ Rossi nel 1721., sono insussistenti, e derisorie come può vedere ognuno in leggendole; e quì ne darò un saggio. Parlando il Bembo nel primo libro, della stima, che per tutto il Ponente ebbe la Lingua Provenzale ne’ tempi ne’ quali ella fiorì; là dove dice: Anzi ella tant’ oltre passò in riputazione, e fama, che non solamente Catalani ec. o pure Spagnuoli più addentro (tra’ quali fu uno il Re Alfonso di Aragona figliuolo di Ramondo Beringhieri) ma oltre a ciò eziandio alquanti Italiani si truova, che scrissero Provenzalmente: vi fa la seguente annotazione. Nota: Catalani senza articolo è reputato essere barbarismo. E appresso: Nota: Alfonso Re di Aragona figliuolo di Ramondo Beringhieri: Erra credo in Istoria, che Genero suo fu, non figliuolo. Ora, se questo Cittadino Sanese avesse fatta riflessione, che il gran Bembo allora che colle sue regole in fiorito stile dettate, incominciò in quel luogo, ad alzar l’ insegna al bel Toscano parlare, parlò indeterminatamente, cioè senza annoverare chenti, nè quanti fossero i Poeti Provenzali di Nazione Catalana, che in quei tempi mirabilmente fiorirono; e che l’ articolo, sì in Toscano, che in Provenzale ha forza di determinare, e distinguere la cosa accennata, come insegnano i Gramatici, e doveva egli sapere, per essere Lettor pubblico di Lingua Toscana nello Studio di Siena; credo certamente che non avrebbe rinvergato, che Catalani senza articolo nel citato luogo fosse reputato per barbarismo. Oltrechè non è cosa nuova appresso gli scrittori nobili l’ adoperare più nomi nella Toscana favella, ora con articolo, or senza, secondo che vien loro più in acconcio, come dice magistralmente il Buommattei (142) pubblico Lettore di essa nello Studio Pisano, e Fiorentino.


LVIII. 

Per quello che riguarda all’ accennata Storia, doveva egli prima, per non errare, consultar le Croniche, e le Genealogie de i Conti di Barcellona, e de i Re d’ Aragona; o almeno nello stesso tempo, che s’ intrattenne in Roma ricercando nel Campidoglio, e altrove le iscrizioni antiche delle colonne, e degli epitaffi per tessere, e formare il processo della Lingua Toscana, potea vedere anche i Codici delle Rime Provenzali esistenti nel Vaticano, ove avrebbe trovato, che Lo Rei d’ Aragò aquel que trobet si ac nom Amfos, e fo lo premiers Rei que fo en Aragon fils den Ramon Berenguer que fo Coms de Barsalona

cioè, il Re d’ Aragona, quegli, che trovò (poetò) fi ebbe nome Alfonso, e fu il primiero Re, che fu in Aragona (cioè il primo della stirpe de’ Beringhieri) figliuolo di Don Ramondo Beringhieri che fu Conte di Barzellona: come si legge a lettere rosse, e belle in uno di essi Codici Vaticani (143), col seguente ritratto del medesimo Re a cavallo, che ivi è dipinto, e vagamente miniato (siccome vi sono altresì, e nella istessa guisa dipinti quasi tutti i ritratti degli altri Trovatori, o Poeti in esso Codice contenuti, e ognuno colla sua divisa, come fra gli altri quello del Vescovo Folchetto di Marsiglia, che è abbellito co i Pontificali vestimenti) ove si vede armato con lancia, ed elmo, e collo scudo della insegna del suo antichissimo, e Real Casato, consistente in quattro liste rosse in campo d’ oro, la quale insegna usa non solo il nostro supremo, e Real Senato di Catalogna, ma l’ Aragonese ancora sin da che il mentovato Raimondo Padre di esso Alfonso sposò la Regina d’ Aragona chiamata Petronilla, e prese il titolo di Principe, il che addivenne nel 1137.; e l’ adopera altresì la Città d’ Aix Capitale della Provenza, per privilegio concedutole da’ medesimi Conti Barzellonesi Sovrani di quella Provincia, particolarmente dal suddetto Alfonso I (Alfonso II de Aragón, I como conde de Barcelona). (144).

Lo Rei d' Aragò aquel que trobet si ac nom Amfos, e fo lo premiers Rei que fo en Aragon fils den Ramon Berenguer que fo Coms de Barsalona

LIX. 

Di tanto finalmente (per terminare colle stesse parole con le quali gli Accademici della Crusca finiscono la Prefazione del loro Vocabolario) ho stimato dover far avvertito il benigno Lettore, rimettendo il rimanente al discreto giudizio suo, e pregandolo a riconoscere in ogni parte di questa Opera, non meno la sincerità dell’ animo mio, che la mia faticosa applicazione nel cooperare a tutto potere al vantaggio non meno della Provenzale, che della Toscana Favella; Solo soggiugnerò per fine, che se talora vi faranno per entro ‘l Libro trascorsi alcuni barbarismi, o altri somiglianti errori di lingua; non lo faranno già tutti quei vocaboli, e modi di dire, che forse qualcheduno de’ Lettori poco pratico de’ MSS., e degli antichi testi di lingua, crederà, che sieno tali, o che gli parrà esser corrozioni; mentre si possono salvare con qualche esempio degli autorevoli Prosatori, e Poeti del buon secolo, conforme in simil proposito nota il sopraccitato Gigli nelle sue Regole sopra la Lingua Toscana (145: Il sopraddetto Gigli Reg. Tosc. Favell. a c. 56.); avvegnachè non sieno registrati nel Vocabolario della Crusca, la quale ne tralasciò molti contuttochè sembrino o corrozioni, o barbarismi; avendone io rinvergati alcuni, che per entro ‘l Libro ne’ loro posti dell’ alfabeto ho tratti fuora, come affaitare, cioè raffazzonare, agenzare, che vale abbellire, aigua per acqua, aire in cambio d’ aria, arma in vece d’ anima, cara per volto, oglio, cioè occhio, ed altri; non dubitando, che nella nuova edizione del Vocabolario, che si prepara, farà dato anche a questi il loro luogo, siccome pare, che ce ne dieno speranza gli Accademici (146); acciocchè a dispetto e dell’ obblivione, e dell’ ingiuria de’ tempi, onorata memoria se ne conservi, preservandogli da que’ pregiudici, e da que’ pericoli a’ quali i molti accidenti, portati necessariamente dal tempo fanno soggetti tutti i linguaggi (come osservano gl’ istessi Accademici (147), avendo mostrato la sperienza, che eglino o in tutto, od in parte si perdono, o s’ infettono, e si corrompono; de’ quali pregiudici già cominciava la nostra Lingua a sentirne parte, ed era in procinto di maggiormente sentirgli, essendo venuti, e venendo tutta via meno i libri manuscritti di buoni Autori, ne’ quali una grande, e forse la miglior parte di voci, e di locuzioni si conservava: ed acciocchè non possa mai loro accadere la disgrazia, che anno avuta le voci: andare zacconato, gattuccia, ed altre trasandate, delle quali non che l’ uso la significanza stessa si è perduta (148). Oltrechè per essere comunemente simili vocaboli, e modi di dire antichi Provenzali, radici, ed origini del purgato dialetto, che ora corre, come attesta il dottissimo Crescimbeni (149), sembra che per giustizia, non che per elezione sia loro dovuto decoroso stallo fra gli altri, che per entro il Vocabolario leggiadramente schierati si vedono, che non sono sì riguardevoli, e che nulla rappresentano, come chicchi bichiacchi, artagoticamente, ed altri così fatti. Anzi per l’ accennata ragione di essere eglino della Lingua Provenzale, e per conseguenza radici, ed origini dell’ Italiana, avvegnachè antichi, o corrotti sembrino, a bello studio si dovrebbono adoperare, non che registrare, come ci ammonisce magistralmente il Varchi (150).


LX. 

Laonde, per difendere, e salvare i miei errori, che per entro ‘l Libro possono essere trascorsi, conchiudo, che più tosto che errori dovrebbero con più proprietà chiamarsi Provenzalismi, de’ quali abbondano le scritture Toscane del buon secolo, e maggiormente quelle tratte da i testi Provenzali (151), che sono molte (152). E molto più si rende ciò manifesto, se si considera, come ho toccato di sopra, che la medesima nostra Lingua Provenzale pura, e schietta, che per tutta l’ Europa si sparse, fu ella da’ Toscani studiosamente ne’ primi tempi adoperata, e poi, lungamente imitata (153), siccome da tutta la Francia, dall’ Inghilterra, e dalla Germania (154), essendo allora amata, e pregiata come la Greca, e la Latina (155), e fu ai più delicati ingegni comune, ed universale; anzi tant’ oltre passò in riputazione, e fama, che ella sola fu in istima tra le lingue (156). Egli è ben vero però, che non per questo ho usato a bella posta modi, e parlari Provenzaleschi, ed altri, che da’ più esatti scrittori, e dal Comune delle Accademie oggi giorno si rifiutano; anzi mi protesto, che se talora n’ averò adoperati alcuni, ne farà stata la cagione la forza del natio parlare, che è assai efficace; e non mica già, perchè non abbia proccurato col mio studio, per quanto ho potuto, conformarmi all’ uso corrente, ed approvato dalla nostra Arcadia di Roma. Prego pertanto in ogni modo, il benigno, e cortese Lettore a voler compatirmi, se nel ragionare con questa moderna Favella, anzi per me nuova affatto, e straniera, in un’ Opera, per altro, di così vasto, e lungo lavoro, e d’ una smisurata ampiezza d’ Autori, e di Libri, averò talora sbagliato nella più stretta osservanza dell’ arte del ben parlare Toscano; posciachè, se io ho scritto in questa moderna Lingua del bel paese, che l’ Apennin parte, e ‘l Mar circonda, e l’ Alpe, ciò solo è stato per far risorgere, ed innalzare colla medesima quel puro, semplice, netto, e dolce Provenzale Idioma, in cui sono stato allevato, a quell’ antico grado di onore a cui era egli salito prima che ne cadesse, siccome per legge di natura sono obbligato, e giusta mia possa ho fatto per mezzo di essa sua cara Fiorentina sorella, e quasi figliuola, ove alzato per se non fora mai: Idioma Maestro, per altro, e Padre d’ una gran turba di Poeti, come Amerigo, Bernardo, Ugo, ed Anselmo, ed altri infiniti tutti dolcissimi, e Musici insieme, come erano gli antichi Lirici Greci; e Melici ancora, cioè compositori del Melos, o dell’ aria musicale, a i quali egli solo, lancia, e spada fu sempre, e scudo, ed elmo.


Continúa aquí (Tavola, taula)

NOTAS AL PIE:

(2) Federigo Ubaldini Tavol. Docum. Amor. Barberin. alle voci Bigordare, e Ostare, e nel Catalogo degli Autori Provenzali prefisso a detta Tavola.

Francesco Redi Annot. Ditir. terza ediz. accresciut. in Firenze 1691, fogl. 63. 140. 194. 195. 196. 198., e 203.

Gio. Mario, Arciprete Crescimbeni Custode d’ Arcadia Comentar. Istor. Volgar. Poes. volum. 2. part. I. fogl. 28., e 75.


(3) Benedetto Varchi nel suo Dialogo titolato l’ Ercolano a car. 155. ediz. Firenze 1570. Conte. E venendo al primo intendimento nostro, ditemi, di quante, e quali lingue voi pensate, che sia composta la Volgare? Varchi. Di due, della Latina, e della Provenzale. E car. 172.

Onde conchiudendo dico, che la Lingua Volgare, se bene ha di molti vocaboli, e di molte locuzioni d’ altri idiomi, è però composta principalmente della Latina, e secondariamente della Provenzale.


(4) Lo stesso Varchi nel citat. Ercol. a c. 115. Conciossiacosa che come la Latina si può dire d’ essere discesa dalla Greca, essendosi arricchita di molte parole, e di molti ornamenti di lei, così, anzi molto più la Toscana dalla Latina, benchè la Toscana quasi di due Madri figliuola è molto obbligata ancora alla Provenzale.


(5) Il Bembo Prof. 1. Perchè errare non si può a credere, che il rimare primieramente per noi da quella nazione (Provenzale) più che da altra si sia preso. ec. Il che se mi si concede, non sarà da dubitare, che la Fiorentina Lingua da’ Provenzali Poeti, più che da altri, le rime pigliate si abbia, ed essi avuti per Maestri; quando medesimamente si vede, che al presente più antiche rime delle Toscane altra lingua gran fatto non ha, levatone la Provenzale. Senzachè molte cose, come io dissi, anno i suoi Poeti prese da quelli, siccome sogliono far sempre i discepoli da’ loro Maestri ec. Per le quali cose, quello estimare si può, che il verseggiare, e rimare da quella nazione, più che da altra si è preso.


(6) La Proclamazione Cattolica, al §. XV. Y quando faltára otra prueva en recomendacion de las buenas letras de los Catalanes, basta por todos aver sido un Catalan maestro de Vuestra Mag. siendo Principe, que aclamado en ceñir la Corona por grande, resulta en el maestro competencias con Aristoteles, pues no tuvo mayor dicipulo (discípulo) este en Alexandro, que Don Galceran de Albanell en Vuestra Mag. ec. Però Señor, como el aborrecimiento pone estorvos a la aficion de V. M. notifican sus prendas, y las refieren, con desabrimentos y ultrages, escarneciendo hasta la lengua, que fué tan preziosa a los Señores Reyes de Aragon. Y assi disse Zurita, que era tan general la aficion de los Reyes, que desde que sucedieron al Conde de Barcelona, siempre tuvieron por su naturaleza, y antiquissima patria a Cataluña, y en todo conformaron con sus leyes, y costumbres, y la lengua de que usavan era la Catalana, y de ella fue toda la cortesania, de que se preziavan en aquellos tiempos. Todas las ordinaciones assi de la casa real, como otras eran en Catalan: las proposiciones que hazian los Señores Reyes en las Cortes, o Parlamentos, aunque se hiziessen a los tres Reynos, eran en Catalan. Las historias, que escrivieron de si mismos, como el Rey Don Pedro el Tercero, y el Rey Don Jayme el Conquistador, las compusieron en Lengua Catalana. Todos los poemas, que componian assi los Señores Reyes, como los cortesanos, eran en Catalan. Esta Lengua fuè la que diò principio a los versos, y rimas que se usan en Romance, cantando con ellas a consonancia, la dissonancia de las passiones. Los primeros padres de la Poesia Vulgar, fueron los Catalanes: Passando despues esta arte a Italia, Aragon, y Sicilia. 

El Petrarca con las obras de George Valenciano, compuestas en Catalan, diò propriedad, y dulçura al lenguage: florecieron muchos en esta arte, como el Cavallero Ausias Marc, Ramon Montaner, Jayme Roig, y otros muchos. En nuestros tiempos, floreciò en la Poesia Catalana el Dotor Vicente Garzia Rector de Vallfogona, cuyos poemas son celebrados por insignes en la agudeza, dulçura, y propriedad de pensamientos, y los admirò por raros el fenix de la Castellana Lope de Vega Carpio. Los Reyes de Aragon, y mas en particular el Rey Don Juan el I. hizieron tanta estimacion de la Poesia Catalana, que llamavan el Gay saber, o sciencia gaya, que para alentar los ingenios al trabajo con el premio, concedieron muchos privilegios a los que se esmeravan en esto, como consta en muchas provisiones reales. Ay en esta Lengua compuestos libros de todas facultades, y traduzidos en ella los Poetas mas graves, y mas insignes.

Gasparo Scuolano nella sua Istoria della Città, e del Regno di Valenza part. I. lib. I. cap. 14., ed altri.


(7) Giovanni di Nostradama Vit. Poet. Provenzal. nel Proemio:

Cesare di Nostradama nipote del suddetto Giovanni, in più luoghi della sua Istoria, e Cronica di Provenza.

Onorato Bouche nella Storia della medesima Provenza tom. I. lib. 2. Cap. 6.

Giovanni Scolastico Pittoni nella Istoria della Città d’ Aix lib. 2. cap. 5. fogl. 104., e lib. 6. cap. 15. fogl. 612.

Pietro Gassendi nella Vita di Claudio Peirese a car. 312., ed altri molti.


(8) Stefano Paschieri nelle sue Ricerche della Francia lib. 7. cap. 4. cart. 603. ediz. Parigi 1665.

Carlo Du-Fresne Signor Du-Cange alla Prefaz. del suo Glossario Latino Barbaro num. 35.


(9) L’ Arciprete Gio. Mario Crescimbeni Comentar. Istor. Volgar. Poes. volum. I. lib. I. cap. 3., e volum. 3. fogl. 120.


(11) Ramondo Vidal nel suo Libro titolato: La dreita maniera de trobar (la diritta maniera di trovare, cioè poetare) antico MS. della Libreria Medicea Laurenziana al Banco 41. Totz hom qe vol trobar ni entendre deu primierament saber qe neguna parladura non es naturals ni dreta del nostre Lengatge mas aquela de Lemosi e de Proenza e Dalvergna e de Caersin. Per que eu vos dic qe quant ren parlarai de Lemosin que totas estas terras entendats e totas lor vezinas e totas cellas que son entre ellas e tot lome qe en aqellas terras son nat ni norit an la parladura natural e dreta: cioè Tutt’ uomo, che vuole trovare, (poetare) ed intendere, debbe primieramente savere, che niuna parlatura è naturale, e dritta del nostro Linguaggio, se non quella del Limosino, e di Provenza, e d’ Alvernia, e di Caorsa: Perchè vi dico, che quando parlerò alcuna cosa di Limosino, che per esso Limosino intendiate tutte le suddette terre, e tutte le loro vicine, e tutte quelle che sono poste tra loro: E tutti gli uomini, che in quelle terre sono nati, e nodriti anno la parlatura naturale, e dritta.

Gasparo Scuolano nella sua Istoria di Valenza part. I. lib. I. cap. 14. num. I. La tercera, y ultima Lengua Maestra de las de España, es la Lemosina, mas general que todas ec. por ser la que se hablava en Proenza, y toda la Guiayna, y la Francia Gotica; y la que agora se habla en el Principado de Cataluña, Reyno de Valencia, Islas de Mallorca, Menorca, Yviça, y Sardeña.

Niccolò Antonio Bibliothec. Hispan. vet. tom. I. alla Prefaz. num. 26. vers. Ut enim veteres Provincialis Linguae, seu Valentinae Poëtas. 

E tom. 2. fogl. 49. num 144. Elucubravit ipse Jacobus I. Aragonie Rex, vernaculâ gentis, hoc est Provinciali, ut vocant linguâ (quae tam in Cataloniae, quàm in Valentiae, necnon in Montis-Pesulani, unde Maria fuit Regis mater, ditionibus usu fuit) rerum tempore suo gestarum historiam ec. Prodiit ea Valentiae cum hac vernaculâ inscriptione, quam retinere placuit, venerationem ut habeamus antiquitati.” Chronica o Comentari del gloriosissim, e invictissim Rey en Jacme Rey d’ Aragò, de Mallorques, de Valencia, Comte de Barcelona, e de Urgell, e de Montpeiller, feita, e escrita per aquell en sa lengua natural, e treita del archiu del molt magnific Rational de la insigne Ciutat de Valencia, hon estava custodita. Valentiae apud viduam Joannis Mey 1557. E num. 149. Floruere hoc ipso Regis clarissimi tempore duo viri poëtica facultate ad posteros clari. Mossen (ita pro Domino meo Valentini usurpant) Jordi, hoc est Georgius; & Mossen Febrer, qui vernaculâ gentis linguâ, quae eadem est cum Provinciali, & Catalana, magna cum laude versificati sunt. E fogl. 80. num. 66. Circa eadem tempora Fr. Petrus Marsilius ejusdem Ordinis Praedicatorum domus S. Catherinae Martyris, Barcinonensis Urbis, in Latinum ex vernaculâ Provincialium, sive Catalanâ lingua convertit historiam quam de rebus sui temporis Jacobus Rex Aragoniae primus superiore saeculo conscripserat. E cart. 105. num. 246. Sed honesto ut Francisci Petrarchae, nostro tamen (parla del nostro Poeta Ausias March) inferioris exemplo contenditur, amore Theresiae cujusdam de Bou Valentinae captus, vernaculi, hoc est Provincialis, seu Lemosini pangendi carminis omnem facultatem &c.

Cesare di Nostradama Istor. Provenz. part. 5. fogl. 540., e part. 6. fogl. 606., e 626.

Carlo Du-Fresne Prefaz. Glossar. Latin. Barbar. num. 34. 35., e 36.

Filippo Briezzi della celebre Compagnia di Gesù ne’ suoi Parallel. Geograph. vet., & nov. tom. I. part. 2. lib. 5 §. 6.


(16) Gasparo Scuolano Istor. Valenz. part. I. lib. I. cap. 14. num. 5. Estendieron sus limites los Catalanes poco a poco a las Islas de Mallorca, Menorca, e Yviça, a sus passos fue su lengua estendiendo los suyos. Tambien la passaron a Cerdeña, porque aunque es verdad, que los Sardos desde ab initio tuvieron lengua natural, que despues se fuè mudando de mil colores, y con las avenidas de los Romanos, Godos, Moros, Pisanos, y Genoveses de las de todas una confusa pepitoria, que hoy en dia se habla en la Isla: però es cierto, que corre parejas en ella la Valenciana, siendo esta la mas pulida, y corttesana dellos, y la que se entiende en los pueblos mayores, y Ciudades. En suma en aquellos siglos antiguos vino a tener la Lengua Lemosina tan grande credito, que como à muy cortesana se hablava en la Corte de los Condes de Barcelona, y en la de los de Monpeler. De aqui es, que como nuestro venturoso Conquistador el Rey Don Jayme se huviesse criado con ella, y tetadola en los pechos de su Madre ec. hizo tanto esfuerzo la Lengua en el, y en su Casa, que conquistada Valencia de poder de los Moros, y poblada de la mejor, y mas bellicosa gente, que tenia el Mundo, quiso que tuviesse parte su lengua en la Conquista, y que los nuevos pobladores huviessen de usar el Lemosin.

Il Dottor Giuseppe Romaghiera nella Introduzione del suo Atheneo de grandesa sobre eminencias cultas; Catalana facundia ab emblemmas illustrada ec. stampato in Barcellona del 1681. “Sim’ vituperas lo aver escrit en Català, not’ temo, perque murmurant la Llengua ab que parlas, fentla insturment de sas ignominias, los mateixos ecos de vituperi, ressonan calumnias a ta vil censura. A se, que no la ultrajavan aquells antics Eroes Catalans, que feren sentir los clamors de sas victorias a Atenas, y Neopatria, y los que ab los preziosos rubins de sas venas la imprimiren en Sardenya, Mallorca, y Valencia; però escusarè lo panegiric de sos aplausos, per no fer paraliponen, que exageràs ab sa grandesa la injuria, ab que l’ oblit sepulta lo augusto de sas proesas.

Monsignor Angelo Rocca nelle sue Opere ultimamente ristampate in Roma, tom. 2. fogl. 329. Sunt autem duae precipuae in ea Insulâ (nella Sardigna) linguae, una qua in Civitatibus, & altera, qua extra Civitates utuntur: sed oppidani loquuntur ferè Hispanicâ lingua Tarraconensi, vel Catalanâ, quam didicerunt ab Hispanis, qui tamdiù Magistratum in eisdem Civitatibus gerunt: alii verò genuinam retinent Sardorum linguam.

Attestazione, o Bulletta fatta dal Magistrato, e da i Deputati della sanità della Città di Caglieri capitale del Regno di Sardigna nell’ anno 1718. in Lingua Catalana; la quale ho voluto qui inserire, acciocchè ognuno sappia, che anche a’ tempi nostri adoperano quei popoli nelle loro pubbliche scritture la nostra Lingua “A universas singles Guardas de morbo de qualsevol Ciutats Vilas y Llocs axi del present Regne, com fora de aquell, y en qualsevol altra part. Los illustres Consellers, y Deputats per la custodia del morbo de la present Ciutat, y Castell de Caller primaria del present Regne, salut, y dilecsiò. Sertificamvos, y cascù de vos, com d’ esta present Ciutat se parteix Don Joseph Sunyer, y Bastero natural de Barcelona de edat de 19. ains, estatura bona, cabell castain per Roma, al qual, com en esta Ciutat per la gratia de Nostre Señor Deu Omnipotent hi y a bona sanitat sens dupte, ni suspiciò de morbo, ni altre mal contagiòs, lo podreu acullir, y donar pratica, y comerci sens impediment: en testimoni de las quals cosas se li despaccian las presents per lo Secretari de la Ciutat de val escrit, y sogelladas ab lo sogell de aquell. Dat en Caller a 29. de Juin Ain 1718. D. Juan Gaspar de Carnicer Segretario de su Magestad, y desta illustre Ciudad.


(17) Raimondo Montaner nella sua Storia intitolata: Cronica, o descripsiò dels fets e hazanyas del inclyt Rey en Jacme primer Rey Daragò, de Mallorques, e de Valencia, Comte de Barcelona, e de Muntspeler; e de molts de sos descendents: Feita per lo Magnific en Ramon Muntaner, lo qual servì axi al dit inclyt Rey en Jacme, com a sos fills, e descendents, e s’ trobà present en las cosas en la present Istoria: stampata in Barcellona nel 1562, esistente nella Biblioteca Casanattense, e in quella della Sapienza; Cap. 16. E axi la dita Ciutat de Murcia fo presa per lo Senyor Rey en Jacme Daragò en lany que hom comptava M. CC. XXXVIII. E com (incomincia il Cap. 17. titolato: Com fon poblada Murcia de Catalans, e com lo Senyor Rey en Jacme delliurà la sua part al Rey de Castella son gendre). E com la dita Ciutat hac presa, e poblada de Catalans, e axi mateix Oriola, e Elx, e Guardamar, e Alacant, e Carthagenia, e los altres locs: si que siats certs, que tots aquels qui en la dita Ciutat de Murcia, o els (cioè en los ne’ ) devant dits locs son poblats, son vers Catalans, e parlan del bel Catalanesc del Mon, e son tots bons homens d’ armas, e de tots feits ec. E com lo dit Senyor Rey hac la Ciutat de Murcia poblada, e los altres locs, ell lliurà la sua part al Rey de Castella son gendre. Vedi Francesco Cascales ne’ suoi Discorsi storici de la muy noble, e muy leal Ciudad de Murcia, discors. 2. cap. 4. 7. e 8., e discors. 19. fogl. 335., e 366., e discors. 20. cap. 4. fogl. 432., e cap. 5. fogl. 442.


(18) Il Rettor di Bellosguardo nella Epistola dedicatoria agli Accademici Barzellonesi, delle Rime di Vincenzio Garzia stampate in Barcellona l’ anno 1703. presso il Figuerò. E tinc per cert, que la Llengua Catalana (a be que tant dejectada per qui ni la usa, ni la enten, ensenyant las demes en Catalunya) si vestida al tall, y fortuna ha tingut la Castellana, de una centuria a esta part, no li deuria cosa. Y crec, ni menos li deu vuy; pues es la Llengua Catalana propria Espanyola llengua, y no tan arisca com l’ antigua Castellana, y en centurias atràs no menos estesa; puix per nostras gloriosas conquistas passà a las Islas del vehì mar, com tambè a altras Islas, y de ellas a las de Egeo, y a la difusa Assia; esplayantse per nostron continent desde Murcia a Narbona, (anzi infino a Nizza di Provenza distante da Murzia nove cento miglia) y encara cerca de esta se conserva una poblaciò, dita Barceloneta, (altra collo stesso nome di Barzellona ve n’ è in Provenza fondata dal Conte Ramondo Beringhieri sul principio del secolo XIII., ed altra pure nel Regno di Sicilia) y en Napols lo carrer, y portal de Barcelona guanyaren los Catalans (il Boccac. Nov. 15. Su per una via chiamata la ruga Catalana) y en temps dels gloriosos Serenissims Comtes de Barcelona Reys de Aragò era la Llengua de la Cort; y en las poesias de aquellas edats beatas, ditas sas Trobas: lo gay saber, que significa alegra, jocòs, y grat als mes melindrosos oídos.

Girolamo Zurita ne’ suoi Annali de i Re d’ Aragona part. I. lib. 8. cap. 18. Partiò el Rey (Don Pietro il IIII., e della stirpe de’ Beringhieri il III.) el otro dia de Pina, y fuesse a dormir a Candasnos, y el siguiente a Fraga, y quando fuè a vista de aquella Villa, diziendole Don Bernaldo de Cabrera que se alegrasse por que aquella Villa era de Cataluña, començò a bendezirla, y dezir grandes alabanças della; (di Catalogna) por que los Reyes que sucedieron al Conde de Barcelona, siempre la tuvieron por su naturaleza, y propria Patria; y en todo se conformaron con sus leyes, y costumbres y la Lengua de que usavan era la Catalana, y della fue toda la cortesania de que se preziavan en aquellos tiempos.

(19) Cesare di Nostradama Istor. Provenz. part. 2. sotto questo titolo: Seconde partie de l’ Histoire de Provence: sous les Comtes de Barcellone, & Rois d’ Aragon qui l’ ont possedée depuis l’ an. 1080, jusques en l’ an 1245. dal fogl. 91. al 209. Et pourtant que ce sont les Comtes de Barcellone, qui doivent d’ orênavant commander souverainement, & tenir le sceptre de Provence, il semble tres-expedient avant qu’ entrer au fil d’ une si longue materie, & aux courants de cête histoire, de voir en premier lieu, de quels insignes, & puissans ancêtres ces Comtes, & Marquis Aragonois sont descendus, & sortis &c. Fin de la seconde partie, & des Comtes du sang de Barcelone, & d’ Aragon

Onorato Bouche nella sua Istoria della medesima Provenza tom. 2. lib. 9. part. 2. col seguente titolo: Les Comtes proprietaires de Provence de la deuxieme race des Comtes de Catalogne, de Barcelonne, & des Rois d’ Aragon, durant l’ espace de 145. ans, sçavoir depuis l’ an 1100. jusques à l’ an. 1245. E poi al cap. I. della stessa part. 2. car. 101. 

Quoy que ce ne soit point de nôtre tâche de traiter de l’ origine de ces Etats de Catalogne, de Barcelonne, & d’ Aragon; neantmoins parce que nous devons être gouvernez en Provence durant l’ espace de 134. ans par des Princes de cête nation, il ne serà pas hors de propos, de dire un mot sur le temps, & le sujet de l’ institution de ces Etats.

(20) Giovanni Scolastico Pittoni nella sua Histoire de la Ville d’ Aix Capitale de la Provence, lib. 2. cap. 5. fogl. 104. Parmy tant de belles, & rares qualités qui accompagnoient nos Princes Catalans, celle d’ aimer les gens de lettres n’ êtoit pas la moindre; nous leur devons cet avantage d’ avoir remis l’ étude de belles lettres: Ce fut sous eux que nos Provençaux trouverent l’ art de rimer, & donnerent au Parnasse une dixiéme compagne, qui fut en même tems bien recuë dans la Cour des Grands. Les Italiens qui loüent fort rarement ceux qui ne sont pas de leur nation, le disent; & les Espagnols toûjours enflés de vanité le confessent, comme nous prouverons à un autre endroit, lors que nous parlerons des Troubadours, ou Poëtes, que nous ferons voir leur principale Academie dans la Ville d’ Aix.

Cesare di Nostradama Istor. Provenz. part. 2. Provence sous les Comtes de Barcellonne, a car. 132, Ce fut de ce tems que la Poësie Provenzale començà de se monstrer en honneur, & de resonner heroïquement sous les belles, & doctes rithmes d’ infinits Gentilshommes, & personages de qualité, qui se mirent à vulgairement poëtiser ec. dont ils furent appellés Troubadours.

Claudio Fauchet nel 2. volum. dell’ Antichità della Gaule part. 2. car. 331. terg. Les Berangiers entretenoient en Languedoc, Provence, & Catalogne, des homes d’ esprit, comme deçà les Comtes de Champagne les Trouvers, & Chanterres (car ainsi appelloit-on les Poëtes vulgaires) les quels au son de la vielle, ou violle chantoient des vers vulgaires finissans en unison, que depuis l’ on appellà rhimes.

Anton Domenico Norcia Congress. Litterar. Fogl. 210.


(21) Onorato Bouche nella detta sua Istoria di Provenza tom. I. lib. 2. cap. 6. fogl. 94. Finalement par l’ arrivée des Aragonois ec. depuis l’ an. 1110. au tems des Berenguiers Comtes de Barcelone ec. la Langue Provençal devint si nette, si polie, si embellie de toute sorte d’ ornemens de belle locution, durant l’ espace de trois cens ans, que communement elle êtoit preferée à toutes les autres de l’ Europe, & plusieurs Etrangers s’ efforcerent de l’ apprendre.


(22) Mario Equicola Natur. Amor. lib. 5. a c. 337. Tanto durarono quelli gentili spiriti (intende de’ Poeti Provenzali) quanto la Corte fu in Provenza; ma poi che ‘ l predetto Conte Ramondo Berlinghieri maritò le figliuole ec. mancò quella nobile pianta, ec. e questa io istimo fusse la causa, che non si ampliò più oltra il dire Provenzale.

Pier Francesco Giambullari Orig. Ling. Fiorentin, a c. 139. Mancata quivi (in Provenza) la Corte per la morte del Conte Ramondo Berenghieri ec. non solamente mancarono i Poeti, e le Rime sì celebrate, ma la lingua stessa per sì fatta maniera vi vienne meno, e vi si annullò, che i Provenzali non la intendono già dugento anni.


(23) Filippo, e Jacopo Giunti nella Dedicatoria, che fanno al Serenissimo Gran Principe di Toscana, del Libro del Decamerone di Messer Giovanni Boccacci (Boccaccio) alla sua vera lezione ridotto da’ Deputati l’ anno 1573. Egli dunque, Serenissime Gran Principe, così racconcio, per nostra mano si rappresenta all’ A. V., egli infinitamente la ringrazia col Serenissimo Gran Duca suo Padre, che da questo esilio sia stato ritornato nella Patria sua, ec. e quasi da morte a vita sia risuscitato: Ma specialmente ancora priega lei, che per sua bontà, e favore ne pigli, è ritenga perpetua protezione; non essendo cosa alcuna, che più mantenga il pregio delle lingue, che il favore de’ Principi Grandi, per virtù de’ quali elle fioriscono, e si mantengono onorate; di che può essere vivo esempio la Provenzale, al tempo de’ nobili Conti di quella Provinzia, specialmente del buon Ramondo Beringhieri, tanto celebrato Signore, per cui ella salì in grandissimo onore, e poco meno che per tutta l’ Europa si sparse, e come si sa, fu da’ nostri studiosamente, ne’ primi tempi adoperata, e poi lungamente imitata; e mancata quella Corte, e sottratto, come dire, il latte che la nutriva, venne a poco a poco mancando, ed oggi è poco meno che del tutto spenta. Pierfrancesco Giambullari luogo citat.


(26) Sono parole di Girolamo Gigli nel suo Apparato all’ Opere de S. Caterina da Siena, fogl. 177.


(27) Alla Prefazione del Vocabolario. Nella presente impressione ci siamo allargati assai più che nelle precedenti nel mettere al rincontro delle Toscane le voci greche: come che molte di quelle, dependano da queste, e che sovente ne servano alla dichiarazione, ed alla analogia.


(28) Il Vocabolario. Plusori. V. A. che sente del Provenzale: e vale lo stesso, che Più. Lat. plures. Provenzale pluzors. Franzese plusieurs.


(29) L’ Abate Anton Maria Salvini Gentiluomo Fiorentino, nelle sue Pros. Toscan. Lez. 12. a c. 216.


(30) Il suddetto Salvini nelle citat. Pros. Lez. 53 a c. 557.


(31) Lo stesso Salvini, Lez. 36. fogl. 412.


(32) Benedetto Varchi nella Orazione funerale, che recitò nell’ Accademia Fiorentina in morte del Cardinal Bembo, stampata presso la Raccolta delle Orazioni scritte da diversi Uomini illustri fatta da Francesco Sansovino lib. I. fogl. 53. A queste cose s’ aggiugneva la riputazione, che gli arrecava assai maggiore, e da doversi via più stimare, che molti non pensano, l’ essere egli stato il primo, che avesse dopo tanti anni, non solo conosciuta, ma contrafatta, e rassomigliata ne’ versi la leggiadria del Petrarca, e nelle prose la purità del Boccaccio ec. E tanto più, che a lui fu necessario di porre quasi quel medesimo tempo, e fatica ad apprendere questa nostra Lingua Fiorentina, (che Fiorentina la chiama egli, e non Toscana) che ad apparar la Latina, e se a bene intendere la Latina, gli fu di bisogno apprender la Greca, A BENE INTENDER LA TOSCANA GLI BISOGNO’ APPARAR LA PROVENZALE, poco meno che del tutto spenta ancora in quei tempi, dalla quale anno così i Prosatori Toscani, come gli Scrittori di versi, infiniti vocaboli, e modi di favellare tolti, e cavati, come ne dimostra egli nel principio de i tre dottissimi libri delle sue gravissime, ed ornatissime Prose.


(33) Gli Accademici della Crusca nella Lettera dedicatoria che del loro Vocabolario fanno al Serenissimo Granduca.


(34) Federigo Ubaldini Tavol. Docum. Amor. Barber. Alle voci accolte, a tiera, gautata, moscare, solci, tiera, e trovare.


(35) Francesco Redi Annot. Ditir. In più luoghi, come si manifesta dall’ Indice alle lettere G, O, ed R in questa guisa: Glossario Provenzale. Manuscritto di Francesco Redi, car. 57. 63. Gramatica Provenzale. Manuscritto della Libreria di S. Lorenzo. 63. 140. 194. 195. 196. 198. Onomastico Provenzale. Testo a penna della Libreria di S. Lorenzo 195. 198. Rimario Provenzale. MS. della Libreria di S. Lorenzo. 59. 198. 204.


(36) Anton Maria Salvini nelle Pros. Toscan. Lez. 24. car. 312., ed in altre sue Opere.  


(37) Dante nel I. lib. della Volgare Eloquenza (N. E. De Vulgari Eloquentia) cap. 8. 9. e 10. 


(38) Guglielmo Catel nelle Memorie Storiche della Linguadoca lib. I. cap. I. fogl. 39. «Le Languedoc est appellé dans les anciens livres, qui sont aux archifs de la Ville de Tolose, la lenga d’ oc; dans les quels est dit: & tramezeron lor per diversas partidas de la lenga d’ oc ec. Mais communement, & le plus souvent il est nommé dans les anciens actes Patria Linguae Occitaniae ec. 

Plusieurs ont estimé, que le Païs de Languedoc avoit pris son nom des Goths qui ont longues années tenu le dit païs, d’ autant que Land en Alleman signifie Païs; & partant Languedoc semble être dit, Païs de Goths, même anciennement le Languedoc fut appellé Gothia. Mais je crois qu’ ils n’ ont pas bien rencontré; car ce mot de Languedoc vient plustost de la langue que les naturels parloient. Car comme ceux du païs de la langue Françoise son apellez de la langue d’Ouy; de mêmes ceux du païs son appellez du Languedoc, c’ est à dire, comme nous avons remarqué ci dessus, Langue d’ Oc: ce que Raymond Comte de Tolose monstre bien clairement dans un ancien acte de l’ an 1220. dans lequel il distingue ceux de ce païs des autres par leurs langues, quand il dit: Quod quicumque homines nostri idiomatis, videlicet de lingua nostra. Guillaume de Puylaurens Chapelain de Raimond le jeune Comte de Tolose, voulant dire au Chap. 19. de son Histoire, que le Comte de Mont-fort ne se vouloit plus fier à ceux de Languedoc, il le dit en ces termes: Idem Comes ex tunc abhorrere coepit confortia militum nostrae linguae. Guiraud Riquier ancien Poëte de Narbone en un Poëme qu’ il a fait en l’ an 1270. sur la mort d’ Amalric son Seigneur, & Vicomte de Narbone, voulant dire, qu’ Amalric êtoit le plus noble du Languedoc, il dit, qu’ il estoit le plus noble de sa langue en ces vers: Doncx perdut l’ a Narbonès, & Narbona, 

Don deu esser tot lo pobles ploròs, 

Car elb era la plus noble persona

Per dreg dever que dest lengatge fos: 

(cioè Dunque l’ ha perduto il Narbonese, e Narbona, Onde debbe essere tutto’ l popolo lagrimoso Poichè egli era la più nobil (nobile) persona, Per dritto dovere, che fosse in questa Provincia)” 

Je ne crois pas aussi, que ce qu’ a remarqué Pasquier en ses Recherches soit veritable qu’ il ayt esté appellé Languedoc, pour-ce que ceux de ce païs avoient aprins la langue des Goths, lesquels y avoient fait long sejour. Et n’ ay point veu aucun ancien acte, dans lequel ce païs soit appellé en Latin linguae Gothicae, comme il dit que l’ on lit dans les anciens actes: mais au contraire ce païs est toujours nommé dans les anciens livres, Patria linguae Occitaniae; ou Occitania, ainsi que nous avons dit.

Monsignor Pietro della Marca nella sua Istoria di Bearne lib. 8. cap. 2. fogl. 684. “Ce païs (della Linguadoca) est nommé Septimaniae dans Sidonius, & Gregoire de Tours, à cause des compagnies de la septiéme legion, que les Romains tenoient en garnison dans la Ville de Besiers, pour l’ asseurance de la province. Les Goths l’ ayants retenuë , elle fut nomée Gaule Gottique, ou Gothie dans Isidore de Seville en sa Chronique. Ces deux noms de Septimaniae, & de Gothie lui ont esté continués indiferemment dans Fredegarius, Eginhart, & les Annales du moyen temps: Et enfin elle a pris celui de Languedoc, ou langue de oc. Cête denomination est provenuë, de ce que les Rois distribuerent dans leurs Ordonnances, il y a trois cens cinquante ans, le Royaume de France en deux langues, sçavoir langue d’ Oui, & langue d’ Oc: Le païs de la province Narbonoise ayant êté pour lors establi le chef de la langue d’ Oc; & le Parlement ordonné en la Ville de Tolose, pour les peuples du Royaume qui avoient l’ idiome semblable.


(39) Il Bembo Prof. I.

(40) Mario Equicola Natur. Amor. lib. 5.

(41) Onorato Bouche Istor. Provenz. tom. I. lib. 2. cap. 6. fogl. 95.

(42) Stefano Paschieri Ricerc. Franz, lib. 7. cap. 4. 

(43) Giovanni Scolastico Pittoni Istor. della Città d’ Aix.

(44) Giovanni, e Cesare di Nostradama, Zio, e Nipote; quegli nelle Vit. Poet. Provenzal., questi nella Istor. Provenz. 

(45) Gasparo Scuolano Istor. Valenz. lib. I. cap. 14. num. 2. 


(46) Il Bembo Prof. I.


(47) Anton Maria Salvini nella Prefazione della 2. part. del I. Volum. della Raccolta di Prose Fiorentine.


(48) Il Conte Federigo Ubaldini nella Vita di Messer Francesco da Barberino. Come a grandissimo ornamento di tale facoltà (intende della Filosofia naturale) voltò parimente l’ animo alle rime volgari, 

dando opera agli scritti de’ Provenzali, che per ciò sono da lui appellati Maestri; e da essi il più bel fiore cogliendone, non tralasciò sorte di rima, in cui secondo l’ uso di quella favella, Toscanamente non si esercitasse.


(49) Il Cavalier Lionardo Salviati Avvertiment. Ling. Volum. I. lib. 2. cap. 8. Le parole, e i parlari, che nel nostro Linguaggio venner dal Provenzale, furono in vari tempi con finissima scelta eletti dagli Scrittori; da quegli Scrittori diciamo, che nel buon secolo la Toscana favella illustrarono, e sono de’ più leggiadri, de’ più sonori, e de’ più belli, ch’ abbia la lingua nostra, come per la raccolta fatta dal Bembo di non pochi di loro, senza molta fatica possiam certificarsi.


(50) Tommaso Bonavventuri Gentiluomo Fiorentino nella Prefazione del 6. volum. delle Prose Fiorentine stampate in Firenze 1723., a car. xx. Da questa medesima sorgente di novità, da questo trasportamento di voci d’ altri paesi, da questo dispregio nulla curante delle proprie ne è seguito altresì il mescolamento nel volgar nostro; perciocchè da principio molte parole, e locuzioni vi passarono tratte dall’ idioma Provenzale, e Franzese; nel primo de’ quali essendovi molte, e belle composizioni, ebbero elleno mirabil corso in Italia, e particolarmente in Toscana, dove alcuni si posero a scriver Provenzalmente ec. Il che però non riuscì peravventura in pregiudizio della lingua nostra, poichè la diligenza, e lo studio de’ nostri Uomini seppe così bene adoperare, che molte parole, e molti modi tratti da quelle favelle alla maniera nostra acconciando, con essi la nostra, ancora in alcuna parte manchevole, di nuovi abbellimenti, e di nuove preziose ricchezze adornarono.


(51) Sopra la Canzone del Petrarca Amor se vuoi ch’ io torni al giogo antico, Lezion. 17. a c. 252. della Stampa di Firenze.


(52) Jacopo Faciuolati Prefetto degli Studi del Seminario di Padova nel suo Trattato de ortu, & interitu Linguae Latinae. Gasparo Scioppio, ed altri.


(53) Gasparo Scuolano Istor. Valenz. part. I. lib. I. cap. 14. colona. 96, num. 11 (o 2).


(54) Bemb. Pros. I. a c. 75. ediz. Napoli 1714. Ma si come la Toscana lingua, da quelle stagioni a pigliare riputazione incominciando, crebbe in onore, e in prezzo, quanto si è veduto, di giorno in giorno; così la Provenzale è ita mancando, e perdendo di secolo in secolo: intanto che ora, non che i Poeti si truovino, che scrivano Provenzalmente; ma la lingua medesima è poco meno, che sparita, e dileguatasi della contrada. Perciocchè in gran parte altramente parlano quelle genti, e scrivono a tempo: nè senza molta cura, e diligenza, e fatica si possono ora bene intendere le loro antiche scritture. Senzachè eglino a nessuna qualità di studio meno intendono, che al rimare, e alla Poesia.


(55) Dante Alighieri nel I. trattat. del Convivio cap. 5.


(56) Lo stesso Dante Parad. Cant. 26.


(57) Nella Epistola a Pisone.


(58) Nel lib. 8 de Ling. Lat.


(62) L’ Abate Vezio nel Trattato de’ Romanzi a c. 124. E più diffusamente Germano La Faille ne’ suoi Annali della Città di Tolosa. Vedi sopra, al num. 6. e in appresso alla Tavola de’ Poeti alle lettere M, et T. 


(63) Annibale Marchese nel Poema titolato Carlo Sesto il Grande, cant. 5 stanz. 35. a c. 142. stampat. In Napoli dal Mosca, 1720.


(64) Anton Maria Salvini nella Orazione in lode di S. Zanobi Protettore dell’ Accademia della Crusca, presso le sue Prose Toscane a c. 4.


(65) Nelle Note marginali per entro i libri della Lingua Toscana di Benedetto Buommattei a car. 100.


(66): Nella Prefazione del Vocabolario della terza edizione §. Alcuna volta.


(67) Cod. MS. Vatic. num. 3206. dal fogl. 126. al 134.


(68) Cod. MS. Vatic. Num. 3205. a c. 164.


(69) Cap. 61.


(70) Cap. 392.

(71) Benedetto Varchi nell’ Ercolano a c. 64. della Stampa de’ Giunti in Firenze 1570.


(72) Lodovico Castelvetro nella Correzione d’ alcune cose dell’ Ercolano del Varchi a c. 99. Stampa di Basilea 1572.


(73) Comentar. Istor. Volgar. Poes. Volum. 2. part. I. a c. 193.


(74) A car. 253. Stampa di Firenze ann. 1715.


(75) Cod. MS. della Libreria Laurenziana al Pluteo 41. V. sopra, al num. 11 (o 2).


(76) Nelle Prose Toscane fogl. 191. Stamp. Di Firenze.


(77) Bemb. Pros. 1.


(78) Nella Origine de la Langue, & Poesie Françoise lib. I. cap. 4.


(d) Paraulas: La citata Prefazione ha paroles, che è puro Franzese: in Provenzale si dice paraulas nel numero del più, e paraula in quel del meno, come nota il dottissimo Ab. Anton Maria Salvini sopra il Buommart. Trattat. ling. Tosc. A cart. 37. ediz. Firenz. 1714. nella postil. marginal. così: Parola è detta da Parabola in Provenzale paraula, in Ispagnuolo palabra ec. Ma già m’ aveddo, che ho detto di sopra al num. xxiij., che non voleva render ragione della correzione de’ Franzesismi trascorsi poco a proposito nelle nostre Scritture per ignoranza de’ copiatori; onde per l’ avvenire non ne farò più parola. 

IL TESTO PROVENZALE DEL LIBRE DE LA DOCTRINA PUERIL.

IL TESTO PROVENZALE DEL LIBRE DE LA DOCTRINA PUERIL.

IL TESTO PROVENZALE DEL LIBRE DE LA DOCTRINA PUERIL. 

(Obra íntegra no publicada por Vincenzo, sólo un extracto).

Nota di V. de Bartholomaeis, presentata dal Socio E. Monaci

Col titolo di Liber doctrinae puerilis è attribuito a Raimondo Lull un trattato didattico-morale in prosa, ch’egli avrebbe scritto verso il 1275 per istruzione del proprio figliuolo. Dell’opera, che rimane ancora inedita, si hanno due redazioni, l’una catalana e l’altra latina, conservate in mss. della biblioteca di Monaco (se refiere a München de Bayern, Monaco di Baviera, donde monaco : Mönch : monje) (1: Histoire littéraire de France, XXIX, p. 325 (Littré). ). Sono ora in grado di segnalarne una terza provenzale, esistente nel cod. E, 4 sup. dell’Ambrosiana di Milano

https://ambrosiana.comperio.it/opac/detail/view/ambro:catalog:70144

https://lullus.ub.uni-freiburg.de/files/lullus/DocPortal_derivate_00013814/schriften.html

Milano, Biblioteca Ambrosiana E4 SUP, doctrina pueril, provenzal, occitan



È questo un ms. di piccolo formato (mm. 12 X 16), membranaceo, con legatura antica, di cc. 71. Scritto a doppia colonna, con iniziali alternativamente rosse e azzurre, da una mano transalpina, lo si potrebbe riportare al sec. XIII e forse più in là dell’ultimo quarto; se su questo punto non ci consigliasse la debita circospezione la data stessa assegnata alla composizione lulliana. Il libro vi è contenuto intiero in tutte e cento le rubriche che lo compongono e con la tavola che si trova in testa al volume. 

Secondo l’Histoire littéraire (l. c.), il Lull avrebbe prima composto il trattato in catalano e poscia lo avrebbe tradotto in latino. Ma, poichè non è infrequente il caso che il fecondo poligrafo maiorchino passi come autore di scritti non attribuitigli con piena ragione, o di cui non è che il traduttore, così ora, alla presenza della redazione provenzale, può nascere ben legittimo il sospetto che la redazione primitiva della Doctrina pueril non sia la catalana. E di catalanismi, almeno de’  più perentori, si mostra scevro il testo ambrosiano

Questa questione mi propongo di studiare quando metterò a stampa integralmente la nuova redazione e avrò avuto l’agio di fare i necessari riscontri con le altre. Intanto mi limito a dare l’annuncio e un saggio di quella; la quale, in ogni caso, rappresenta sempre un acquisto per la storia della letteratura provenzale. 

Si tratta di un libro di testo per l’insegnamento che oggi diciamo secondario, e che, quantunque abbia carattere privato, nondimeno di una certa diffusione dovè godere di là e di qua da’ Pirenei. La forma è quella di una enciclopedia. Infatti, prendendo le mosse da Dio e dalla creazione, il precettore passa successivamente a fornire insegnamenti sugli articoli della fede cristiana, su’ precetti del decalogo, sulle virtù e su’ vizi, sulle varie religioni o leggi, sulle sette arti liberali, sul diritto, sulle arti meccaniche, su’ principi, su’ chierici e su’ religiosi, sull’ anima e sul corpo, sulla vita e sulla morte, su’ costumi, su’ quattro elementi, sull’anticristo, sulle sette età del mondo, sugli angeli, sull’inferno e sul paradiso. È insomma un tutto complesso e compiuto, ben racchiuso in quella cifra tonda di cento rubriche. 

E non minore interesse desta forse rispetto alla lingua. Per attenermi a quanto merita di esser messo in rilievo in una prima comunicazione, noterò che nel testo ambrosiano sono in generale rispettate le regole della flessione nominale assai più di quanto dovremmo aspettarci, ove si trattasse effettivamente di una traduzione dal catalano, e non anteriore all’ultimo quarto del sec. XIII. Non mancano tuttavia i soliti nominativi con l’ “allungamento” analogico, quali libres, senhers e senhors, paires, salvaires e simili. Ma più raramente ci imbattiamo in 

sgrammaticature come del salvaire, engenra Dieus le paires Dieus Fils, Dieu lo cel e la terra creiet, sabia son fil senher, ecc. Circa l’articolo maschile siamo alle condizioni della Flamenca: nom. le, obl. lo; e, quanto al femm., è notevole il largo uso di li al nom., tale da pareggiare, se non anche da soverchiare, le condizioni della Doucelina, dov’ è normale. E interessanti del pari sono gli obliqui pronominali de tu, a tu, nant tu, per tu. 

Rigidamente fermo è poi il riflesso ch di CA; e ch è anche il riflesso normale di CT; chè qualche caso di it (faita, perfeita; freit) è meramente sporadico, nè altera il colorito idiomatico del testo. Ci si riconduce adunque, nell’ ordine territoriale, a quella delle sezioni occitaniche nella quale insieme risuonano, per seguire la esemplificazione del Suchier (1), chauza e fach; sezione che comprende, da una parte il Limosino, e dall’altra il dipartimento della Drôme e delle Alte Alpi. Ora, da quale di queste due proverrà più specialmente il nostro testo? La nota più caratteristica di esso consiste nella caduta della dentale che si trovi tra vocali o in fine di voce. 

Così: chaer, chautz, pechaor, chasteaz, donaa, meesma, poer, creaas, e pecha, pessa (‘pensato’ pensiero), obliga, cree, renee (rinnegò) ecc. E siccome questa non è caratteristica limosina, ma è propria di quelle parlate che si distendono in sezione orizzontale dalle pendici delle Alte Alpi fino al Rodano (2) così non parrà troppo avventurata l’affermazione che ad esse per l’appunto sia appartenuto lo scrittore del ms. ambrosiano. 

(1) Le français et le provençal, p. 74. 

(2) Suchier, l. c. Qualche esempio di questo fenomeno anche nel ms. 

Giraud, studiato dal Meyer, Les dern. troub., p. 23. 

(Vincenzo escribe uol : vol)

COD. AMBR. E, 4 SUP.

Dieus honratz glorios senhers nostre, ab gratia e benedictio vostra comensa aquestz libres que es dels comensamens de doctrina pueril. Aysi comensa le Prologues. 

Dieus vol que nos trebailhem e nos coytem (1: Ms. coytetem, che non mi pare abbia riscontri.) (un lector cualquiera leería «covtetem») en el a servir, car li vida es breus e li mortz s’acosta a nos totz jorz. E per aysso perdemen de temps deu esser azirable. On al comensamen deu hom mostrar a son fil las chausas que son generals el mon, per so que sapcha devallar allas especials. E fassa hom ajostar en vulgar son filh al comensamen de so que apenra, per tal que entenda so que ajostara. En apres coven que ad aquel sia facha costruccios en aquel libre meteis le quals sia translatatz en lati. Car enans en entendra lo lati. 

On com asso sia enaissi,  per amor d’aiso, .j. homs, paures pechaires mesprezatz de las gens, colpables, meschis, non dignes que sos noms sia escritz en aquest libre, fai abreujadament com plus planament por, aquest libre al sieu amable fill, per tal que plus leugieyrament e enans puescha intrar en la sciencia en la qual sapcha conoisser amar e servir son glorios Dieu. El comensamen cove que hom fassa apenre son fill los .xiiij. articles de la sancta fe catholica e los .x. mandamens que nostre senher Dieus done a Moysen el desertz. Covenens chauza es que hom a sso fill mostre a cogita en la gloria de paradis e en las penas efernals e els autres chapitols que se contenon en aquest libre. Car per aytal cogitamens s’acostuma l’enfant a amar et entemer Dieu e cossent a bos nuirimens. 

.j. Dels .xiiij. articles de .j. Dieu. 

Fils, tu sapchas que article son creire et amar veras chausas e meravilhozas de Dieu. Le prumiers articles es creyre .j. Dieu, le quals es comensamens de totz comensament e senhers be fazens de tot cant es. A creire te coven .j. Dieu esser tan solamen, el qual non a nul defallimen,  ans es complimens de totz achabamens. Aquest Dieus es no vizibles als tieus oils corporals e es vizibles als oils de tota arma e es dignes de tota lausor e de totz onrament. En Dieu es boneza amors vertat veritat gloria perfectios drechura largesa misericordia humilitas senhoria paciencia. En Dieu a motas virtus semblans a aquestas. E chascuna d’ aquestas virtutz essems son .j. Dieus tan solamen. Hobligatz iestz a creire et amar aquestas chausas. E per aisso iestz creatz e vengutz en aquest mon que .j. Dieu tan solamen creias et azoras e ames e temias; e si aiso no fas, las penas effernals t’apelaran, que lai aves sostennir trebails non feinitz. Amables es Dieus, car es totz bos; grans es Dieus, car tot cant es termena en el; durable es Dieus car non a comensament ni fin; temables es Dieus, car tots poders es en el et totas chausas sap. Fills, ama Dieu per so que el te ame e que te fassa agradable allas gens; la veritat que as  en vezer en auzir en odorar en tochar en parlar, totas las as de Dieu. 

Ama veritat per tal que li divina veritat non te sapcha messongier. Mespreza la gloria d’aquest mon que pauc dura, per so que sias possezidors de la gloria que non a fi. La tieua arma saolla la de la perfectio de Dieu, car nulha autra chauza non li pot donar compliment. Fils, ama justizia, car si non o fas, justizia te justiziara a sufric perdurable. No sias cobes a Dieu de so que t’a donat, car mais te pot donar o tolre que ad autre. Ajas misericordia, si vols que te sia perdonat. Humilia te a Dieu que essausa los humilis et devala los ergollos. Non ajas vergonha de honrar et servir et obezir Dieu, car honratz senhers t’es, et ama paciencia per so que non chaias en l’ira de Dieu. Fills, si crezes en .j. Dieu, acomplir te coven totas las chauzas davant dichas e motas d’autras semblans a aquellas, si vols esser agradables a Dieu. 


.ij. De Trinitat. 


Obligatz iest, amables fills, a creire en la  sancta Trinitat de nostre senhor Dieu, la qual Trinitat es .j. Dieus que es en Trinitat. So es assaber lo Paires e lo Fills e lo sans Esperitz. En creire .j. Dieu es le premiers articles, e creire en Dieu Paire es le segonz, e creire en Dieu lo Fill es le terz, e creire en Dieu sants Sperit es le quartz. Dieus Paires engenret de se meteus Dieu Fill et Dieus sans Esperitz ieys (1 : ieys fu aggiunto nel margine.) de Dieu paire e de Dieu lo fill et le Paires e le Fils et sans Esperitz son a Dieus 

tan solamen. En fundament et eternal et ab tot compliment engenra Dieus le Paires Dieus Fils et ver Dieus sans Esperitz de Dieu Paires e de Dieu Fils. Le Paires es .j. e le fils es autres e le sans Esperitz es autres e totas aquestas tres personas son .j. poders una savisa (saviea, saviesa) una amors. Fils, que dic de la sancta Trinitat de Dieu e de la sieua unitat es aissi con dic, encaras miels que non te puesc dire. E ssi tu en aquest mon per lum de fe crezes, en l’autre segle o entendras per lum de entendement enluminat, per la divinal entelligencia. Sabes per que tu, fils, non podes entedre et siest obligas a creire so que non entens de la santa Trinitat. Car li unitas e li trinitas de Dieu es majers que le tieus entendemens e car ieu non t’o dic en  manieyra que tu o puescha entendre. Non descreas tot so que non potz entendre, car, si o fas, tu vols far major ton entendement a totas chauzas. E sabes per que te parli enaisi sotilmen, per so que tos entendemens s’acoste a essaussar en entendre e tos volers en amar Dieu. Non mespreses, fils, aquest libre per so car grossament es recomtatz, car non es fatz a essalsa entendemen, ans es faitz per so que l’entendemens dels effans pueschan esser eissausatz a entendre aquest mon e Dieu. 


.ijj. De creatio. 


Creayres es fazeires que a fag lo mon de non re. On el comensamen Dieu lo cel e la terra creiet, e fo lo primier jorn del diemenga, el cal creet los angels et en aquel jorn chaegron li demoni de cel, per so car volgron esser senblan al Altisme ; et coferme Dieus los angels enistamen que non poguessan pechar. E lo lus (lo dilluns; el lunes) creet lo cel el cal istau li angel denan Dieu. E lo dimars cree Dieus la mar e la terra e las herbas et los arbres e lur semensas. E lo dimercres cree Dieus lo soleill e la luna e las estelas per enlumenar la mar e la terra. E lo dijous creet Dieus ausels bestias. E lo divenres creet Dieus  home que ac nom Adam, e can fo adurmis trais li una costa don creet fempna, so es Eva. E de Adam sem tug issi. En aquel jorn meteus mes Dieus Adam et Eva en paradis terrenal. E fetz lo senhor de totas las bestias e de totas las plantas e de totz los aucels e de totz so que terra leva ni soste. El seten jorn Dieus repauzet, a demostrar que Dieus avia dona al mon tot so que era covinent a esser crea, e per aisso le setes jorns (1: Ms. ionrs.) fon jorns festivals e jorns de lauzar e honrar e contemplar Dieu, a demostrar que en aquel jorn on lo mons comence, coven fenir le operamens de nostra redempcio. Fils, si vols aver salvacio, a creire te cove que Dieus sia creaires de tot cant es, tornaria a non re, si Dieus non o sostenia, et ses Dieu so que es non seria. Vejas, fils, can graus chauza a Dieus creaas aissi, con lo cel e la mar e la terra. E vejas cantas creaturas a diversas creadas (2). 

(2) Veramente si dovrebbe leggere creades, essendovi un d tagliato. 

Ma sarebbe questo il solo esempio di -es per -as che ricorra in tutto il 

testo; e non è il caso di pensare a un catalanismo. 

E esgarda con las creaturas bellas e profitablas. On si en las creaturas a tan de be, obre los oils de l’arma e veras can grans e can nobles es e bos

le creaires que totas chauzas a creiadas. Tut li rei que son ni tut li home d’aquest mon no poirian creia una flor ni una bestia, ni non poirian creiar nulha creatura, ni poiria vedar al soleil so movement,


ni alla plueja son devallamen. D’aquellas chauzas que son a 

home plus nessessarias a Dieu dona major habundancia, aissi con 

d’aher e d’aiga e de fuec et de sal e de ferre e de pan e de l’autras chauzas semblans a aquestas. Crea Dieus alas (allas) aus aucels per so que poguessant volar et a lur dona pluma, per so que sian lur sabatas et als arbres a creadas fueillas per so que pogussan lors frucs maurrar. Et a las peis a creada la mar per so que pueschan nadar. E a chascuna creatura a creadas Dieus aquellas proprietas que li son mestier. Dieus a crea a home lo chaval per chavaujar (cheval : cavall : caballo per cavalcar, cavalgar, cabalgar) et lana per vestir e lo fuoc per chalfar e lo buou per arar e totas las autras creaturas a creadas Dieus a servir home. Can seras, fils, a la taula  et auras nant tu las viandas que deves manjar, remembra cantas creaturas i veiras, las cals Dieus a creadas. E entent que las chauzas que tu manjas t’a fachas Dieus adveire de divers luocs. Dieus a creat los oils, per so que ab els lo vejas en las creaturas qui ll representon als oils de tota pessa (1: Parole sottolineate nel ms.) E Dieus a creada ta memoria per so que ab ella lo remembres. E Dieus a creat ton cors per so que sia chambra, on lo tenhas e l’ames. 

E Dieus a creadas tas mas per so que fassas bonas obras. E a creat tos pes per so que per las soas charreiras (carrarias : carreres : carrers : calles) anes, e a creada ta bocha, per so que l lauzes e lo benezig… (2: Macchia nel ms.). Non poiria, fils, dire tantas creaturas a Dieus creadas ni non sabria dir la senhoria que t’a dona asobre elas, ni tu non poirias entendre lo gran deute en que tu siest esdevengutz per los grans beneficis que as receupus de ton creador. Remembre te con Dieus pogra far peira fust o bestia si s volgues. E enten con te pogra far contrag o juzieu o sarrazi o demoni o alcuna autra chauza a la qual fora meilhor chauza non esser que esser. A cossiderar e a pessar te cove, amable fils, totas las chauzas davan dichas, per tal que en la presencia d’aquest mon fassas obras per las quals sias agradables als sans de gloria et a ton Dieu. 


.iiii. De Recreatio. 


 Recreacios es recobrar so que avia perdut nostres senhers Dieus en son ploble, et recreacios es tolre al demoni son poer lo qual avia sobre nos autres. En pechat et en error chaec, fils, totz l’umas linhatges per nostre premier payre Adam e per nostra mayre Eva, que foron desobedien a Dieu nostre senhor de gloria. E per aisso convenc que l pechatz fos vengutz e sobratz per aquel que es plus contraris a pechat que nulha autra chauza. Cum Dieus, beenetz sia, el ac crea Adam et Eva et los ac mes en paradis terrenal, el fes mandament a Adam que de totz los autres fruc manges en fora .j., car, si d’aquel manjava, 

segurs fora de mort. E lo demonis en forma de serpent venc a nostra mayre Eva e cosselhet li que il fezes tant que Adams manges del fruc que Dieus li avia devea. E car Adams manget del fruc e fo desobediens a nostre senhor Dieus, per aisso chazec aquestz mortz e aquestz trebails que tu vezes en nos autres, e fo facha discordia entre Dieu e l’uma linhage. Si Adams non peches ni passes lo mandament de Dieu, homs non morigra ni agra fam ni set ni chalor ni freit ni malautia ni 

trebailh. Mas per l’original pecha sapchas que tug chaeguem en  l’ira de Dieu et Adams et Eva foron gitat de paradis en aquel jorn el qual i foron mes. Tut aquil que moria anavan en fuec efernal, en tro que plac al sobeira Paire que sos fils prezes char en nostra dona santa Maria per gracia del sant Esperit. E adonc le fils de Dieu per sa gran pietat venc en una donzella verges que era apellada nostra dona sancta Maria, li quals fo del linatge de David. En aquella donzella le fils de Dieu fo 

encharnas e nasquet istant en la verges ses corompement ni perdet sa vergenetat. D’aquella donzella nasque Dieus et homs essems so es nostre senhors Ihesu Cristz, el qual son doas naturas, so es a saber natura divina e natura huma tan solamen. Aquestz Ihesu Cristz venc el mon per recrear lo mon e per eissaussar l’uman linhatge que era chautz, le quals fo exalsatz ab vertu d’ajostamen fag de natura divina e human e ab lo trebalh e la passio que sostenc per amor de nos autres. Fils, a creire te cove en aquest senhor Ihesu Cristz de que ieu parle, car si non o fazias, no serias recreatz ni seria levada de tu li colpa li quals te fon  donaa per lo premier paire en la qual son li juzieu e li sarazi e li autre non fìzel, per so car non creion en l’avenemen et en la passion de nostre senhor Ihesu Crist. Si tan mala chauza es, fils, pechatz et esser desobediens a Dieu, que per .j. pecha tan solament fom tug en l’ira de Dieu, e per aquel pecha adelir le fils de Dieu en volc esser encharnas en humanita que pris e li covenc asostenir angyssos trebals e greu mort, gardate, fils, de pecha, car per pecha et homs desobediens al Altisme e Dieus es enemics d’ome. 

Cant homs fay pechat e per la desobediencia e per lo pecha, van li pechaor en fuec perdurable sostenir greus trebails et perdon l’eternal gloria de nostre senhor Dieu. 


.v. De gloria. 


Gloria es, fils, continua et frequens benanansa ses null cessamen, en lauzar alquel que dona la gloria, la qual gloria es donada per nostre senhor Dieu que gloriament en sa gloria dona gloria als sans de gloria. Donc, si tu, fils, vols aver gloria, a creire te cove que Dieus sia glorificayres dels benauratz de paradis e que aquil sian glo  rifìat (glorifiat; glorificat; glorificado) en la siua gloria e que Dieus los glorifica ab sa gloria meteussa. Enaissi con le fuec que ab si meteus eschalfa, enaissi le sans reis de gloria ab si meteus dona gloria als angels et als sans que son en gloria. Si Dieus en aquest mon dona a ton cors benanansa d’aquesta chauza corrumpablas temporals que non son gloria, quant mais, fils, le reis de gloria qui es gloria po donar a sos amics em paradis gloria. Sapchas, fils, que li gloria de paradis et amar et servir Dieu et donar lauzor de Dieu. E chascus dels sans de paradis es glorificatz en la gloria de salut. Non crezas, fils, que en gloria homs mange ni beva ni jassa ab femna. Car totas aquestas chauzas se covenon ab aquest mon que es sucze et corrumpable et 

ples de defaillimens. Vezes tu, fils, lo cors mort de l’home just, le quals poiris en la terra quant hom lo soterra? aquel cors ressucitara al jorn del juzizi et sere plus resplandens que l soleils, et nulh temps no morra et aura mais de gloria que non es tota li gloria que es els homes d’ast mon. Si tu mesprezas la gloria d’aquest mon per so que ajas la gloria de l’autre, tu auras gloria que durara aitan can li gloria de Dieu. 

E doncs remembra et enten con  per menesprezar paucha gloria que dura pauc potz gazanhar gloria que dura aitan con li gloria de l’Altisme. A fils! et con en gran maledictio son aquil que por (1: Così il ms.) una paucha benanansa temporal perdun la selestial gloria, que non a fin et una entermens perdurables esser sosmes a enfenitz trebals! Si tu, fils, intras en gloria, onque sias aura gloria et atrobaras gloria e sabes perque per so car en totz los luecs de gloria es le glorificaires el senhers de gloria. Aquil que son en gloria aitant aman con entendon et aitant entendon con aman et tot so an que aman et entendon. On si tu, fils, en aquest mon non potz aver totz los delietz que entens, garda te que non perdas a ton voler la gloria que le tieus entendemens pot entendre. Si tu, fils, non donas la toa man per .j. denier ni lo tieu chap per .ij., garda te que non dones la selestial gloria per la gloria d’aquest mon. E si tu per la gloria d’aquest mon mespresas la gloria de l’autre segle, met lo tieu det el fuec et assaja si poiras sostenir lo fuec effernal perpetualmen, lo qual sosteno li dampnat. Car aquel fuec te covenra a sostenir si mesprezas la gloria de nostre senhor Dieu Jhesu Cristz. 


.vj. De Conceptio. 


 A creire te cove, fils, en la conceptio de nostre senhor Dieu Ihesu Crist, li quals es ajostamens que l fils de Dieu fes a si la natura humana que fo ajostada ab natura divina per la gratia del sant Sperit el ventre de nostra dona santa Maria verge gloriosa. El comensamen, can plac a nostre senhor Dieu que s volc humiliar a recreiar lo sieu poble, trames l’angel Gabriel a nostra dona santa Maria. Aquel angels glorios aportet salut a nostra dona santa Maria, maire de nostre senhor. E dis li: “Ave Maria gratia plena dominus tecum benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui; Spiritus Sanctus superveniet in te et virtus Altissimi obumbrabit tibi”. Aquestas salutz, fils, digas soven alla Vergen gloriosa. Car le majers plazers e le majers honramens que hom li pot far es que om la salude per aquellas salutz meesmas que sans Gabriels li aportet de nostre senhor Dieu. Demantenent que li Verges Maria  cossentic allas paraulas que sans Gabriels li dis de part nostre Senhor, conceup ver Dieu e ver home e fo aombrada del sant Esperit. En aquela conceptio fo li obra de totas las .iii. personas divinas, mas li persona del fil s’encarnet tan solamen 

a demostrar la diversita que es enfra lo Paire e lo Fil e lo sant Sperit. Le fils de Dieu es aquel que es una persona ab la humanitat que fo preza de la preciosa charn e del sanctifia sanc de nostra dona sancta Maria. Essems fo, fils, ajostada l’arma e lo cors de Jhesu Crist ab la natura divina. E li soa arma e l sieu cors essems foron el ventre de nostra dona. En aquel temps meteis que foron, ac le cors de Jhesu Crist totz sos membres e tota sa forma. En aquella saviza et a quella vertu et en aquel poer en que fo Jhesu Crist can fo cregutz, (crescut, creixcut : crecido) et ac perfieita etat, en aquella meteissa saviza et ab aquel poder e vertut fo encontene[n]t (incontinenti; encontinent : inmediatamente, enseguida) que fo ajosta ab lo fil de Dieu. Non te meravilles, fils, d’aquestas paraulas que ieu trameti a tu escrichas de la conceptio del fil de Dieu, car obra fo meravilhoza  la qual fo faita 

sobre natura per lo poer divinal que po far totas chauzas. Obligas ist, fils, a creire aquestas chauzas que ieu dic de la conceptio del fil de Dieu. E obligas iest a chastiar ton entendement per so que sias exalsatz per lum de fe; car enaissi con tug em naturalmen obligat a morir, enaissi per la nostra fragilita e per la sobeirana obra de l Altisme, sem tug obliga a creire so que non podem entendre de l’avenemen del fil de Dieu. L’avenemens de Jhesu Crist fo denuncias enans que fos per los sans paires als quals fo revelat per la divinal aspiracio. Obre, fils, los olis (oils : uèlhs : güellos o güeyos : ulls : oios : ojos) de ta pessa (pensa : pensamiento) e vejas lo gran honramen que le fils de Dieu a fag a tot l’uman linatge en so que volc penre la nostra natura e volc esser una persona meesma ab aquella. Remembra la boneza la grandeza la eternitat lo poder la saviza la amor et las  autras vertutz que son en nostre senhor Dieu, et vejas tan meravilhosamen et manifesta son manifestas en la conceptio, et en 

la encarnacio del fill de Dieu. Con le fils celestials  aja tu tant honrat en so que a prisa natura humana semblant alla toa, amable fils, ieu do cosseil a tu e prec e mandi aita charamen can puesc, que tu totas las toas forsas metas en conoisser amar et honrar lauzar servir nostre senhor Jhesu Crist, per tal que tas parulas e ta vida e tas obras al Dieu de gloria sia agradablas. Si tu vols esser honratz, honra lo fill de Dieu que tant t’a honrat. E si vols esser amatz, ama Jhesu Crist que tan t’a 

amat. E si as trebail ni tristor, conforta te en aquel que per tu humanitat a ajostada ab deitat. 



.vij. De nativitat. 


El nove mes que l fils de Dieu fo encarnatz volc naisser de nostra dona santa Maria. De la qual nasquet Dieus et homs ses dolor et ses corrupcio de nostra dona santa Maria. Sapias, fils, que nostra dona sancta Maria era paura femna d’aquestas richezas temporals. Mas richa era de virtutz et nada fo d’onrat linhatge. E per aisso can plac al fill de Dieu que nasques, nasquet en paure luoc, so es assaber en la crupia (pesebre) on manjavan las bestias. Si li fil dels reis e del baros naisson en palais et en chambras et en draps d’our (aur : or : aurum : oro) e de ceda (seda), et le salvaires del mon nasquet en estable et la pailla (palla; paja) que las bestias manjavan. A fils! tan breu foron li drap on le fils de Dieu fo envolopatz e tan paucs foron aquill e per tan pauchas personas fo servitz et aministratz. E inpero tut li home que naission son nat en colpa et en pechat, e le fils de Dieu nasquet per delir e per destrure pechat e colpas. Can veiras, fils, alcuna bella femna puramen vestida e sos esgardamens te signifiara honestat et aquil portara son bel fil entre sos bras vestit pauramen, adonc cogita en la natiutat del fil de Dieu que els bras de nostra dona sancta Maria era pauramen vestitz. Enaissi con li autre efan pauc se laissava aministrar. Le fils de Dieu e a nostra dona e pauc et pauc (1: Così il ms.) creissi sos cors. Ja siaisso que sos sens et sa vertutz fos majers que totz l’autres poders e tota l’autra vertutz que es en las creaturas. Azesma, fils, tan dous esgardamens era aquel que era entre Jhesu Crist e nostra dona que il sabia son fil senher de tot lo mon. E Jhesu Crist que sabia sa maire la meilhor e la plus nobla que anc fos e li plus bella ni jamais sia. Emable fils, tu iest natz e vengutz en aquest mon per honrar et servir aquest fil de Dieu de que ieu parle, per lo qual t’amoneste que tu l’ames e lo dezires a vezer. On si tu non l’amas ni lo servises, faras contra so per que iest vengutz en aquest mon et seras sers e chaitieus de perdurables trebails als quals seras justiziatz per la drechura sentencia de nostre senhor Dieu. 


.viij. De la passion. 


Amb amor et am plor te deuria esser recomtada, amable fill, li sancta passios de nostre senhor Dieu Jhesu Crist. Car aquill passios fo li majers sustentacios de mort e dolor que anc fos ni pueicha esser. 

En aquel temps que nostre senhers Dieus Jhesu Crist ac etat de .xxx. ans e predicava lo poble de Israhel et fazia mot de miracles, se s devenc que li juzieu tracterunt sa mort. E Judas Scariotz que era .j. dels .xij. apostols vendet als juzieus per .xxx. deniers lo fil de Dieu nostre senhor Dieu Jhesu Crist. E le fil de Dieu, que es senhers de tot cant es, sufric que el fos vendutz et liuratz a mort et a passio per so 

que desliures lo sieu poble del poder del diable. Can s’apropchava li passios de Jhesu Crist, estava en oracio aquella nueg (nuei o nuey; nuit; nit; noche) e denunciava la soa passio als apostols et ad aquels que ab el eran. E priava los que istesan en oracio e que dissessan aquestas paraulas: Pater noster qui es in celis… En aquella nueg e 

nostre senhors Jhesu Crist orava en quant era homs e fazia reverentia alla sancta deitat a demostrar que l era homs; venc Judas ab granre de juzieus armatz, prezeron et lo lieron nostre senhor Dieu Jhesu Crist e meneron l en per tal que fos crucifiatz e mortz. Vejas, fils, can grans fo li humilitatz de nostre senhor Jhesu Crist, car el que era et es senhors de tot lo mon se laisset liar als juzieus. Vejas et entendas tan coralmen ama la salvacio del sieu poble, le quals se avia a salvar per la cieua mort. Li apostol e aquil que eran ab el tut lo desampareron e tut fugiron. Mas empero sans Peires lo seguia, empero tres ves lo renee aquella nueg e dis que non lo conoicia… 

.xvij. Non faras homicidi.

Homicida es destrure et aucir los homes los quals Dieus vol que vivant. E per so que tos volers non sia, fils, contra lo voler de Dieu, te fai Dieus mandament que tu non fasas homicidi. Si Dieus non vol que tu aucizas, donc Dieus non vol que tu auciza tu mezeis. Rergada (regarda) e vejas que las bestias ni aucel que son ses razo que ill meteus non s’aucizon; cant mens es covinens chauza que tu, fils, ques es razo, non aucizas te mezeis. Amables fils, .j. homs pot aucire autre home, mas hom non pot tornar viu l’ome mort. Donc, si tu aucizes home et Dieus te demanda so que tout li as, que faras? Motas ves se s deve, fils, que en aucire home, auci hom l’arma de quel en fuec perdurable. En cant l’oms es ochaizos de la ira e de la mala volontat, en la qual mor, l’oms que hom auci per la qual ira et mala volonta, Dieus auci l’arma d’aquel en fuec effernal. Amables fils, si Dieus te manda que tu non aucizas lo cors, quant mais te manda que tu non aucias la toa arma en pechat. Com sia chauza que l’arma sia miellers que l cors. Gonella e mantel envellezisson, mas homicida non envellezis en la temor d’aquel que auci ni en la ira dels parens d’aquels que hom auci. Amable fils, no sias murtries (1) ni no vuellas aucire null home, car mot hom cujan aucire autre qui l moron. E Dieus auci motz homes per so que non aucian autres. Amable fils, so que Dieus fai e ten ajuda, e so per que Dieus pres charn et mori non vueillas tu destrure ni aucire. Car si o fag, en mespresament as Dieu e fas (sas : las seuas : sus : les seues : les seves) obras. Homs tantost can nais comensa a morir. Car chascun jorn se acosta ad el li mortz. E per aisso, fils, non chal que tu aucias home e laissa alla mort aucire home et perdona la mort per amor de Dieu.


.xviij. Non faras fornicatio. 

Fils, fornicatios (2) ex luxuria que es suxetatz de cors e de pessa, per la qual suxetat es elengnada castetatz et vergenetatz. Amable fils, sabes per que Dieus manda que non fassas fornicacio? per so que ab obediencia et ab netesa de cors et de pessa combatas ton cors tot jorn contra lo delieg de la charn que es engenrada de tan suza (3) 

(1) Era scritto muntries; l’r è soprascritto all’n dalla stessa mano. 

(2) Ms. fornicatos. (la o parece que lleve una rayita nasal encima) 

(3) Ms. fuza. (sutza; sucia) 

materia que orribla chausa es a esser nominada. Aesma, fils, la neteza que es en la flor et en l’arma vertuoza, e cossira en la gran suczetat que es en l’obra de luxuria, la qual ieu non azi nomnar ni escriure, per so que las plus laidas paraulas que sian no nomne ni escriva. Dieus a mandat, fils, que non fassas fornicacio, car fornicatios destrui lo cors Dieus a creat, destrui las richezas que Dieus comandadas a home, e destrui 

l’ entendement de l’arma, que es le mirals el qual mostra Dieus sas vertutz e sas obras. Luxuria gieta del coratge lealeza veritat e Dieu et l’angel que Dieus a donat az home per garda, e met en aquel coratge falsetat e messongas ello demoni. Per luxuria venon las femnas en ira de Dieu e de lors amics e de lur maritz et de lor parens, e per luxuria fan esser mesprezatz lurs effans entre las gen. Amable fils, luxuria fai los gens guarregar (guerrear) et los homes aucire et nafrar et las femnas e las viellas (les viles, las vilas; villas) e los chastels destrure e cremar. Non poyria dir ni sabria, fils, los mals que venon per luxuria; et per so car luxuria fay tan de mal et es uchaizos (ch : k : ocasió : ocasión) a tans de fallimens, per aisso a mandat nostre senhers Dieus ad ome que sia enemics de luxuria et amaires de chasteaz, per la qual casteta (ambas palabras: castidad) sia apellatz alla gloria de Dieu. 

(Acaba el fragmento en la página 486 del pdf)

https://archive.org/details/rendicontidella08filogoog

La versione occitanica della «Doctrina Pueril» di Ramon Llull, ed.
Maria Carla Marinoni, (Milà: LED, 1997), 331 pp.

https://www.sciencia.cat/db/bases.htm?bib=4213


http://www.ub.edu/llulldb/complet.asp?3431

Marinoni, Maria Carla (ed.), La versione occitanica della Doctrina pueril di Ramon Llull, edizione critica a cura di —, Milà, Edizioni Universitarie di Lettere, Economie e Diritto (LED) (Studi e Ricerche), 1997, 332 pp.

Una delle caratteristiche singolari della vasta produzione di Ramon Llull è data dall’esistenza di molti testimoni plurilingui delle opere dello scrittore maiorchino, in latino o in idiomi romanzi, come il francese, l’italiano, lo spagnolo, oltre naturalmente il catalano. Fino a oggi le versioni in lingua d’oc di opere lulliane, quali la Doctrina pueril e il Blaquerna, avevano ricevuto solo l’attenzione di alcuni linguisti e di studiosi dei rapporti culturali tra Occitania e Catalogna. Si offre qui l’edizione critica della versione occitanica della Doctrina pueril, un testo che si propone quale opera catechistica e di insegnamento elementare dedicata ai giovani e che potrebbe, per certi aspetti, essere ricondotta al modello dell’ensenhamen. Tale versione è testimoniata da quattro manoscritti, uno completo e i restanti frammentari, che datano dalla fine del XIII al XV secolo. Lo studio introduttivo dell’edizione è dedicato in particolare a chiarire i rapporti esistenti tra la redazione catalana e quella occitanica, che si rivela essere dipendente dalla prima, e a individuare le caratteristiche della lingua dei quattro manoscritti, nell’intento di stabilirne l’appartenenza a differenti aree dialettali all’interno del variegato quadro della lingua d’oc.